1 stagioni - 6 episodi vedi scheda serie
Apolide, ovvero “Se lo sei, di te non ci frega un emerito c---o”. Welcome to the Hotel Australia, ladies and gentlemen. Pieno di tutti i comfort, umano, sostenibile e soprattutto razionale. A differenza del “California”, qui è difficile tanto entrare quanto uscire.
Perché sapete cosa si dice: ah, l’Australie, terra di santi, canguri, grandi opportunità e… serial killer di outback (no, aspetta, questa è un’altra storia…). Terra promessa. Quantomeno, se si è della giusta pigmentazione cutanea, anche se – di tanto in tanto – può non bastare pure quello, come si evince dalle vicende della protagonista di questa narrazione chiara, precisa, capace d’andare dritta al punto.
Stateless è un’operazione coraggiosa e meritevole di grandi elogi. In relativamente poco tempo, riesce ad evidenziare tutto quel che v’è di storto, assurdo, riprovevole, indecente e talvolta fintanto paradossale nell’ormai famigerato “sistema di gestione dell’immigrazione” australiano (oggi peraltro convenientemente “esternalizzato” sulle isole come Nauru [visto che quel che non si vede o sente non ferisce, come ci ricordano le didascalie finali]). Sistema che qualcuno, dalle nostre bande, parrebbe voler persino imitare**.
Qualora siate già informati sui fatti, per così dire, probabilmente la miniserie vi dirà poco o nulla di nuovo, ma saprà quasi sicuramente catturarvi ciononostante, grazie alla sua comunque apprezzabile capacità di affrontare temi complessi da molteplici punti di vista evitando sempre le trappole della retorica e della semplificazione.
Il presupposto narrativo a prima vista “assurdo” dell’australiana che finisce per venir relegata lei stessa in un centro di detenzione per migranti è già da solo perfetto per descrivere sin da subito la rigidità intrinseca d’un sistema arbitrario, coercitivo, disumanizzante e ingiusto, incapace persino di vedere le realtà più lampanti (come nel caso dei bambini, costretti a subire la stessa sorte degli adulti).
Al pari di tantissimi altri angoli del mondo i migranti vengono trattati fin dal primo approdo come criminali potenziali – tutti, nessuno escluso (donne e bambini compresi, per l’appunto) – e spessissimo, per non dire sempre, finiscono per rimanere confinati in questi “centri” per anni e anni. Bloccati e “congelati”, in questi luoghi indefiniti e sospesi, possibilmente lontani dagli occhi e dai cuori dei “cittadini perbene”. D’altronde, particolarità dell’Australia è proprio quella di “offrire” un confino persino più efficace degli altri: difficile difatti fuggire dal bel mezzo del deserto più rovente o – a maggior ragione – da un’isoletta sperduta nel mezzo dell’oceano. Impresa altamente sconsigliabile.
E dunque, dopo aver affrontato traversie d'ogni genere, innumerevoli persone si ritrovano sospese in un limbo simil-infernale a tempo indeterminato, impossibilitate a compiere qualunque scelta di vita che non sia quella di resistere, sopportare, nella speranza d’ottenere in un futuro non troppo lontano la “carta vincente” per un futuro migliore. Nel frattempo, incarcerate, bistrattate e in genere ignorate da (quasi) tutti.
Il vasto e variopinto cast di personaggi offre una rapida ed efficace carrellata di generi, culture, vicende che ci impone di vedere le persone oltre i numeri.
Apprendiamo di Ameer, costretto dalla sfortuna a separarsi dalla moglie e dalle due figlie; di Javad, padre di due figli cui viene impedito di ricongiungersi con loro e la moglie; di Rosna, curda perseguitata, che non ha intenzione di arrendersi; dei “due Tamil” arroccati sul tetto pur di farsi notare e non rimanere invisibili; dell’anziano incarcerato da ben 7 anni sempre seduto muto e immobile nel mezzo del campo, valigia al fianco e di molti altri ancora.
Dall’altra parte, oltre al caso della protagonista Sofie Werner, malata e incompresa, nonché reduce da un brutto periodo come seguace d’una “setta” d’auto-aiuto; apprendiamo di Cam Sandford convinto dagli amici e dalla famiglia a prendere il lavoro in vista dei buoni guadagni, e di Clare Kowitz, inviata dal dipartimento dell’immigrazione a “gestire” la situazione al centro (ovvero, in altri termini, impedire il più possibile che si sappia cosa succede all’interno).
