3 stagioni - 22 episodi vedi scheda serie
In un progetto, di qualsiasi natura esso sia, l’avere a disposizione un metro di paragone diretto e uno specifico punto di riferimento, include vantaggi e svantaggi. Da una parte, ci sono una base su cui lavorare e punti fermi da cui partire per poi prendere il largo, dall’altra il confronto con il prototipo non è eludibile. Talvolta, nemmeno il ricorso al medesimo manico consente di farla franca.
Di fatto, la prima stagione di Hanna arranca, non solo per colpe imputabili a fattori esterni, offrendo un discreto grado d’intrattenimento a cui non fa seguito altrettanta lucidità in fase d’esecuzione.
Hanna (Esme Creed-Miles) è un’adolescente cresciuta da suo padre Erik (Joel Kinnaman) lontana dalla società civile, addestrata per sopravvivere alle peggiori avversità e trasformata in un’assassina letale. Crescendo, la sua curiosità nei confronti della vita farà sì che Marissa Wiegler (Mireille Enos), agente al servizio di un ente governativo, torni sulle tracce, seriamente intenzionata a catturarla per riprendere un progetto, mai del tutto accantonato, che prevedeva di utilizzare la ragazzina come arma non convenzionale.
Dopo una fuga iniziale, mentre Erik cercherà in tutti i modi di fermare i piani di Marissa, Hanna acquisirà coscienza della propria natura, cominciando anche a fare le prime esperienze da ragazza normale, ad esempio stringendo amicizia con la coetanea Sophie (Rhianne Barreto).
Per guardare avanti, dovrà prima scavare nel suo passato e poi passare al contrattacco per eliminare quei pericoli che la minacciano senza concederle tregua. Così, scoprirà la storia di sua madre (Joanna Kulig) e la verità sulla sua nascita, due passi fondamentali per capire dove e come colpire il nemico.
Hanna è un progetto seriale realizzato da Amazon Prime in pompa magna, usufruendo di una notevole vastità di scenari (già nei primi due episodi passiamo dalle montagne innevate al deserto africano) e di un voluminoso cast internazionale (insomma, sulla falsariga di Jack Ryan), un materiale disposto al servizio dello sceneggiatore David Farr, lo stesso che nel 2011 scrisse l’omonimo film diretto da Joe Wright.
Ovviamente, i tempi dell’azione sono completamente diversi da quelli di un lungometraggio, il passo lungo della serie consente di allargare il campo dell’azione e di entrare maggiormente nel dettaglio, ma i conti nel paragone non tornano. Nella fattispecie, l’inizio che guarda alle spalle apre una pagina stimolante, ma subito dopo parte una rimodulazione sostanzialmente fedele a quanto già conosciuto (per quanto, qui l’iniziale rapporto fuori dal mondo tra padre e figlia assuma connotati à la The village), per poi andare oltre nella seconda parte di stagione. Anche lo stile cambia pelle, lasciando da parte le sfumature originali per rientrare in ranghi convenzionali da action thriller, con scaglie dedicate alla psicologia dei personaggi principali ed estemporanei frammenti più umani, che inquadrano la scoperta del mondo da parte di Hanna, cosicché anche la cosa più banale si trasforma in una scoperta elettrizzante.
Oltre a un raffronto diretto – dai risultati insoddisfacenti - con il film, Hanna genera perplessità anche se analizzato senza visioni preventive. In generale, il meccanismo è freddo ma impreciso, posizionandosi in un’ottica che non consente di perdonare a cuor leggero i suoi scatti imprudenti. Soprattutto in corrispondenza delle scene d’azione più caotiche, barcolla e accelera, con una gestione narrativa latitante, tra non seguitur macroscopici e svariate leggerezze non associabili agli ambienti descritti (d’altro canto, gli servono per non far morire tutti nel giro di tre episodi, insomma Houston abbiamo un problema). Purtroppo, non si parla di mancanze di poco conto, bensì della latitanza di una conditio sine qua non fondamentale, tanto più se prendiamo atto del panorama seriale degli ultimi anni, che su coerenza e coesione dello sviluppo ha imbastito un laboratorio di idee, il suo scudo e di conseguenza le sue fortune.
Un limite gravoso, che penalizza e circoscrive il personaggio principale (Esme Creed-Miles rimane interessante, per quanto ogni paragone con Saoirse Ronan sia inattuabile), mentre Joel Kinnaman ha una fissità scoraggiante (almeno quando occorrerebbe qualcosa di più di una presenza muscolare) e l’esiguo spazio assegnato a Joanna Kulig (Cold war) non renda piena giustizia a un’attrice straordinaria. Invece, a fare la differenza – in positivo – ci pensa Mireille Enos, che ritrae una donna inquietante, a tratti diabolica ma tutt’altro che disumana per partito preso (in fondo, anche lei avrebbe un sogno da far germogliare), coadiuvata dal fatto di incarnare il personaggio più circostanziato, soprattutto quando il coltello cambia manico e da antagonista diventa a tutti gli effetti una seconda protagonista.
Comunque sia, alla prima stagione di Hanna, culminante in un finale frettoloso che – in mezzo a decine di militari uccisi come fossero pivelli - apre semplicemente la strada a una seconda annata già ufficializzata, questo approfondimento non basta, così come il congiungere e dividere più volte i destini non porta un dividendo tangibile. È troppo facile coglierla in castagna e i suoi contrappesi non funzionano per filo e per segno, per via di stratagemmi azzardati e di salti tripli nell’esecuzione, che debilitano quanto comunque rimane leggibile, come quegli scheletri nell’armadio appartenenti a tutti, esattamente come i segreti (Marissa non può dire nulla a un compagno che ama, Erik deve nascondere tutto a Hanna che, a sua volta, deve arrabattarsi con ogni persona incontrata), che non consentono di intraprendere con spensieratezza la strada verso una felicità personale in fondo desiderata al di sopra di ogni altra cosa.
Coinvolgente, ma staccando troppe volte la spina della credibilità.
Spericolato e sbrodolato.
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