4 stagioni - 35 episodi vedi scheda serie
Recensione seria
Ebbene, procediamo la nostra tappa di avvicinamento alla terza stagione attesissima di True Detective, parlandovi stavolta proprio della seconda.
Trasmessa da noi con una settimana di ritardo rispetto alla messa in onda degli Stati Uniti, almeno nella versione doppiata e non sottotitolata in originale, debutta sul canale statunitense della HBO esattamente il 21 Giugno 2015, consta come quella capostipite di otto episodi e si protrae sino al 9 Agosto. L’ultimo episodio però di questa seconda stagione dura invece un’ora e mezza.
Stavolta i personaggi principali non sono due ma il numero raddoppia. Nell’immaginaria metropoli di Vinci, il detective Ray Velcoro (Colin Farrell) è un padre affettuoso forse di un figlio non suo che cerca come meglio può, anche maldestramente, di educare nel tempo libero in cui può averlo in affidamento, un figlio “adottivo” che divide con l’ex moglie, donna che ha avuto il bambino non desiderato dopo che rimase incinta perché stuprata da un uomo che fuggì impunito nel nulla e su cui Velcoro disperatamente è sulle sue tracce. Per acciuffarlo, si serve del suo “amico” Frank Semyon (un cupo Vince Vaughn), un potente uomo d’affari che sta cadendo in disgrazia dopo il che capo-socio dei suoi affari, il city manager Ben Caspere è stato trovato morto sul ciglio della superstrada. Con Caspere, Semyon stava progettando una linea ferroviaria ad altissima velocità che gli avrebbe dato ancor più fama e gloria e gli avrebbe permesso così di aumentare esponenzialmente le sue ricchezze. Adesso, morto Caspere, Semyon è costretto a tornare ai suoi vecchi, loschi e sporchi giri. Semyon è un uomo che vive con una bellissima, avvenentissima giovane moglie (la sexy Kelly Reilly), si era illuso di poter diventare finalmente qualcuno e di ripulirsi dal torbido passato, invece adesso è costretto nuovamente a corrompersi e a vivere di truffe. Il suo passato da criminale pare non volerlo abbandonare e torna prepotente ad avvelenargli la vita.
Ecco che poi abbiamo altri due personaggi centrali, una donna, Antigone “Ani” Bezzerides (Rachel McAdams), al servizio dell’FBI, e un agente della Highway Patrol (Taylor Kitsch), che per fortuite coincidenze si occuperanno, in concomitanza con Velcoro, dell’indagine riguardante proprio la morte di Caspere.
Una trama con forse troppa carne al fuoco, fra notti a luci rosse e lerce macchinazioni complottistiche, tradimenti banali, doppie piste insulse, orge che vorrebbero strizzare l’occhio a Eyes Wide Shut, e una tristissima vicenda di un fratello e di una sorella figli di nessuno, su cui incombette una scandalosa tragedia. Ed è forse questo spiacevole evento il fulcro dell’intera trama e la chiave per risoluzione del mistero della morte di Caspere. Ma è un “pretesto” narrativo debolissimo per renderci partecipi emozionalmente come spettatori che lecitamente pretendevamo di più.
Ecco, da questa seconda stagione ci si aspettava tantissimo dopo il successo impari e planetario della prima. E la delusione è stata evidente e marcata. Il personaggio di Farrell non affascina molto e, sebbene Farrell gl’infonda credibilità grazie al suo innato carisma e professionalmente sfoderi come sempre una lodevole bravura attoriale, il suo character non ha la stessa valenza portentosa di Rust Cohle, è un personaggio verso il quale non scatta mai davvero calorosa empatia. Per non parlare degli altri tre personaggi. Sì, Semyon rimembra spesso nel corso degli episodi il suo oscuro passato nel quale da bambino subì infinite violenze per giustificare in qualche modo la sua vita poco legalmente integerrima, ma tutto sommato è un ambiguo villain incolore e tagliato con l’accetta, mentre la McAdams, nonostante la sua bellezza, è insipida, così come scialbo è il personaggio di Kitsch.