Visti i tempi “stretti”, non tutti sono approfonditi, ma tutti offrono un lampo, uno spiraglio, su un aspetto e un punto di vista che unito agli altri compone un quadro potente e realistico, costringendo lo spettatore a vedere il problema e impedendogli di voltarsi dall’altra parte. E così rende presente senza mezzi termini la brutalità e ristrettezza d’un sistema burocratico chiuso e ottuso, nonché tarato su metri di giudizio e comprensione “occidentalocentrici”, in modo tale che sin dal primo interscambio si generano incomprensioni su una faccenda all’apparenza banale come quella del cognome (nel caso di Ameer).
Inevitabile che si giunga – non di rado – a ben più inquietanti incomprensioni, come quella che fa dello stesso Ameer un trafficante di uomini dalla sera alla mattina.
Molto deriva dalla pretesta, alquanto delirante, che persone costrette a sobbarcarsi simili traversate abbiano una “storia coerente”, ma per la miseria soprattutto “verificabile”, alle spalle da raccontare. Pretesa che conduce a ricercare il minimo proverbiale “pelo nell’uovo” e a negare un visto sulla base di piccole e banali inevitabili discrepanze o inesattezze.
Il tutto induce a chiedersi: cosa si potrebbe ottenere di più se tutti quegli sforzi profusi nel ricercare la più piccola discrepanza o il più piccolo errore, cercando in tutti i modi di non riconoscere un visto ad una persona, fossero indirizzati invece nel tentativo di velocizzare il processo, comprendere le persone e in un secondo tempo magari tentare un cammino d’integrazione? E’ più facile a dirsi che a farsi, non c’è dubbio, ma se non ci si prova… Ma no, meglio spendere centinaia di milioni per tentare di “tappare la falla”, reprimere, tenere il problema lontano dalla vista e in sospeso.
Meglio non parlare poi dell’agghiacciante geniale metodo di “governo” dell’immigrazione alternativo (fuggevolmente menzionato pure nella serie): quello di respingere direttamente i barconi all’origine (o, come piace dire anche a certi grandi statisti nostrani, “salvare vite umane prevenendo gli sbarchi”, con linguaggio che è tanto vigliaccamente eufemistico quanto al dunque ipocrita e raggelante, viste le sue implicazioni).
Stateless è un tentativo di “alzare la voce” e imporre all’attenzione del pubblico queste tematiche, invitandolo anche ad un approfondimento successivo e – si spera – a non farsi sedurre dalle narrazioni più semplicistiche e “riduzionistiche” (che riportano tutto cioè ad un puro gioco di statistica e gestione emergenziale senza sguardo di lungo termine, con un pizzico di xenofobia gettata nel mezzo tanto per dare un po’ di pepe).
La serie fortemente voluta dalla Blanchett (che si ritaglia una particina) conosce una tensione crescente, non si abbandona al sentimentalismo e alla retorica, e “regala” un bel pugno nello stomaco, lasciando al termine della visione con un’angoscia difficile da scacciare via. Ma ne vale la pena, perché nessuno può sentirsi estraneo a quanto viene raccontato**.
** specialmente in considerazione del fatto che, dal 2013 in avanti, la situazione è molto peggiorata, la politica australiana in materia d’immigrazione si è fatta persino più rigida e, appunto, qualcuno dei nostri geniali politici di tanto in tanto s’inventa di volerla pure imitare (https://www.agi.it/estero/migranti_australia_no_way-4302404/news/2018-08-24/).
“No Way” (in pratica “Scordatevelo”), è diventato il motto/mantra del governo conservatore di Tabbott e successori. La violenza anche verbale della cosa è quasi allucinante (vedasi per credere https://www.youtube.com/watch?v=rT12WH4a92w). Chiunque, anche famiglie, donne, bambini non accompagnati, possono venire respinti o confinati sulle isolette come Nauru, senza distinzioni e senza pietà. Se non vi sembra che possa risultare d’interesse anche per noi, vista la situazione nel Mediterraneo e l’eventualità che certe idee politiche (insieme agli uomini e donne che le rappresentano) s’impongano definitivamente, non so che dirvi.
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