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American Gods

3 stagioni - 26 episodi vedi scheda serie

Recensione

Stagione 3

  • 2021-2021
  • 10 episodi

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mck

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La recensione su American Gods

di mck
8 stelle

Selce, silice, silicio.

 

Dove eravamo rimasti…

«Mi sono sempre chiesto che cosa succeda agli esseri di natura divina quando gli emigranti lasciano la terra natale. Gli americani di origine irlandese ricordano le fate, quelli di origine norvegese i nisser, quelli di origine greca le vrykólakas, ma soltanto in relazione a eventi legati al paese d’origine. Un giorno, quando domandai perché in America non si avessero notizie di questi esseri, le mie fonti ridacchiarono confuse, prima di rispondere: “Hanno paura di attraversare l’oceano, è troppo lontana, l’America, e poi mi fecero notare che qui, in fondo, non erano venuti nemmeno Cristo e gli Apostoli.»

Richard Dorson - "A Theory for American Folklore", in “American Folklore and the Historian” - 1971

«Venendo in America la gente ci ha portato con sé. Hanno portato me, Loki e Thor, Anansi e il Dio-Leone, leprecauni, coboldi e banshee, Kubera e Frau Holle e Astaroth, e hanno portato voi. Siamo arrivati fin qui viaggiando nelle loro menti, e abbiamo messo radici. Abbiamo viaggiato con i coloni [e con gli schiavi], attraversato gli oceani, verso nuove terre.
Questa terra è sconfinata. Ben presto la nostra gente ci ha abbandonato, ricordandosi di noi soltanto come creature del paese d’origine, creature che credevano di non aver portato nel nuovo mondo. I nostri fedeli sono morti, o hanno smesso di credere in noi, e siamo stati lasciati soli, smarriti, spaventati e spodestati, a cavarcela con quel poco di fede o venerazione che riuscivamo a trovare. E a sopravvivere come meglio potevamo.
E così abbiamo fatto, siamo sopravvissuti tenendoci ai margini, senza dare nell’occhio. Ammettiamolo, esercitiamo una ben scarsa influenza. Li deprediamo, li derubiamo, e sopravviviamo; ci spogliamo, ci prostituiamo e beviamo troppo; lavoriamo alle pompe di benzina e rubiamo e truffiamo e viviamo nelle crepe ai margini della società. Vecchi dèi, in questa nuova terra senza dèi.
Adesso, come avete avuto modo di scoprire da soli, in America stanno nascendo nuovi dèi che crescono sopra nodi di fede: gli dèi delle carte di credito e delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e degli ospizi e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon. Dèi pieni di orgoglio, creature grasse e sciocche, tronfie perché si sentono nuove e importanti.
Sono consapevoli della nostra esistenza, ci temono e ci odiano. Vi ingannate, se credete che non sia così. Ci distruggeranno, se glielo permetteremo. È tempo per noi di unire le forze. È tempo di agire.»

Neil Gaiman - “American Gods” - 2001

 

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Dove ci troviamo adesso…

Una guerra per sedurli, una guerra per domarli, una guerra per mandarli allo sbaraglio e nel buio divorarli.

Proprio quando con questa terza annata “American Gods” si stava riprendendo alla grande (almeno fino a ¾ della stessa) dopo - se non lo sfascio/sfacelo, almeno - i passi falsi compiuti uno dietro l’altro con la seconda (che, a parte la co-firma dello stesso Neil Gaiman in calce alla première di stagione, è stata showrunnerizzata coi piedi da Jesse Alexander), riuscendo non solo ad eguagliare, ma pure, in certe occasioni, a superare la prima (che era saldamente in mano a Bryan Fuller - il creatore e traslatore del romanzo originale al cinema seriale - e Michael Green), ecco che Starz la sega (la cosa non è da fustigazione pubblica come la cancellazione di “GLOW” da parte di Netflix, ma insomma…), pur rimanendo ancora aperte varie possibilità, fra le quali spicca per fattibilità quella di un film conclusivo, com’è stato fatto ad esempio per “DeadWood”: e l’ultimo quarto - non “letterale” - del romanzo che rimarrebbe da filmare si adatterebbe bene a questo formato/distanza).

“La gente dice che questa è l’epoca della tecnologia, ma si sbaglia: questa è l’epoca della manipolazione.”

