5 stagioni - 42 episodi vedi scheda serie
Sarà che viviamo brutti tempi che quelli andati ci sembrano migliori.
Che lo siano, o meno, è opinabile, e si potrebbe pure dire che viviamo da sempre in un brutto letamaio, ma le produzioni che volgono il loro sguardo al passato sono parecchie (magari pure affondando nella melma).
Stranger things (stagione 1) sa esattamente dove andare a parare, promettendo il paradiso (cinefilo) in terra per poi finire con il regalare qualcosa di più normale.
Parte infatti benissimo, sembra siano tornati i Goonies ma mescolati a Stephen King, e, pensando a tempi più recenti, cala Super 8 dall’alto.
In sintesi, una manna, la cura è ottima, la discrepanza con il cinema non si sente troppo, tanto più per chi è stato ragazzino negli anni ottanta.
Fin da subito getta parecchi ami; il coprifuoco (che si raggira), i giochi di ruolo (tramutabili in mille altre circostanze), le sorelle maggiori da spiare dal buco della serratura, la tranquillità di provincia che nessuno può, parrebbe, turbare e l’avventura a cuor leggero.
Tutto questo fa coppia con la meraviglia del sogno, e quindi della scoperta, c’è la paura, e qualche salto sulla sedia lo si può fare (qualcun è proprio forte), ma soprattutto cala uno sguardo in cui personalmente mi ci ritrovo, ma ringrazio il cielo che a quei tempi non ho incontrato mostri, perché li avrei affrontati proprio così, con una fionda, pensando di poter abbattere un mostro (ma non avrei avuto l’aiuto necessario).
Gettando uno sguardo più complessivo, i primi due episodi sono magnifici, propagano fascino ma anche un’estemporanea, e sana, sensazione di paura, l’attrazione spinge alla dipendenza come se si trattasse di droga non raggirabile, ma dopo c’è un po’ di stanca che, senza mai calare troppo, arriva fino al finale.
I ragazzini rimangono sempre e comunque mitici, Winona Ryder accetta, consumandosi, con saggezza gli anni che passano, nel filone serietà spicca lo sceriffo interpretato da David Harbour che in fondo è la traccia adulta più riuscita che, da una partenza accecata dalla vita, apre gli occhi e poi combatte mentre Matthew Modine è perfetta rappresentazione della freddezza.
Tra gli elementi di compendio, il tema musicale fa il suo sporco lavoro, più volte accennato, lanciato o semplicemente ripreso e i flashback sono proposti senza esagerare, uno o due a episodio, collegati senza mai tagliare il ritmo.
E’ così che si dipana un’avventura in salsa Amblin, tra spensieratezza e piccoli brividi, c’è proprio bisogno di un tuffo nel passato, in anni che apertamente nessuno invidia, in quanto tutt’altro che stupefacenti, ma almeno lì c’era ancora la possibilità dell’occasione, meno barriere e più possibilità di errare, ma senza far grossi danni e poi si poteva ancora sognare ad occhi aperti senza dipendere da chi ti dice tutto (o te lo vuol far credere).
In versione easy, in fondo crea, o vuole creare, dipendenza, piazzando singoli finali ben assestati, è anche un prodotto politico, forse pure pericoloso, d’altronde, quando vedi l’innocenza di una pecora, dietro c’è sempre un lupo.
In attesa di vedere come evolverà, possibile che cancelli quasi tutto per ripartire, rimane materiale che ci mette un attimo a catturare l’attenzione, almeno verso un certo tipo di target.
Calcolato, ma conoscendo le tabelline a menadito.
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