2 stagioni - 16 episodi vedi scheda serie
Perdus dans l’eau
La via francese al racconto di “zombie” non si accoda al canonico canovaccio reiterato in mille salse e in mille rivoli più o meno autorali (e piacevoli) ma sceglie una via originale e unica, dal profondo taglio europeo. Complice anche l’ottima scrittura del plot, che vede all’opera anche lo scrittore Emmanuel Carrère (“Il Regno”, “L’avversario”, “Limonov”) in 5 episodi della prima stagione (forse i migliori), si punta tutto sull’atmosfera rarefatta e sulle dinamiche personali dei vari personaggi, numerosissimi e dalle interazioni quasi illimitate. Saltando quasi a piè pari le “secche” action e indirizzando il (non) racconto di morti viventi in ambiti teatrali.
Mi ha ricordato infatti uno di quei vecchi sceneggiati drammatico-gotici dei tempi che furono, attualizzato alla modernità, ma pieno degli stilemi classici del genere quali l’esposizione dilatata, i molti silenzi ed i colpi di scena ben calibrati. Idealmente incalzante nella progressione della tensione, pur bandendo quasi del tutto le sequenze cruente; con l’indubbio pregio di Introdurre lo spettatore in un ambito sconosciuto: il serial di stampo francese, del quale chi scrive è quasi completamente a digiuno a parte la visione di due stagioni del noir/action “Braquo” (da un’ida di Olivier Marchal, poi estromesso dalla produzione: ottima la prima annata, molto deludente la seconda). Bellezze algide, uomini dall’aspetto trasandato (come per la produzione inglese, si dà prevalenza alla sostanza “attoriale” piuttosto che alla [spesso] vuota prestanza fisica d’oltreoceano) ma attori perfettamente in parte e dalle discrete doti recitative (Frederick Pierrot, Celine Sallette e Anne Consigny i più ispirati).
Personaggi a parte, molto importanti nell’economia della storia sono senz’altro gli ambienti naturali (boschi, montagne, laghi) o artificiali (i fabbricati, la diga) scelti come location o sfondi della serie (girata in varie zone della Regione Rodano-Alpi), in suggestiva contrapposizione tra la “sacra” ancestralità dei primi e la fredda vulnerabilità visiva dei secondi (gli sguardi “gotici” dentro e fuori vetrate, porte e finestre). Il tutto esaltato dall’ottima fotografia e dalla stimolante colonna sonora del Mogwai (autori anche della sigla iniziale), saggiamente lontani da banalità post-rock e perfettamente a loro agio nell’uso minimale di strumentazione classica.
Ci sono purtroppo anche dei difetti, quali qualche buco di sceneggiatura (la "sparizione" della cicatrice di Léna, la sorte di Simon e Adèle), qualche stuzzicante stranezza (le sedute spiritico-sessuali) e, soprattutto nella seconda stagione, si “losteggia” un po’ troppo nella fase centrale banalizzando alcune situazioni o reiterandone altre, ma senza nulla togliere al risultato finale di un lavoro ampiamente godibile e affascinante.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta