8 stagioni - 80 episodi vedi scheda serie
Che senso hanno le tre stagioni di Elite senza nudi integrali?
La seconda serie originale spagnola di Netflix, come ha centrato in pieno i temi e il target di riferimento, ha pure scivolato sugli stessi, riducendo non di poco il successo e il peso culturale, artistico e sociale dell’operazione.
In Spagna, come in America, molte sono state le serie televisive generazionali di ambientazione scolastica, le cosiddette series de instituto. Da Al salir de clase (Cuadri, Palencia, 1997-2002) fino ad Élite (Madrona, Montero, 2018), passando per SMS – Sin Miedo a Soñar (Pozuelo, Écija Ortiz, 2007-2007), El internado (Écija, Belloso, Cueto, Martínez-Llano, 2007-2010) e Física o química (Montero, 2008-2011), gli adolescenti spagnoli a cavallo tra i due secoli hanno potuto rivedersi sul piccolo schermo, nel bene e nel male, e riconoscersi tra stereotipi e patemi telenovelici. Con Élite però si assiste a un cambiamento radicale di queste produzioni. La serie tv abbandona la televisione tradizionale e generalista, con tutte le sue coordinate linguistiche e politiche, per indirizzarsi a un pubblico di adolescenti che non solo sono i protagonisti della serie, ma anche il target di riferimento, gli spettatori più abituati alle piattaforme digitali. La modalità di fruizione di un prodotto audiovisivo, al netto di “altri” audiovisivi di nuova generazione – non più il videoclip, bensì i video di YouTube in tutte le loro declinazioni, le stories di Instagram, i video porno amatoriali dei vari siti di sharing, e così via… - non sono affatto da sottovalutare nell’economia contemporanea della narrazione del reale. Questo infatti è uno dei punti di forza di Élite, tra cui c’è anche la capacità di Montero, come ai tempi di Física o química, di saper inquadrare gli adolescenti dell’epoca in un istant che ha le stesse basi autoriali dei vari Freaks and Geeks (Paul Feig, 1999-2000), Veronica Mars (Rob Thomas, 2004-2007), Skins (Brittain, Elsley, 2007-2013), Skam (Julie Andem, 2015-2017) e Skam Italia (Ludovico Bessegato, 2018-in corso), una delle sue versioni più applaudite e Riverdale (Roberto Aguirre-Sacasa, 2017-in corso). Queste serie televisive, chi più chi meno, hanno rivoluzionato il panorama dei teen drama scolastici dai tempi dell’epocale Beverly Hills 90210 (Darren Star, 1990-2000) e di Dawson’s Creek (Kevin Williamson, 1998-2003), di cui The O. C. (Josch Schwarz, 2003-2007) è stato purtroppo solo un surrogato fuori tempo massimo – caso a parte sono gli horror teen drama come Scream: The TV Series (Blotevogel, Dworkin, Beattie, 2015-in corso) e Screem Queens (Murhy, Falchuck, Brennan, 2015-2016) di cui Buffy l’ammazzavampiri (Joss Whedon, 1997-2003) è il prototipo.
Gli altri elementi su cui si fonda l’interesse e il successo di Élite sono ovviamente i personaggi, o meglio gli attori che gli interpretano, volti più o meno noti del piccolo e grande schermo spagnolo, di grande impatto estetico, la cui fisicità è l’oggetto scopico della serie. Inoltre, Montero sceglie la linea libertina di Netflix e parla di sesso, droga, alcol, feste spregiudicati, rapporti a tre, omosessualità espresse e represse, gravidanze inaspettate, l’HIV, il razzismo, la religione e l’islamofobia, la corruzione politica e il classismo. Temi che s’infilano tra i topici canonici del genere, come i problemi di cuore, il coming of age, il conflitto intergenerazionale con i genitori, etc. Tutta questa carne al fuoco non pregiudica affatto la riuscita della serie perché non è concepita come una telenovela in cui il pathos ruba la scena alle tematiche e in cui le ragioni del politicamente corretto e del pudore ideologico smorzano la portata dialettica. Tutt’altro. Uno dei maggiori punti di forza della serie è anche il suo tema silenziosamente centrale, ovvero, la progressiva presa di coscienza di un gruppo di adolescenti di ricca famiglia, abituati agli agi e ai privilegi di casta, che grazie all’incontro/scontro con tre nuovi compagni di estrazione opposta, mettono in crisi il proprio status sociale, andando pure contro gli obblighi di famiglia.
