4 stagioni - 53 episodi vedi scheda serie
Netflix non sembra avere più paura di nessuno.
La piattaforma, divenuta ormai un colosso capace di competere, se non surclassare, non soltanto i servizi on Demand analoghi ma le ben più consolidate emittenti televisive americane, deve sicuramente il suo successo, oltre che ai costi contenuti, alla sua coraggiosa politica produttiva.
I così detti Originali Netflix, che siano film o serie tv, sono ogni giorno sempre di più, e spesso si rivelano un’ondata di aria fresca nel mercato audiovisivo mondiale.
Non è certo un caso che agli ultimi Premi Oscar il nome di Netflix sia venuto fuori (insieme a quello di Amazon) più di una volta; un dato che per quanto possa sembrare innocuo rivela come l’azienda americana sia ormai pronta a confrontarsi con l’industria Hollywoodiana.
Esempio lampante di questa nuova e ispiratissima politica produttiva è 13 Reasons Why (in italiano soltanto 13), la serie televisiva approdata sulla piattaforma questo 31 Marzo e che sta facendo discutere rumorosamente il web. Vi confesso che l’esperienza mi ha portato ad accogliere l’entusiasmo generale con una certa diffidenza. Eppure, spinto dagli echi di alcune voci fidate, ho deciso di dare una possibilità alla serie e, con mia grande sorpresa, ne sono rimasto piacevolmente soddisfatto.
Prima di passare però ai motivi che mi hanno portato, in primo luogo, a scrivere questo articolo è giusto raccontare a quei pochi Netdissociati, che non hanno mai sentito nemmeno nominare la serie, di cosa narrano le vicende di 13 Reasons Why:
Il Liberty High è l’istituto superiore di una piccola e ridente cittadina americana e come ogni liceo americano che si rispetti, è popolato da tutti gli stereotipi del caso: ci sono gli atleti, le cheerleader, i secchioni, gli sfigati. E poi c’è Hannah. O meglio, c’era Hannah. Sì, perché Hannah, un bel giorno ha deciso di togliersi la vita e nessuno riesce a spiegarsi perché. Né i genitori, distrutti dal lutto, né tanto meno il corpo docenti, più preoccupato per i problemi legali derivati dal tragico incidente che della serenità dei propri studenti. Tra il disinteresse generale ed il falso cordoglio, l’unico che sembra non riuscire ad accettare il gesto di Hannah è Clay Jensen, suo compagno di classe. Un giorno però Clay trova davanti la porta di casa uno strano pacchetto contenente 7 audiocassette registrate da Hannah, che rivelerebbero i 13 motivi per cui la ragazza ha deciso di togliersi la vita. Un motivo per ogni persona a cui quelle cassette sono indirizzate, e che celano dei segreti che, forse, dovrebbero rimanere tali.
Andiamo, chi non ha mai desiderato poter andare a scuola in un liceo americano? Chi, come me, è cresciuto a pane e hollywood ha da sempre provato un’attrazione particolare per quei corridoi infiniti pieni di armadietti, per quei prati erbosi ospitanti giganteschi impianti sportivi ma, soprattutto, per tutti gli elementi che li abitavano. Per un ragazzo cresciuto tra grigi palazzoni il cui più grande lusso era quelli di giocare a calcetto sull’asfalto, improvvisando la porta come meglio poteva durante la sua ora di Educazione Fisica, vedere tutto quello sfarzo era un’ingiustizia troppo grande. Un mondo utopico tanto tangibile quanto irraggiungibile che, con tutti i suoi problemi e difetti, risultava nettamente migliore rispetto a quello che ogni giorno era la sua desolante e decadente realtà studentesca. Erano giorni in cui entrare in bagno e trovare un po’ di carta igienica ti diceva che quello, sì, sarebbe stato un giorno fortunato. Guardare i film di teenager ambientati nelle scuole americane rappresentava una sorta di escapismo studentesco che ci permetteva di proiettare il nostro io in quei luoghi da cartolina, mettere piede in quei corridoi e fare il tifo per il protagonista di turno. E, benché fossero mondi tutt’altro che perfetti, in qualche modo socialmente molto simili ai licei italiani, ci si affezionava a quei micro-universi romanzati avvolti dalla cornice dello schermo.
