1 stagioni - 10 episodi vedi scheda serie
Il primo amore non si scorda mai e soprattutto è una fonte da cui è possibile attingere nei momenti di difficoltà. Diciamocelo senza troppi giri di parole: una quindicina di anni fa Cameron Crowe prometteva di regalare molto di più al cinema e dopo alcuni titoli accolti (a dir poco) freddamente da pubblico e critica - La mia vita è uno zoo e Sotto il cielo delle Hawaii - con Roadies torna alle origini, la musica, cercando un secondo approdo, la serialità.
Difficilmente sarà possibile parlare di colpo di fulmine ma quando, e accade spesso, si rimane all’interno di confini prevalentemente musicali, chi ha anche questa passione troverà (parecchie) aperture fiammeggianti.
Durante il tour americano della Staton-House Band, un gruppo di roadies, i tecnici al servizio dello show, deve affrontare le insidie quotidiane, collaborando assiduamente sotto la supervisione del tour manager Bill (Luke Wilson) e di Shelli (Carla Gugino).
L’arrivo di Reg (Rafe Spall), un consulente finanziario pagato per tagliare teste, scombussola gli equilibri del team, mentre Kelly (Imogen Poots), la più giovane dei roadies, cerca il suo posto nel mondo e il tour avanza tra momenti di felice condivisione, tanti problemi e tutti quegli avvenimenti caratteristici del più naturale ciclo vitale.
Roadies parla e canta, sicuramente ha la grande qualità di saper comunicare e toccare note profonde e sincere, anche se gira a pieno regime solo in determinati momenti. Una cosa però è sicura: il cuore ha bisogno di musica, ma anche di divertirsi almeno fin quando è possibile, per cui ogni piccola nota positiva va accolta con entusiasmo (implicitamente, questo vale per la serie stessa).
Fin da subito, il concetto espresso con passione da Cameron Crowe appare chiaro: il suo è un sentito omaggio al lavoro oscuro, fondamentale in ogni settore ma spesso ignorato, qui rappresentato con un senso di appartenenza che, anche in mezzo a tanti problemi, non fa mai sentire soli, con tanta voglia di condividere anche un semplice abbraccio, quasi un riscatto dell’analogico ormai messo in un angolo a favore del digitale.
Si respira la malinconia per un mondo che vola via, che sfugge dalle mani, con il nuovo che avanza senza tanti scrupoli e il fatto che la serie sia stata seppellita dopo una sola annata, peraltro conclusa solo a pezzi, non fa che accentuare questa sensazione, quasi fosse un epitaffio.
Una qualità fondamentale, per quanto ovvia vista la formazione dell’autore, è rappresentata dall’abbondanza di (ottima) musica, disseminata ovunque, quasi senza contegno, smistata tra nuove leve e chi la storia ha già contribuito a scriverla.
Purtroppo, ha anche la tendenza di girare un po’ a vuoto, di rimanere (anche volutamente) sottotono, con l’ispirazione più alta confinata principalmente in prelibate digressioni.
Così, funziona molto meglio quando parte per la tangente in direzioni maggioritariamente musicali, mentre arranca più volte nello sviluppo orizzontale. Per questo motivo, quando la musica abbraccia le immagini – ad esempio, nel primo episodio con il filmato amatoriale di Kelly accompagnato da Given to fly dei Pearl Jam (per chi scrive, il momento migliore della serie, qui l’estratto video degna espressione anche della passione cinefila) – si toccano vette di qualità assoluta.
C’è poi da aggiungere come il citazionismo musicale arricchisca la serie, trasformandola in una sorta di almanacco musicale, con gran parte di una puntata, l’ottava, dedicata a un ricordo personale dei Lynyrd Skynyrd. In più, altri ottimi momenti arrivano nel terzo episodio, con la critica 2.0 che sentenzia senza nemmeno ascoltare (o guardare) e un grande Rainn Wilson in preda al delirio, prima di onnipotenza e poi delle allucinazioni, e nel settimo quando la figuraccia spetta alla fotografa di grido, incapace di qualsiasi forma di empatia ma in grado di distruggere la propria stessa immagine.
Al contrario di questi esempi negativi, i personaggi principali, o almeno buona parte di loro, sono descritti attraverso una passione integra, per cui è facile provare affetto, mentre le relazioni sentimentali sono un semplice inseguimento con conciliazioni perennemente ostacolate e il sesso, come il rock ‘n roll insegna, è mostrato senza troppi giri di parole.
Se i personaggi funzionano è anche merito del cast: Imogen Poots soffia aria fresca con un’innocenza stranita e una goffaggine invidiabile, mentre Carla Gugino offre una delle sue migliori interpretazioni di sempre. Semmai è da Luke Wilson che arrivano sensazioni meno positive, non che pecchi esplicitamente, ma il suo personaggio avrebbe necessitato anche di un carisma travolgente, penso ad esempio ai discorsi de Il cerchio del mattino, che lui proprio non riesce a trasmettere (chiaramente si sarebbe dovuto raggiungere un attore di prima classe).
Sì, è vero alla fine mettendoli insieme, gli aspetti riusciti sono davvero tanti, ma sono (quasi) tutti elementi che, per quanto anche importanti, rendono la visione al più gradevole, instaurando un clima di apprezzabile complicità, e che non possono determinare un risultato globale, frenato da un percorso orizzontale che sembra adagiarsi su delle mirabili tappe, come lo possono essere le canzoni del giorno, una maledizione da sfatare cercando uova e palloncini o la punizione di indossare un cappello da tacchino per aver perso il pass.
Comunque sia, Roadies non è raggirabile a cuore leggero per chi ama l’ambiente musicale, ma anche per chi vuole posare lo sguardo dietro il sipario e sia in grado di collassare emotivamente su aneddoti di varia natura, mentre è sconsigliata al resto del pubblico (sempre se esiste, faccio sempre fatica a immaginarmelo, ma questo è un altro problema).
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