2 stagioni - 19 episodi vedi scheda serie
Mindhunter, prime impressioni
Siamo di fronte all'ennesima furbata di Fincher? Capitemi bene, ho in auge David Fincher, credo che la sua filmografia sia emblematica della sua “scienza comportamentale” da regista oramai ascritto alla sua peculiarità, da cui credo farà fatica a distaccarsene. Da Seven a Zodiac, quest’uomo ha descritto in maniera appassionante la figura del serial killer, se n’è addentrato con precisione millimetrica e ha eviscerato emozioni cinematografiche di perlacea potenza. Se nel primo si “limitava” a un thriller al cardiopalma che ha fatto scuola, nel suo susseguirsi di colpi di scena, nella “mannaia” dell’omicida luciferino di Spacey che inanellava crimini brutali seguendo con maniacalità i peccati capitali da lui filtrati secondo la sua perversione oscena, nel secondo stupiva e spiazzava tutti, spostando decisamente l’azione, quindi la non azione, sulla pura detection, scovando nelle anime degli investigatori e, dopo la prima mezz’ora iniziale che lasciava presagire che ci trovassimo di fronte a un altro lineare film sull’omicida seriale, detronizzava le nostre aspettative, concentrandosi quasi esclusivamente, come detto, sulla storia dell’indagine. Non badando molto ad altro, un film a suo modo unico, proprio in virtù del fatto che la sua principale e originale virtù è stata lo scrupolo con cui Fincher ha indagato egli stesso fra le pieghe emozionali degli investigatori. A mio avviso, la sua opera migliore, così stupendamente imperfetta da lasciar allibiti per la sua formalità morbida, per quelle notti lugubri, da lupi, da “bevute” in inquadrature studiatissime, meticolose come la puntigliosità degli omicidi stessi.
Fincher arriva con MINDHUNTER, ed è clamore. Parlo ancora da profano, avendo visto solo la prima puntata. Siamo decisamente agli inizi, tutto è da compiersi, ma veniamo preparati come quegli studenti acerbi che si vedono qui e che gironzolano spaesati. Al che, fa capolino Quel pomeriggio di un giorno da cani, e rifulge quel Pacino criminale che tanto criminale non è, perché da lì, da questo Sidney Lumet si parte per spiegare, semplicisticamente obietterà qualcuno, ciò che scatena non solo il facile movente ma la ragione umanissima che induce chi studia criminologia a voler razionalizzare la cosiddetta “devianza”.
Il nostro agente federale è un idealista che pretende di capire i criminali e non capisce invece la sua fidanzata, quindi è all’apparenza un ingenuo, ma è animato da una voglia di conoscenza da rendere onore alla sua borghese divisa da uomo “normale”.
Nel finale, si affianca a un tipo tosto, rude nei modi, fumatore incallito, disilluso e ancor però sorseggiante, come il nostro golden boy, il desiderio di far chiarezza sui meandri della psiche umana.
David Lynch avrebbe scelto per MINDHUNTER una strada delirante e la serie sarebbe stata un rebus onirico d’immane suggestione filosofica. Avrebbe trasceso le più mere, scolastiche spiegazioni per allestire un “gioco” di specchi labirintico basato tutto sulle suggestioni. Ma Fincher non è Lynch, non vuole esserlo, è uno che non vuole rivoluzionare nulla, o forse sì, e allora insiste con dialoghi verbosi, con interni perfettamente bilanciati nella macchina da presa di una sceneggiatura che spiega tutto e al contempo non (si) dà spiegazioni. Che incede, insinuando dubbi, accumulando in un’ora domande dostoevskijane così incognitamente affascinanti che si possono realizzare tutte le stagioni che vuoi, giocandoci intorno.
Siamo a metà del viaggio, recensione dei primi cinque episodi
Ebbene la serie Mindhunter, patrocinata da Netflix, appunto ivi disponibile in streaming, si è da subito imposta, solo dopo qualche giorno di programmazione, come lo show dell’anno. Sì, uno show, va ricordato, perché altrimenti confondiamo quelli che comunque nascono e rimangono come degli intenti di mero intrattenimento per qualcosa di più “elevato”, al di là dei possibili meriti “intellettualistici” o pregi maggiormente sofisticati che esulino appunto dall’essere semplicemente un grande spettacolo.