Nel prestigioso collegio dove si educano e formano i leader del futuro cova il seme della ribellione. Innanzitutto, ribellione comportamentale come succede a ogni adolescente del mondo e della storia per il quale le trasgressioni di condotta sono un mezzo per cercare se stesso e il proprio posto nel mondo. In secondo luogo, è una ribellione netta con il mondo degli adulti, già di loro marginali nel sistema dei personaggi della serie e rappresentanti di un mondo storto, iniquo, intollerante e corrotto in cui i giovani, nel loro slancio trasgressivo ed autodistruttivo non vogliono più credere. Tant’è che lungo l’arco degli otto episodi della serie assistiamo a come l’intrusione di agenti esterni come i nuovi tre compagni di corso in un ambiente rigoroso e scientificamente impostato sulla competizione e l’esclusione, finisca per rivoluzionare le vite dei giovani protagonisti di entrambe le sponde, sia ricchi che poveri, sia maschi che femmine, sia etero che omosessuali.
La conferma di questo taglio socio-politico è anche il fatto che la trama criminale, con cui inizia il primo episodio, ovvero la morte di uno studente di cui non si conosce l’identità, pur innervando il plot principale e spingendo l’azione verso un giallo ad enigma al contrario, dato che oltre all’assassino ci si chiede anche chi sarà la vittima durante la festa di fine anno, è quasi un orpello in confronto alle restanti linee narrative, una mera scusa per raccontare altro. Montero infatti, si interessa così tanto al rapporto tra i vari personaggi nei loro momenti di massima trasgressione che gli otto episodi possiamo dire siano concertati attorno più a nuclei narrativi di estremo contenuto, quasi sempre sessuale, che alla trama spiccatamente crime, offuscata e lasciata così in secondo piano.
Il successo di Élite è quindi pressoché dovuto al ritratto che Montero fa di questi adolescenti del nuovo secolo con i loro slanci autodistruttivi, egomaniacali e patetici, con tutta la loro boria di provare tutto e subito, scoprire e sperimentare ogni cosa come se non ci fosse un domani. Ragazzi i cui valori sono i disvalori dei loro avi. L’eccesso diventa estetica, l’accumulo di ricchezza e lo sfoggio del proprio status diventano il mezzo per un’inclusione esclusiva. Una sessualità liquida ed ambigua, tanto allegra quanto irresponsabile, diventa l’unico modo con cui relazionarsi e gestire le amicizie. Il corpo è, ancora una volta, l’unica certezza che abbiamo e diventa di conseguenza il fulcro di ogni relazione, la moneta di scambio per qualsiasi traguardo. Non è un caso che la serie sia piena di corpi nudi, per lo più maschili, anzi, il nudo è proprio un elemento voluto e ricercato, probabilmente solo per questioni di mercato. E qui si trova infatti il grande fraintendimento di Élite che ne ridimensiona tutta la portata.
A parte qualche nudo maschile da tergo di Miguel Herrán, Miguel Bernardeu, Arón Piper, Omar Ayuso e Álvaro Rico, e i pochissimi topless femminili, quasi tutti appannaggio di María Pedraza, la serie risulta molto castrata. Parla di triangoli sessuali anche omoerotici, relazioni omossessuali, copule occasionali e free condom, ma non mostra nulla. Così facendo si è depotenziata la dialettica estetica della serie che, privandosi del suo oggetto di discussione, ovvero il corpo – non dimentichiamoci che ci sono di mezzo anche un cadavere e una gravidanza – perde ogni efficacia e si trasforma in un festival del pudore televisivo generalista.
È quindi ragionevole descrivere Élite come una serie pretenziosa, che vuole puntare ad essere la fotografia più nitida – digitale (?) – di una generazione di adolescenti techno addicted, ma che scivola proprio sul contenuto che vuole esaltare. Manca di forza e coraggio, di ambizione e spregiudicatezza. Il suo fin troppo cristallino senso del pudore offende l'intelligenza e lo spirito critico dello spettatore, ridicolizza temi assunti a pilastro di una serie Netflix che invece dovrebbero essere trattati con tutto il coraggio e lo sprezzo possibile e inoltre cala un velo inquietante sulla percezione dell'atto sessuale delle nuove generazioni: che forse nell’invisibilità del nudo integrale e dei rapporti sessuali espliciti Montero ci stia dicendo che queste generazioni concepiscono il sesso solo come logos e non come facto?
Insomma, un Don Juan senza convidado de piedra di cui si salvano sole le buone performance degli attori. Miguel “Huracán” Herrán è forse un po’ troppo sulle righe ed istrionico, oltre che sproporzionato nella sua nuova body line ipertrofica, mentre gli applausi sono tutti per Mina El Hammani che sa erotizzare ogni scena in cui è presente nonostante il castigo degli abiti, a conferma che uno sguardo può smuovere anche le montagne. Inutile dire che Jaime Lorente è tra i migliori in campo, e che l’odioso figlio di papà interpretato da Miguel Bernardeu sa stupire negli scarti recitativi, mentre Arón Piper porta a casa la palma per il miglior attore. Il suo personaggio, grazie ad un gioco intelligente di esposizione e sottrazione risulta tra i meglio tratteggiati ed interpretati, come se fosse uscito da un film di Icíar Bollaín, Pedro Almodóvar, Augustí Villaronga o appunto la Gracia Querejeta che lo diresse in 15 años y un día (2013).
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