E tutta la vicenda, siamo sinceri, si perde futilmente di qua e di là confusamente, schiacciata da un’ambientazione costellata di prevedibili riprese di dedali stradali, cemento armato a volontà e periferie suburbane che paiono una patetica imitazione di quelle di Heat. E, peraltro, il finale ammicca spudoratamente al capolavoro di Michael Mann. Senza possedere un minimo della sua sfolgorante epicità.
True Detective 2 ha anche i suoi bei, forti momenti, ciò è indubbio, ma il tutto sostanzialmente scorre piattamente senza regalarci autentici sussulti emotivi, senza stupirci mai più di tanto, anzi, quasi per nulla, e un senso opprimente di noia ci perseguita dal primo all’ultimo minuto.
Ancora una volta a scrivere tutto (fallendo) è Nic Pizzolatto, anche se per due episodi si fa “aiutare” rispettivamente da David Milch e Scott Lasser, non c’è più Fukunaga in cabina di regia, bensì ben sei registi differenti, fra cui spiccano i nomi di Justin Lin e John Crowley. E forse questa balzana scelta di affidare la regia a un’eterogeneità di registi stilisticamente troppo diversi fra loro ha davvero poco giovato alla coesione narrativa, spezzettando l’opera in tanti “embrioni” filmici dissimili e disomogenei.
No, non è andato per il verso giusto quasi niente. La prima stagione era detection purissima, limpida e secca, questa è una bislacca storia hard-boiled poco coinvolgente e farraginosa.
Recensione folle datata 2015
Il primo a recensir(la)!
True Detective Season 2 Re-view
Dimenticatevi la prima “trance” lisergica e demoniaca con Rust Cohle e Marty, scordatevi dei personaggi memorabili “incorniciati” a “sovraimpressioni characters” (d)a(i) mille car(at)i “ombrati” di McConaughey e di Woody Harrelson, oscurità incarnate, a(r)mate, beniamini già iscritti nella storia epocale delle Pizzolatto stories. Di Carcosa e delle pistole(ttate) con qualche filosofico discorso predictable di troppo pistolotto e altri (in)top(p)i. Eh sì, la prima serie, poi, a pen(s)arci, non era così perfetta e immacolata da “orrori” di script sbandante, talvolta sba(di)gliato, le imperfezioni si protraggono... approdano, dopo che avrete azzerato i neuroni al “neon”, in questa nuova stagione.
Stagione criticata a man bassa, a cui han tirato dei ca(l)ci, odiata, bistrattata, già odiata perché ritenuta improponibile dopo la prima, a detta degli spettatori innamoratisi maniac(al)i, intonsa, intoccabile, da non “reiterare” e/o riciclare nell’allungar il brodo, in(d)iziando da capo, dai capi di Vinci, da un cadavere già decomposto su cui s’allungano le ombre pornografiche d’una road trip “invertita” a rotta di tornanti emozionali già visti (?). Un avvistamento sospetto dopo un giro “suicida” in moto, un corpo insudiciato nella “putrefazione” delle mille bugie della (s)porca California del Sud. Quattro interazioni nell’intreccio che si “sfalda”, affamato di pub “sotterranei” ove un’angelica voce strimpella melanconica una chitarrina “sbiadita” nelle alcoliche notti senza son(n)o, dei (non) mor(t)i viventi e delle bionde a redimersi da traumi sessuali e abusi al “distintivo” non pulitissimo come si sognava...
Tutto ruota intorno alla sparizione di un ricco imprenditore con le mani nel torbido, nel “ciuffo” di Colin Farrell, torvo e padre del figliol “prodigo”, non un prodigio, ritardato, son of no one, d’uno stupro, probabilmente, d’una investigatrice poliziotta con troppe palle e il buio dann(eggi)ato dell’anima intrappolata nell’essere-non essere sé stessa, in un Kitsch efebico e perso nelle complicatezze del suo “feeling” ceruleo per l’ambiguità dissol(u)te, in un Vaughn statuario e marcio, villain sfumato nel pallore nerissimo di sopracciglia pittate di corruzione “sana”. Violenza, secchezza di palpebre nei tramonti di squarci periferici affogati nella tristizia, nella presa di cosc(i)e(nza), di culi e bunga bunga, di qualcosa che, (in)certo, non è andato per il ver(s)o giusto.
Giudicate-vi voi, il finale è quello che (non) ci aspettavamo.
Aspettando la terza...
di Stefano Falotico
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