Ora, vorrei analizzare i primi cinque episodi, e se la pazienza e il tempo vorranno poi mi soffermerò conclusivamente sulla recensione finale, a visione completamente avvenuta.
Paragoni subito son stati fatti col Silenzio degli innocenti di Jonathan Demme perché Mindhunter di Fincher, come tutti i prodotti sui serial killer, oramai genere a sé, non più ascrivibile neppure sotto la facile etichettatura di thriller, pur ampiamente dilatando, essendo appunto una serie e non un film, alcuni aspetti dell’opera seminale, iniziatica di Demme, espande il cosiddetto “interrogatorio” a dieci episodi.
Un agente dell’FBI, Holden Ford (Jonathan Groff) vuole istituire un programma di scienza comportamentale per far chiarezza sugli omicidi seriali, per uno scopo prettamente educativo, nobile, idealista. E allora, assieme a un profiler, Bill Tench, impersonato da un carismatico e bravissimo Holt McCallany, interroga i criminali per studiare le origini nascoste del Male, per darne una sembianza, per razionalizzarlo, per carpire, semmai esistano, delle linee conduttrici comuni che possano dare ordine e senso all’apparentemente inspiegabile, agghiacciante natura di questi uomini. Uomini, sì, non più cavie da laboratorio, non più semplici mostri, ma persone dotate di una storia, di un vissuto, di ragioni, seppur assurde e orribili, che li hanno per come dire indotti a delinquere esecrabilmente, a macchiarsi dei più perversi reati. Come insegnava Lombroso, così come peraltro ci viene illustrato nel primo episodio, i “moventi” sono tanti e molteplici, diversificati, c’è chi nasce mostro e chi lo diventa, ma anche chi lo diventa e perpetua la sua mostruosità nella serialità.
Allora entra in scena una figura tanto straordinariamente repellente quanto, per i suoi insospettabili modi educati e gentili, affascinante e curiosa, il killer delle studentesse, ovvero il gigantesco Edmund Kemper. Quasi pare che sia un nostro amico, uno che potremmo invitare tranquillamente a cena e non certo temere per la nostra incolumità. E le sue scene sono fra le migliori, filmate con pudore e delicatezza.
Così, fra confidenze personali, dubbi e momenti angosciosi, Mindhunter scorre, mentre sfilano storie di “cannibali” e carnefici, tutti vivisezionati con discrezione, perfino sensibilità, non giudicati né freddamente analizzati ma addirittura, se possibile, compresi, a loro modo giustificati, probabilmente.
Va detto che ci troviamo di fronte a un prodotto senza dubbio intrigante, ben fatto, ma la sceneggiatura alle volte è pedissequa, traballa e non certamente brilla per assoluta originalità. Temi e argomenti già visti e trattati, qui semmai coesi in una struttura narrativa che ce li rende più compatti, unitari. E forse qui sta il suadente inganno di Fincher, non aver proposto in verità nulla di particolarmente nuovo ma averlo ricreato e filmato con un’asciuttezza e un’eleganza tali da farcelo sembrare avvincente.
Alla composta bellezza dell’insieme, almeno fino a questo punto, secondo me nuoce invece la figura di Wendy Carr, un’altezzosa, troppo sicura di sé Anna Torv, che spesso interviene con burbanza egocentrica e sentenzia in maniera massimalista, lapidariamente snob, con frasi ad effetto un po’ ridicole sul fatto, ad esempio, che due uomini di successo come Andy Warhol e Jim Morrison fossero anch’essi dei sociopatici, di come lo fu, a sua detta, il presidente Nixon e, anzi, di come essere sociopatico, asserisce con fierezza senza tentennamenti, sia stata la sua marcia vincente. Insomma, frasi messe lì per fare scalpore e non molto profonde, come quella secondo la quale chi non si adatta alla società è inevitabilmente un criminale. Mi sembrano “cose” obiettivamente molto superficiali e recitate peraltro con un’antipatica arroganza della posa, tanto per far scattare il facile applauso un po’ allocco.