L’inizio “industriale” à la “Days of Heaven” viene subito espunto dalla narrazione, ma il suo posto è preso dalla pregevole atmosfera costituita dalla side-line ameno/bucolica à la “Twin Peaks” che si svolge a LakeSide [come si concluderà quella side-story lo si capisce (“Hinzelmann” potrebbe per alcuni spettatori essere già un indizio decisivo…) un doppio paio di episodi prima della fine, e la stessa risoluzione esprime una incongruenza implicita (un coboldo/semi-dio che compie di sua mano i sacrifici rivolgendoli a sé per consentire il mantenimento di un proprio focolare domestico/comunitario mentre gli abitanti della piccola cittadina non partecipano attivamente ai sacrifici ma chiudono occhi, orecchie e bocca obnubilati dal benessere da essi derivato), ma va beh], ma tutte le sotto-trame funzionano: da Laura Moon (Emily Browning, "mai" così...

 

 

...patatosa) a Bilquis (Yetide Badaki) passando per Technical Boy (Bruce Langley: una caratterizzazione un po’ acerba e ridondante, ma uno dei personaggi che regalano uno dei plot twist più fenomenali), Mr. Ibis (Demore Barnes), Mr. World (Crispin Glover), Czernobog [Peter Stormare: ad♥rabile, con e (mai) senza mazzuolante maglio martelloso] e lo stesso Wednesday (Ian McShane: interpretazione, come al solito, da Dio), senza scordarsi le ceneri di Mad Sweeney (la mancanza di Pablo SchreiberOrange Is the New Black si percepisce assai) e persino i mezzi imbambolati Salim (Omid Abtahi) e lo stesso protagonista, Shadow Moon (un Ricky Whittle un po’ più variegato del solito).

Trunk: proboscide e bagagliaio…

A conferma di quanto si osserva direttamente assistendo a tutti i 10 episodi da 50 minuti l’uno vi è un dato oggettivo: tutti gli sceneggiatori che hanno lavorato a questa terza stagione sono nuovi (in ordine d’importanza: David Paul Francis, Laura Pusey, Anna Kenney, Damian Kindler, e poi: Moises Vernau, Nick Gillie, Aric Avelino, Holly Moyer, Ryan Spencer, e ciò vale anche per i registi: Jon Amiel, Julian Holmes, Thomas Carter, Eva Sørhaug, Nick Copus, Mark Tinker, Rachel Goldberg, Tim Southam, Metin Hüseyin, Russell Fine), compreso lo showrunner Charles H. Eglee (dal mitico “NYPD Blue” a “Dexter”, passando per “Murder One” e soprattutto “the Shield”, e la cosa si percepisce), ovvero soprattutto nessuno della seconda annata - così come della prima, va da sé - vi ha preso parte, e - cosa di primaria importanza - sono riusciti a mantenere la stessa forza narrativa e la medesima furia espressiva del romanzo.

“Le stelle: frontiera del futuro e mappa del passato.”

New Entry di peso: personaggi che potranno tornare in una eventuale mini-serie o film conclusivi: Ashley Reyes, Iwan Rheon (“Misfits”, “Game of Thrones”), Danny Trejo e Graham Green (anche se il suo è stato un cammeo); personaggi che potrebbero per varie ragioni aver concluso il loro arco narrativo: Lela Loren e Dana Aliya Levinson; e personaggi che sicuramente - per ragioni interne ed esterne alla serie - non torneranno: Denis O’Hare (bravo, anche se la sequenza del duello fra Týr e Odino è forse quella meno riuscita - per com’è scritta e risolta, non per la realizzazione coreografica - dell’intera stagione) e Marilyn Manson.
Molto belle le musiche che, come per le sceneggiature, con questa terza annata subiscono un cambio, con la differenza che tutti i precedenti compositori (Brian Reitzell per la prima e Danny Bensi & Saunder Jurriaans per la seconda) avevano svolto un ottimo lavoro, ma Andrew Lockington tiene loro testa. Inoltre…

Leonard Cohen - “You Want It Darker” (da "You Want It Darker", 2016)

 

 

the Black Angels - “Life Song” (da "Death Song", 2017)

 

 

Da silice a silicio: la prima schegge di selce, la prima scintilla di un falò, la prima pagina stampata a caratteri mobili, la prima incandescenza di lampadina, il Trinity Test, il primo microchip.

- Stag. 1 (8 ep., 2017): 8 (***¾-****)
- Stag. 2 (8 ep., 2019): 7 (***¼-½)
- Stag. 3 (10 ep., 2021): 7.5 (***½-¾)            

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