Col tempo, poi, ci siamo via via sempre più affezionati ai personaggi di quelle storie, anche a quelli più irritanti ed insopportabili. Dai, che film sarebbe senza un quarterback spaccone che se la prende col protagonista? Le divinizzazioni di certi luoghi e di certi personaggi, o meglio della loro rappresentazione edulcorata, ci ha in qualche modo anestetizzato da problemi reali che, nel contesto in cui venivano inseriti, erano solo funzionali alla crescita del protagonista. E quindi il bullismo diventava quasi una faccenda normale, necessaria, nel contesto filmografico che veniva rappresentato. Sapevamo che ad azione corrisponde una reazione e che, prima o poi, il nostro “eroe” si sarebbe svegliato, dando il ben servito al “cattivo” di turno. Così l’High School Universe, nel nostro immaginario collettivo, veniva ordinatamente delineato secondo le sue rigide regole ed i suoi schemi, diventando spesso cliché di se stesso. Un cliché accogliente e rassicurante. Certo, c’erano delle eccezioni, ma si contavano sulle dita di una mano. E poi, diciamolo, a quel tempo non aveva la minima importanza.
Per questi e per tanti altri motivi, era per noi impossibile identificare in quello splendore un mondo ostile e terrificante. Sì, c’erano subdole regole a cui doversi attenere ma molto meglio di quello che avevo davanti ogni giorno. Dove devo firmare?
Poi, però, il sogno è diventato un incubo. Ai singoli casi di ragazzi che, a causa del bullismo, si toglievano la vita si andavano affiancando le stragi e le sparatorie nelle scuole. Si andavano così scoprendo aspetti e situazioni che, per un adolescente, erano sì comprensibili ma inimmaginabili. Come si poteva passare da una scazzottata alle armi da fuoco? Eppure, andando a fondo, si faceva fatica a vedere come le cose sarebbero potute andare diversamente. I film appartenenti a quello che ho precedentemente chiamato High School Universe, hanno sempre avuto un pregio: nel loro piccolo, nella loro fittizia rappresentazione del reale, sono sempre riusciti a dare un quadro in certi casi molto preciso della società americana. E così voglio finalmente allacciarmi all’argomento di questo articolo.
Perché 13 Reasons Why non è altro che una perfetta rappresentazione della moderna società americana, o 2.0. La Liberty High infatti ci offre una realtà molto differente da quella a cui siamo stati abituati nella nostra adolescenza. Una società che sembra aver dimenticato i problemi razziali, dove l’omosessualità, seppur con qualche resistenza, sembra ormai essere totalmente accettata, dove ascoltare i Joy Division ed avere i capelli platinati non fa di te un emarginato. Forse. In questo contesto si muovono i personaggi della serie, capaci di riscrivere in maniera efficace gli stilemi del genere.
Ad affiancare tutto questo c’è un’attenzione particolare per i mezzi di comunicazione moderni, sempre presenti, determinanti per tutto il corso della narrazione, ma mai ingombranti, fuori posto. Ancora più interessante se si considera che la narrazione della serie viene portata avanti grazie ad un supporto ormai rudimentale come quello delle audiocassette, costituenti una prova molto più tangibile e pericolosa di tutta quella liquidità di dati a cui oggigiorno siamo abituati. Le audiocassette non sono un medium che può essere ignorato, bloccato o comodamente modificato. Sono scomode, ingombranti e richiedono un’interazione necessaria tra mittente e destinatario. Seguendo il punto di vista di Clay, ci immergiamo in questo revival tecnologico, assistendo ad un’analisi meta-linguistica secondo un doppio collegamento episodio-cassetta e cassetta-personaggio. Non è certo un caso che ad ogni cassetta, o meglio ad ogni suo lato, corrisponda un episodio della serie: c’è una forte, inviolabile volontà di trascinare lo spettatore al centro della narrazione. E così, banalmente, l’indugiare di Clay, il suo prendere tempo, corrisponde al nostro tempo da spettatori.
Un’altra importante qualità della serie è individuata nella sua commistione di generi: partito come un canonico teen drama, la serie avrà modo, durante il suo arco narrativo, di evolversi e mutare, tendendo prima verso il giallo ed infine verso il thriller.
La cifra stilistica più importante, che giustifica e dà forza a queste trasformazioni di genere, è rappresentata in scena dai continui e frequenti stacchi temporali, sia flashback che flashforward, a cui assistiamo man mano che Clay indaga sulla morte di Hannah. E così, come la narrazione temporale, la fotografia subisce un continuo mutamento. Il passato, momento temporale in cui Hannah è ancora viva, dai toni caldi, e il presente, l’indagine di Clay dopo la morte di Hannah, dai toni freddi.
