1 stagioni - 7 episodi vedi scheda serie
Potevano titolarla Il Lago Nero o I misteri del Lago Nero oppure I ritornanti, data la grande affinità con Les Revenants (Fabrice Gobert, 2012-2015), ma non con il nome del paesino bolzanese che fa da teatro alla storia, per nulla evocativo, solo puro product placement. Per il resto, Curon, è la serie originale italiana di Netflix che aspettavamo.
Dopo il disastro di Baby (Antonio Le Fosse, et al., 2018-in corso) e l’inconsistenza di Summertime (Lagi/Sportiello, 2019-in corso), per non dire di Luna nera (Francesca Manieri, et al., 2020-in corso) di cui ignoravo l’esistenza, e fatti gli a parte con Suburra (Daniele Cesarano, 2017-2020), Curon possiede finalmente aspetti narrativi ed estetici di grande rilevanza.
Nonostante critiche tiepide, se non fredde, il supernatural drama firmato da Abbate, Facchin, Galassi e Matano riporta in grande spolvero il fantastico, con tutte le sue sottotracce, dal fiabesco allo stregonesco, dall’horror rurale all’horror carnale fino al romanzo di formazione adolescente, un classico kinghiano dei moduli narrativi del terrore. Un prodotto quindi più internazionale, americanofilo, che italiano – basti ricordare il gotico di Bava, gli horror di Fulci e Argento per capire che tutt’al più Curon può infilarsi nella rappresentazione del terrore nostrano disegnata da Pupi Avati – che però proprio su questioni tipicamente italiane regge buona parte del suo immaginario: la rivalità tra la cultura italiana e quella austriaca, il contrasto tra il cittadino, in questo caso di Milano, e i villici, in questo caso montanari, il cattolicesimo conservatore dei popoli montani sincronizzato con i rituali pagani dei krampus altoatesini. Possiamo a giusta ragione dire che Curon è un prodotto internazionale nella forma, ed italiano in buona parte dei contenuti, perché molti elementi narrativi sono invece universali e radicano nelle memorie dell’umanità.
Su tutti, è il tema del doppio a innervare la narrazione di Curon. Presente visivamente e concettualmente ovunque, il tema del doppio, tema tanto caro ai nostri scapigliati milanesi e alla letteratura europea e americana a cavallo tra otto e novecento, oggi poco praticato dall’horror main stream, è in realtà un serbatoio infinito di stimoli, suggerimenti e variazioni sul tema che sanno sfruttare al meglio gli sceneggiatori e i registi Fabio Mollo e Lyda Patitucci. Dualità come i due paesi, quello vecchio sommerso nella diga, di cui solo si può vedere il campanile, e quello nuovo costruito più a monte, le due culture, l’italiana e l’austriaca, la rivalità tra le due famiglie storiche del paese, una appunto italiana e l’altra austriaca, i protagonisti gemelli, il racconto dei due lupi che convivono in ognuno di noi, la specularità dell’attrazione omosessuale, senza ovviamente escludere la dualità maggiore, il doppio vero e proprio, evidente nonostante soprannaturale: i “ritornanti”.
Inoltre di Curon stupisce e si apprezza molto il ritorno di un horror di atmosfera, con le sue simbologie, le sue metafore, i moduli narrativi tipici di tanto horror classico. Tutto è modellato più sulla fiaba nera che sul racconto del terrore politico o metadiscorsivo, e non ci sono nemmeno tracce dell’horror ludico che prende in prestito dal genere le sue maschere e i suoi codici solo per creare azione fine a se stessa e cercare spaventi telefonati. In Curon, se non c’è un vero e proprio operatore perturbante, c’è però il classico piacere del racconto nero, benché attualizzato, come successo nelle prime due stagioni di Teen Wolf (Jeff Davis, 2011-2017) o in Riverdale (Roberto Aguirre-Sacasa, 2017-in corso), dove il gusto narrativo e visivo hanno la precedenza su altre strategie di rappresentazione. Anche l’infelice accostamento a Dark (Odar/Friese, 2017-2020) permette di vedere Curon nella sua giusta dimensione. La serie Netflix tedesca, anch’essa un supernatural drama adolescente, era più complessa e audace sul piano filosofico, virando più sulla sci-fi che sull’horror, mentre Curon, nella linearità della sua storia e nella facilità di lettura, restituisce il gusto per la visione/lettura di un vero racconto nero.
Oggi è pressoché difficile rappresentare il perturbante in un film horror. Si può solo quasi esclusivamente ricorrere alla rappresentazione pornografica della violenza e della morte, che se non sono certo elementi del racconto da bandire, sia chiaro, già utilizzati in precedenza per sconvolgere e provocare il pubblico e al tempo stesso rivedere il genere horror, sono oggigiorno inflazionati e deiconicizzati, tanto da assuefare lo sguardo alla loro presenza. Molto più intrigante e dialetticamente interessante è il ritorno al classico, al racconto misterioso, fiabesco, nero, stregonesco, soprannaturale, il racconto di paura che fonda la sua consistenza nell’utilizzo dei topoi classici dotandoli di senso attraverso la bellezza della loro resa visiva. La carne, comunque, resta uno degli elementi narrativi fondamentali del genere tanto quanto le notti di luna piena e i cimiteri – vedi alla voce Berenice (Edgar Allen Poe, 1835) – ed è quindi necessaria al racconto del terrore in qualsiasi delle sue forme di rappresentazione, che sia splatter, gore, mutazione, body horror, violenza o sessualità.