Detto questo, Mindhunter promette comunque a pieno ciò che aveva promesso e, ribadiamo, non scambiamolo per un prodotto che vuole essere chissà quanto innovativo o splendere di chissà quale spessore, appunto, psicologico.
È un veicolo d’intrattenimento, spesso molto intelligente, altre volte invece prevedibile e banale, che si lascia guardare con ammirazione senza però neanche entusiasmare chissà a quali alt(r)i livelli.
Forse eccessive, dunque, le lodi della Critica statunitense ma, in un periodo di vacuità e frivolissime sciocchezze, avercene…
Giudizio finale
Ebbene, dopo averla vista, nei suoi eleganti dieci episodi, possiamo concludere col dire che abbiamo assistito a un prodotto non certo esente da difetti ma Mindhunter è estremamente affascinante. Questa “polizia del pensiero”, nei lontani anni settanta, conia il termine serial killer e incomincia a catalogare gli assassini seriali o anche più semplicemente i criminali che si sono macchiati di crimini violenti. Istituendo un “reparto” di scienza comportamentale il cui compito primario è dare un ordine, una sorta di spiegazione razionale all’entropia degli efferati omicidi, stupri, atti ignominiosi. E quasi “umanizzarli” per addivenire alle contorte logiche mentali che hanno sotteso certi gesti all’apparenza inspiegabili, nati e partoriti da “agenti stressori”, da eventi devianti, da raptus di follia non dominabili ma forse effettuati per imporre la propria stessa dominanza, nel nostro losco mondo ove i mostri esistono e il confine labile fra Bene e Male è spesso il rovescio della medaglia dell’indefinitezza esistenziale, della sottile linea di demarcazione fra giusto e orrendo, fra raccapricciante e moralmente retto. David Fincher ha diretto “solo” quattro episodi di Mindhunter ma la sua mano, il suo sguardo, la sua poetica “luciferina” si sentono dappertutto nell’andamento sobrio, pervaso appunto da attimi di follia detonanti, lungo l’intero, emozionante, calibrato arco narrativo. Eccetto la primissima scena, non succede quasi nulla, si susseguono interrogatori, ci si addentra con discrezione e delicatezza nella vita privata dei nostri detective, ma non vi sono spargimenti di sangue né scene brutali, la violenza è tutta racchiusa, “soffocata” negli sguardi, nelle dinamiche di gatto col topo, nei trucchi psicologici, in un’esposizione di galleria di mostri da far rabbrividire e anche lasciar stupefatti per la loro, sì, perversa natura disturbata, eppure così straordinariamente umana, essendo fatta di arcani, viscerali sensi di colpa, soprattutto nella “tenera” figura di Kemper, titanica dicotomia fra Bene e Male, fra umanità e aberrante disumanità. Una psiche di abbacinante splendore enigmatico, l’oscurità del Male nella sua apparenza banale, compassionevole. E il lungo, perfetto incontro finale con Ford non lascia dubbi in merito. Siamo agli inizi, insomma, Fincher è già pienamente al lavoro per la seconda stagione di Mindhunter, eh già, non poteva essere altrimenti.
(Attenzione Analisi sul Finale - Possibile Spoiler se non avete visto la serie) Chi è quello strano, inquietante personaggio che compare all’inizio di ogni episodio e scandisce le sue giornate in maniacali ritualità atterrenti per la metodicità anonima con cui lascia che già scorra pazzia nel suo animo perturbato? E Ford collassa all’ospedale, ha adesso perso tutto, la fidanzata l’ha lasciato, è indagato per un triste episodio di occultamento e insabbiamento delle prove, una registrazione compromettente, cosicché i deliri paranoici dei mostri che ha interrogato si sono diffusi anche nel suo animo originariamente puro. Qualcosa in lui è cambiato. Evoluzione preoccupante o soltanto il mero raggiungimento della maturità professionale attraverso il disvelamento delle sue paure più gelidamente profonde?
di Stefano Falotico
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