Come se non bastasse, queste efficacissime scelte stilistiche vengono rafforzate da un egregio lavoro alla regia. Frequenti movimenti di macchina e piani sequenza accompagnano i personaggi, soprattutto nei momenti più concitati, restituendoci una sensazione di appartenenza non indifferente. È davvero molto difficile non venire risucchiati dalla narrazione, non sentirsi parte di quel micro-universo accompagnando Clay, cassetta dopo cassetta, dentro il passato di Hannah.
Intelligentemente, quindi, si riflette continuamente sul concetto di rewind, non solo nel suo significato di “riavvolgere” ma anche con l’accezione di ripetizione, reiterazione. La narrazione prosegue a singhiozzo, va avanti e poi torna indietro, rivelando piano piano tutti i tasselli mancanti del passato della protagonista. Ad affiancarla, una formidabile colonna sonora che attinge dal presente e dal passato e che trova sempre ragion d’essere, e si rivela sempre squisitamente necessaria. Non mancano, infine, gli ammiccamenti ed i riferimenti cinematografici: dai più facili ed individuabili (Star Wars) ai più nascosti o terrificanti (Rebel without a cause, Elephant).
Non sorprende quindi che, tra i registi che hanno firmato la serie ci siano registi del calibro di Tom McCarthy, regista delle prime due puntate e direttore esecutivo della serie, (Il caso Spotlight, 2015) o Gregg Araki, famoso regista della corrente del New Queer Cinema.
Ed è appunto l’omosessualità una delle tematiche più ricorrenti insieme al bullismo, tema cardine dell’intera serie, e l’analisi sui mass media, o meglio i social media ed il loro impatto nelle strutture sociali conteporanee.
L’operazione che si propone 13 Reasons Why è quella di rimuovere quella patina luccicante che ricopre la società americana, rivelandone tutte le ipocrisie e le contraddizioni. Un’operazione che ricorda quella lynchana di Blue Velvet (1986), e che allo stesso modo non ha paura di scavare in profondità, di rovistare negli angoli più sudici e bui, per scorgerne le verità meno confortanti. Ed è stata una piacevole sorprese vedere come la serie non abbia avuto paura, ove necessario, di osare, mostrando la cruda violenza di certe situazioni, senza rifuggire nella facile autocensura. Il personaggio di Hannah, tacciato da molti di essere un personaggio fin troppo esagerato ed esasperato, annegato nel vittimismo, non è altri che un contenitore, una sorta di Janie Doe che raccoglie tutte quelle cause, sufficienti ma non necessarie, che possono portare, e in alcuni casi hanno portato, degli adolescenti al suicidio. È bene sottolineare quanto sia impossibile creare una scala di valori che arrivano a determinare quando sia giustificabile o meno commettere suicidio.
In quest’ottica, le cassette di Hannah acquistano un ulteriore significato perché ammettono, almeno cinematograficamente, la possibilità dell’immedesimazione.
E questo è forse il pregio più grande di 13 Reasons Why: l’essere stato in grado di creare dei personaggi in cui gli adolescenti possano immedesimarsi, degli eroi delle loro fattezze di cui poter emulare le azioni, dei mostri che possono riconoscere nei loro simili ed a cui possono opporsi nella realtà.
Per questo, e per i motivi che ho precedentemente elencato, 13 Reasons Why è una serie che va apprezzata, difesa e di cui bisogna poter gioire. È un esempio, seppur imperfetto, di cosa e come la televisione può, DEVE parlare ai giovani senza rinunciare al fascino della narrazione, alla cura dello stile, e a tematiche di una certa importanza. Ma soprattutto è la dimostrazione di come un prodotto di puro intrattenimento può assurgere ad una funzione didattico-informativa rivolgendosi ad un pubblico più ampio possibile.
Ad appena un mese dall’uscita della serie si vocifera già di un suo seguito. E se, per molti, il presunto annuncio, non ancora ufficialmente smentito, è stata una piacevole sorpresa, da parte mia nutro solo la speranza di una smentita.
Reputo infatti il finale aperto di 13 Reasons Why il perfetto epilogo in quanto capace di rafforzare e giustificare tutte quelle questioni che sono rimaste insolute, strappando la serie dal tessuto finzionale e riportando il tutto all’interno di una dimensione della realtà di cui, del resto, la serie non fa che nutrirsi. Ma soprattutto, affidando in qualche modo alla spettatore i destini dei suoi protagonisti. Da chi dipenderanno i loro futuri? Che cosa hanno imparato dalla storia di Hannah Baker? Come può, la tragedia, non ripetersi più?
Non serve aspettare una seconda stagione. Le risposte si trovano già lì, nei corridoi di tutte le scuole di ogni studente americano. E forse non solo delle loro.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta