2 stagioni - 16 episodi vedi scheda serie
I primi due episodi sono esplosivi, poi tutto si normalizza, è vero, ma questo non scalfisce la rivoluzione semantica e linguistica della serie firmata da Sam Levinson, figlio di Barry. Se le classiche teen series come Beverly Hills 90210 (Darren Star, 1990-2000), Melrose Place (Darren Star, 1992-1999), Dawson’s Creek (Kevin Williamson, 1998-2003), Freaks and Geeks (Paul Feig, 1999-2000), Everwood (Greg Berlanti, 2002-2006), Un paso adelante (Écija/Pozuello, 2002-2005), One Tree Hill (Mark Schwahn, 2003-2012), The O. C. (Josh Schwartz, 2003-2007), e le precedenti sit com americane tipo Charles in Charge (Jacobs/Weisberg, 1984-1990) o Zero in condotta (Anne Beatts, 1992-1993) e l’apripista Happy Days (Garry Marshall, 1974-1984), raccontavano il mondo adolescente tra edulcorazioni, patinature e dogmi idealisti, dal timido tentativo di Life as We Know It (Sachs/Judah, 2004-2005) e ancor meglio a partire dal modello seriale moderno Skins (Brittain/Elsley, 2007-2013) si è iniziato più propriamente a parlare di teen drama, ovvero la messa in scena drammatica – nel senso di forma narrativa, non di registro o di genere – la rappresentazione di vicende adolescenziali, dove si tenta il tutto per tutto per raccontare in modo vero, reale ed esplicito il mondo dei più giovani che, dopo le X e Y Generation, trovano nella contemporanea Z Generation una condizione esistenziale più problematica.
Sono così arrivate, tra la commedia e il dramma, Ugly Betty (Silvio Horta, 2006-2010) dalla colombiana Betty la Fea (Fernando Gaitán, 1999-2001), Gossip Girl (Josh Schawartz, 2007-2012), La vita segreta di una teenager americana (Brenda Hampton, 2008-2013), Física o química (Carlos Monteros, 2008-2011) e Glee (Murphy/Falchuk,/Brennan, 2009-2015). Fanno seguito Diario di una nerd superstar (Lauren Iungerich, 2011-2016), la norvegese Skam (Julie Andem, 2015-2017) nelle sue varianti italiane, spagnole, francesi e americane in produzione tra il 2018 e il 2019, la catalana Merlí (Héctor Lozano, 2015-2018), Tredici (Brian Yorkey, 2017-in corso), Riverdale (Roberto Aguirre-Sacasa, 2017-in corso), The End of the Fxxxing World (Jonathan Entwistle, 2017-in corso), Élite (Montero/Madrona, 2018-in corso), Sex Education (Laurie Nunn, 2019-in corso), The Society (Christopher Keyser, 2019-in corso), e infine Euphoria (Sam Levinson, 2019-in corso) a chiudere un rigoglioso decennio di tentativi di narrazione dell’adolescenza.
Non vanno nemmeno dimenticate quelle serie di genere che mescolano il teen drama puro con i moduli e le iconografie di generi precisi come l’antesignana Buffy (Joss Whedon, 1997-2003), Veronica Mars (Ron Thomas, 2004-in corso), Misfits (Howard Overman, 2009-2013), Teen Wolf (Jeff Davis, 2011-2017), The Carrie Diaries (Amy B. Harris, 2013-2014), Scream Queens (Murphy/Falchuk/Brennan, 2015-2016), Scream: The Tv Series (Blotevogel/Dworkin/Beattie/Matthews, 2015-in corso) e la terza stagione di Slasher (Aaron Martin, 2019) diretta dall’ottimo Adam MacDonald – quello del capolavoro Backcountry (2014).
Ma com’è questa adolescenza che si sta tentando di raccontare? Nelle serie tv del decennio 010, ciò che spicca maggiormente è la questione sessuale. Se nelle serie precedenti il tema era affrontato con distacco, tenerezza e paternità, le serie tv più recenti hanno voluto trattare il tema con spregiudicatezza linguistica e in alcuni casi con vero e proprio realismo estetico, con tanto di nudi integrali – anche se farlocchi (Sex Education) oppure non dei protagonisti principali (Euphoria), e comunque in ogni caso senza mai toccare il tabù del sesso esplicito. Il tentativo è quello di fotografare e riprodurre nel miglior modo possibile la vita reale degli adolescenti di oggi e di chiamare ogni cosa con il suo nome, utilizzando non solo il linguaggio sboccato e trascurato dello slang giovanile, ma soprattutto trattare con tale linguaggio i temi più strettamente correlati agli adolescenti di inizio nuovo millennio e da loro più discussi.