Su quest’ultimo punto Curon avrebbe potuto impegnarsi maggiormente e cercare, attraverso la corporeità, una strada per il perturbante. Il doppio, dopotutto, vive di carnalità e i corpi nudi degli attori potevano essere impiegati come dispositivi del perturbante e segnare di conseguenza uno scarto con il visto e il conosciuto per addentrarci nel non visto e nello sconosciuto. Per esempio, quando il doppio di Lukas (Luca Castellano) emerge dalle acque del lago è nudo, ma la regia taglia il frontale all’apparizione dell’inguine. Sarebbe stata audace la visione fallica dell’adolescente perturbatore, il lupo cattivo, la parte oscura di noi, che esce dalla sommersione, ovvero dal rimosso, e cammina al nostro fianco nella realtà immaginata della serie, come la Laura Palmer di Twin Peaks: The Return (Frost/Lynch, 2017) – e anche al serial lynchano Cuaron deve molto.
Le riviste online che di Curon hanno criticato l’assenza del perturbante, non hanno tutti i torti, ma rincorrendo questo dettaglio hanno perso di vista quanto di buono ci sia nella seria di Abbate. Se il tema centrale è il doppio, non è difficile rintracciare nel plot del teen drama la ricerca e la difesa dell’identità. I protagonisti sono i più giovani dopotutto e l’irruzione del terrore in una fase di mutamenti è un altro cardine del racconto nero. Basti pensare all’incipit quando la protagonista, ancora diciassettenne, vede il suo doppio uccidere la madre. È l’irruzione dell’impeto sessuale percepito come mostruosità da chi lo vive, proprio come lo rappresentava didascalicamente Alexandre Aja in Haute tension (2003) quando il maniaco – quindi la mostruosità – irrompe di notte nella casa delle due ragazze mentre una di loro è concentrata a masturbarsi. Ed è il riuscitissimo montaggio alternato tra l’irruzione del “mostro” e la masturbazione a esplicitare l’intenzione autoriale.
Pertanto, l’identità con tutti i suoi interrogativi è uno degli aspetti della serie che non possono passare in secondo piano, così come lodevole è stato scegliere di focalizzarsi più sulle conseguenze e le dinamiche che nascono dal mistero che sul mistero stesso. Sinceramente non credo che trattenere la natura del mistero di Curon per gli ultimi due episodi sarebbe stato più efficace. È una percezione di racconto horror superata, adeguata solo per un pubblico distratto che vuole conoscere il nome dell’assassino all’ultima pagina. Mentre invece, concentrarsi più sullo sviluppo della trama, conseguente a tale mistero, è una scelta intelligente non solo perché in contrasto con la narratologia contemporanea – forme e strutture narrative che prediligono la spiegazione, il perché degli eventi [vedi i tanti beginning delle saghe horror tesi a spiegare la nascita della mostruosità, di collocarla in un orizzonte realista forse per ammansirla, quando invece le icone horror nascono proprio indomite per disturbare] – ma anche perché lo spettatore si diverte a muoversi nel labirinto dei moduli narrativi, più o meno topicizzati, e a godere del gioco rappresentativo.
Certo è che Curon non è solo semplice intrattenimento. Nella sua riproposizione di cliché iconicizzati, come personaggi che si aggirano per lunghi corridoi bui in case abbandonate, strani rumori che destano la loro curiosità, l’attraversamento del bosco di notte, la presenza ferina in basso continuo del lupo con tutti i suoi significati annessi, e un’iconografia stregonesca fatta di maschere, crocifissi e candele votive che invece di scadere nel banale si attiva come dispositivo visivo del perturbante grazie ad una azzeccata isotopia, la serie riesce a riutilizzare metafore, simboli, significanti della sfera semantica del mistero e del terrore per parlare di altro. La dualità, la faida famigliare, la storia, l’adolescenza, etc., emergono a ogni passaggio della serie anche grazie alla capacità della regia di concretare nella forma il contenuto. Nonostante l’infelice tendenza al product placement turistico tutta italiana, la messa in scena è azzeccata, riuscendo a rendere un ambiente reale, conosciuto e ben connotato, un altrove dai rimandi universali. I contorni poco definiti degli esterni, le ambientazioni oscure, a tratti espressionistiche, l’ottimo montaggio e l’ottima fotografia cupa e impressionistica al tempo stesso, con sprazzi di luci elettriche fredde e intense e un’illuminazione a tratti antinaturalistica. Per non dire dei giovani protagonisti, perfettamente in parte e migliori dei seniors, troppo impostati, troppo televisivi. Su tutti Federico Russo, il cui Mauro, sordo e un po’ asociale, ricorda gli antieroi nerd proprio di Stephen King, propensi al fantastico e al soprannaturale con cui hanno un’affinità elettiva filosofica. Un applauso comunque a Valeria Bilello, finalmente in un ruolo che le permette di farsi apprezzare.
La lotta tra luce e ombra, tra lupo buono e lupo cattivo, in definitiva tra bene e male, è la lotta che sorregge ogni racconto del terrore insieme all’incontro con la paura e l’abisso dell’enigmatico. Questa lotta in Curon è ben presente e ben resa visivamente. Inoltre il taglio teen, felicemente kinghiano, e molto più kinghiano di Stranger Things (Duffer Bros., 2016-in corso), dota tale lotta, e quindi la serie, di quella magia primitiva che solo l’adolescenza e il terrore combinati insieme sanno evocare.
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