5 stagioni - 53 episodi vedi scheda serie
As I wander in my time…
Tre anni dopo.
Hagai Levi (“Be Tipul / In Treatment” e il recente riadattamento delle “Scene da un Matrimonio” bergmaniane) abbandona la produzione per divergenze creative con Sarah Treem, che rimane così l’unica al comando, e la terza stagione di “the Affair”, con tutti i limiti evidenziati nelle due annate precedenti, qui riproposti e financo messi in maggiore evidenza, mantiene alto il livello complessivo, collocando nel paniere almeno una cinquina di scene madri (per scrittura, recitazione e regia) da mandare a memoria, tutte riguardanti la perdita (di un genitore, di un figlio): poco di nuovo, qualcosa di ben conosciuto, molto di ben riuscito (sincero e necessario, nonostante il luogo comune, a conti fatti veritiero, del “È più facile far piangere che far ridere e bla bla bla): il sesso agisce da collante, le agnizioni empatiche e le epifanie identificative, pure.
Mentre il ruolo ricorrente di Vik Ullah (un molto bravo Omar Metwally) diventa principale, si aggiungono altre new entry: una dolente e come sempre affascinante Irène Jacob [valida presenza, che qui riecheggia vagamente le zone dell’animo umano esplorate ai tempi con Kieslowski (Véronique, Rouge) e Antonioni, mentre più di recente la si ricorda interprete, secondaria ma rimarcabile, di “Nessuna Qualità agli Eroi” e “Guida Romantica a Posti Perduti”], un “ritrovato” ed inquietante Brendan Fraser (in una parte per lui atipica, come possono esserlo state, ad esempio, più o meno, quelle ricoperte da Will Ferrell in “Melinda and Melinda”, da Steve Carell in “FoxCatcher” o da Vince Vaughn in “Brawl in Cell Block 99”, “Dragged Across Concrete” e “Arkansas”), una Sarah Ramos che caratterizza alla perfezione un personaggio-iperbole repulsivo scritto con eccessi iperrealistici messo lì ad anticipare di un lustro, cogliendo in pieno lo spirito del tempo [dalle cose importanti quali il #MeToo a quelle sempiternamente oziose/viziose quali il PC (non il Partito Comunista, né il Personal Computer, ma la Political Correctness e il Politically Correct), passando per lo spauracchio – utilizzato a mo’ di specchietto per i gonzi dai cazzulli-gramellin-soncini che pervadono la carta stampata da macero e il giornalettismo online un tanto al chilo virtuale – della famigerata Cancel Culture], l’innervazione principale che sostiene “the Chair”, e infine Jonathan Cake (FurKat, che per la fotografia è quello che per la musica può esserlo una via di mezzo fra Giovanni Allevi e Nicki Minaj) e, giusto un’apparizione nella 2ª parte del 03x07, Lois Smith.
Sarah Treem scrive il primo episodio e co-sceneggia gli ultimi due, lasciando gli altri ad Anya Epstein, Stuart Zicherman, Sharr White, David Henry Hwang, Alena Smith e Sarah Sutherland.
Jeffrey Reyner, oltre al primo e all’ultimo, dirige altri 3 episodi, più una metà di un capitolo condiviso con John Dahl, che cura la regia di altri 3, mentre ad Agnieszka Holland è affidata la messa in scena del restante, il 03x06, che vede due grandi “scontri” attoriali: uno tra Maura Tierney (Helen) e Jennifer Esposito (la sorella di Noah) e l’altro fra Dominic West (Noah) e Jake Siciliano (il secondo dei quattro figli naturali di Noah ed Helen).
Lo shippamento comunque è ancora tutto per Ruth Wilson (Alison) e Joshua Jackson (Cole); e sì, ho scritto shippamento.
La stagione si chiude, in pieno territorio “the Sopranos”/“Mad Men” in quanto ad excipit (sic!, explicit), con la “Hey, That's No Way to Say Goodbye”, contenuta con le altre “Songs of…” nell’esordio coheniano, nella versione di Michael Kiwanuka che scorre sui titoli di coda.
As I wander in my time…
* * * ¾ - 7½
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