Il primo teen drama targato HBO vince là dove le altre serie citate perdevano: rappresentare i giovani nudi e crudi, esattamente come sono nella realtà, senza filtri di nessun tipo, evitando come la peste letture facili, semplificazioni e rappresentazioni edulcorate della loro vita, spinta, veloce, trasgressiva. Se, per citare Federico Fellini, una lingua diversa è una forma diversa di vedere la vita, e sempre se per lingua intendiamo anche socioletti e idioletti, non è difficile rileggere Euphoria come sì la rappresentazione più diretta e scomoda dell’adolescenza mai vista finora, ma anche una critica implicita a tale generazione. Il linguaggio sboccato, trascurato, spregiudicato e in molti casi contiguo alla sfera semantica della noia, dell’incuria o dell’apatia, con cui vengono affrontati i vari temi, sessuali, sociali, relazionali e politici della serie, è anche la forma del contenuto, ovvero l’idea stessa che i giovani hanno di queste tematiche e di come le vivono, svelando così un orizzonte in buona parte inquietante. Una generazione iperconnessa e stoned che vive di conseguenza il suo rapporto con la realtà, con il proprio corpo, con il materico.
A riequilibrare le aspettative, a renderle più dolci e speranzose è l’estetica e il linguaggio cinematografico adottato da Sam Levinson che, benché non sia sempre il regista di tutti gli episodi, mette il suo sigillo sulla grammatica con cui le storie dei ragazzi protagonisti vengono narrate. Se molte scene appaiono eccessive e oltraggiose per saltare a piedi pari ogni filtro di pudore, molte altre hanno il potere di essere magiche. La narrazione in prima persona della protagonista e il suo modo di vedere e vivere il mondo che la circonda, è spesso modulata con sequenze stranianti o allucinate, tese a rendere il carattere alienato e dissociato non solo della protagonista, ma di una intera generazione. Inoltre, questi sprazzi di “realismo magico” aiutano a indorare l’amara pillola del realismo duro, crudo, impietoso e senza speranze nel quale spesso i più giovani credono di navigare senza vedere alcun porto sicuro a cui approdare.
Buona parte del successo immediato della serie, e delle polemiche conservatrici che l’hanno accompagnato, è sicuramente lo sguardo e il tocco dello showrunner e regista Sam Levinson, ma anche, oltre le scene di nudo, anche l’interpretazione grezza e spudorata dei suoi attori. Lascia senza parole l’interpretazione tra dramma e caricatura di Zendaya, bellissima e fresca attrice su cui ruota tutto il sistema dei personaggi. Per non parlare di Hunter Shaffer, attrice transessuale che non ricopre il solito ruolo marginale dedicato a macchiette di genere, ma un inedito fulcro narrativo da cui dipenderà il conflitto che porterà avanti l’azione drammatica. Tra gli attori è sicuramente il problematico villain interpretato da Jacob Elordi a fare la differenza. Lo statuario attore americano, forse uno dei corpi più perfetti della storia del cinema dopo Brad Pitt, si concede in alcune scene di nudo posteriore, si presta a declinare il suo personaggio verso la turba omosessuale e ci riserva ottime interpretazioni quando rasenta il ruolo della carogna tanto da scatenare nel pubblico una vera ansia di vendetta. Inoltre, nei suoi momenti di massima fragilità, l’attore sfoggia una capacità di immedesimazione efficace e commovente. Ma il personaggio maschile più interessante, se escludiamo il complesso e macchinoso padre di Jacob Elordi, ovvero Eric Dane – sarà lui ad apparire nudo e in erezione durante il primo episodio o una controfigura? – è McKay, il ragazzo di colore interpretato da Algee Smith. Sembra l’unico ad essere motivato da buoni sentimenti, sincerità e lealtà, pur commettendo gli errori di massima tipici di questa età di transito. Così come il personaggio di Kat, la ragazza obesa, interpretata da Barbie Ferreira, che scopre di essere l’oggetto del desiderio di ogni ragazzo e che di conseguenza intraprende una seconda vita dietro la cam del computer come dominatrix, è tra i più riusciti, diviso e sospeso tra trasgressione e purezza, scabrosità e tenerezza.
Come però anticipato, Euphoria fa il botto nei primi due episodi per poi abbassare il tiro. Non più nudi eccessivi, non più scelte narrative trasgressive e oltraggiose, ma una narrazione più addomesticata, più inibita, anche se sempre impreziosita dal linguaggio visivo di Sam Levinson. Sicuramente, Euphoria, batte le gemelle Sex Education ed Élite sul proprio terreno di gioco. Se in Sex Education si utilizzavano protesi, in Euphoria i nudi integrali sono veri; se in Élite la trasgressione sessuale veniva castrata dal montaggio o dall’assenza di nudi, in Euphoria tutto è visibile, anche se purtroppo non stiamo parlando dell’unsimulated sex. Resto infatti del parere, già espresso più volte, che se un’opera audiovisiva vuole trattare e indagare tematiche legate alla sessualità, al corpo, al nudo, alla carne e ai suoi piaceri e alle sue fisiologie non può farlo nascondendo l’oggetto del discorso, o tentare la frode intellettuale con protesi e accorgimenti inibitori. Inoltre, Euphoria cede là dove cedono tutte le serie tv di ultima generazione, quelle del being-watching, quelle dell’emissione di tutte le puntate nello stesso giorno, ovvero la dilatazione “narrativamente” improponibile di una questione, di un tema, di un nucleo narrativo che si possono tranquillamente sviluppare e chiudere con molta più efficacia nel giro di meno episodi. Forse, i nostri vecchi telefilm a puntate autoconclusive oggi sarebbero un modello necessario, oltre che rivoluzionario.
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