7 stagioni - 93 episodi vedi scheda serie
Azzardo una impopolarissima critica: Mad Men si può dire sia una serie un po’ sopravvalutata. Eccessivamente esaltata, ingenera delle aspettative che poi difficilmente trovano un corrispettivo nell’opera, al momento della visione. Le situazioni si ripetono ciclicamente e stancamente, i dialoghi sono spesso ben poco brillanti (tolte poche, significative, eccezioni, tra le quali la memorabile boutade: “What is happiness? It’s the moment before you need more happiness”) e quel che si salva sempre e comunque sono solo la recitazione e la ricostruzione d’epoca (dunque scene e costumi). Ma per il resto, lascia un po’ d’amaro in bocca.
Innanzitutto, se risultano giustificabili i recensori americani che non se ne sono resi conto perché non in grado di farlo (in quanto trattasi della loro cultura e, come tale, difficile da valutare obiettivamente), che a far mostra, però, della medesima cecità nei riguardi della fondamentale banalità e superficialità della sedicente profondità emotiva e intellettuale dei personaggi e delle loro disquisizioni, siano stati anche i recensori europei (adusi, si spera, in linea generale, ad una profondità di ben altra levatura che non quella americana media) risulta decisamente più sconvolgente, e decisamente molto meno giustificabile.
Quando il concetto di approfondimento psicologico dei personaggi, nella serie, è interpretato come un incitamento a reiterare a ogni pie’ sospinto i soliti medesimi schemi e le solite medesime manfrine, sia da parte maschile che femminile, mancando quasi sempre ogni occasione di reale, e non stereotipico, approfondimento. Perché è inutile girarci intorno la gran parte dei personaggi non sono altro che macchiette, rientranti in ben definiti e codificati schemi e non troppo vitali, quasi sempre, tra l’altro, costruiti riducendo l’umano alla pura e semplice e istintuale sfera sessuale (all’americana, con tutti i psicodrammi annessi e puntuali psico-banalizzazioni) finendo per negare quasi tutto il resto.
E, com’è ovvio, a farne le spese sono anche i personaggi femminili: caso eclatante ne è difatti Betty, epitome della casalinga insoddisfatta, repressa, ipocrita, che sfoga la propria inadeguatezza genitoriale sui figli, che ovviamente non è in grado di educare, la quale non ambia quasi per nulla (se si eccettua l’esteriore parentesi “grassoccia”) nel corso delle ben 7 stagioni.
Persino Peggy, comunque più simpatica (episodio chiave nonché culmine: The Suitcase, st. 4 ep. 7) finisce per rimanere sempre un po’ troppo uguale a se stessa: bigotta, ingenua, smarrita, incapace di adattarsi a fondo al mondo esterno in perenne mutamento, e la cui unica variazione di rilievo consiste nel diventare un’alcolista un po’ meschina e vendicativa al pari delle proprie controparti maschili (perché, pare, l’ideale femminile dev’essere quello: adeguarsi agli uomini e, se non ai loro atteggiamenti, ai loro standard, di “merito”, potere e ricchezza [del genere: i soldi e il lavoro, specialmente i primi, son tutto: qui l’esempio eclatante è Joan, che comunque non si capisce in che modo venga trasformata in paladina femminista, come evidentemente si tenta di fare, quando è la stessa che nella prima stagione consiglia alle segretarie di mettere gonnine più succinte, giusto in caso…]).
Ed anche Don, Don il grande, Don il protagonista, che non si può negare essere il personaggio “meglio” approfondito, beh, è personaggio nondimeno alquanto banale: alcolizzato (e ti pareva), dongiovanni, perennemente insoddisfatto, schiavo del lavoro senza il quale non riesce a trovare alcun senso nella propria esistenza e, in ultima analisi, molto, molto superficiale come la gran parte dei comprimari. Un “playboy” iper-ambito e ricercato (oltre ogni probabilità statistica) eppure sempre alla ricerca di un non meglio specificato “qualcosa”, sempre convinto di non essere “amato” e, di conseguenza, sempre convinto d’avere ogni diritto di cambiare donna più speditamente che non i drink al bar.
Un personaggio, come molti altri, abitante, tra l’altro, d’una sorta di “mondo parallelo” nel quale ci si può accoppiare incessantemente anche nei contesti e con le modalità più improbabili che manco nei film porno (vedi: con una cameriera piacente appena conosciuta, con più d’una sconosciuta incontrata per caso al bar o altrove, con la vicina di casa, con la “maestrina” dei figlioli, con una hostess letteralmente pochi minuti dopo essere scesi dall’aereo, e chi più ne ha più ne metta) senza contrarre, si capisce, la ben che minima malattia (eventualità che, invece, bisogna dirlo, avrebbe introdotto un elemento di sicura cesura nella serie, che magari avrebbe perfino indotto il personaggio a rivalutare le proprie scelte di vita, andando infine ad increspare, con grande delizia dello spettatore irrimediabilmente tediato, la superficie della narrazione per il resto paurosamente simile ad un triste encefalogramma piatto).
Dunque, porla lassù, questa serie, nell’olimpo, con capolavori del calibro di The Wire, I Soprano, Breaking Bad ecc., appare (eufemismo di seguito) sinceramente forzato. Non ne possiede la forza e, neppure, va detto, la complessità e la “statura”. Perché, come detto, ricapitolando: i personaggi sono stereotipati, le situazioni pure (sino al ridicolo, talvolta), i dialoghi per nulla memorabili e la vera profondità psicologica di personaggi ormai leggendari come Tony Soprano o Walter White mai neanche lontanamente sfiorata. Donald Draper rimane, invece, cristallizzato in se stesso, sempre uguale a se stesso, un po’ come il drink che predilige: sempre e solo old-fashioned, all’antica.
E poi ci sono stagioni nel corso delle quali non accade praticamente nulla (segnatamente, la quinta, che difatti SPOILER: si conclude con l’unico colpo di scena della fondazione della nuova agenzia giusto per introdurre, si vede, un po’ di pepe FINE SPOILER). Ciononostante, sì, è vero, lungo le 7 stagioni e i 92 episodi ci si ritrova spesso a riflettere circa tematiche anche importanti ), ma ciò è dovuto in larga misura all’indubbio fascino esercitato dall’epoca, e dalle sue tribolazioni e profonde contraddizioni, più che a meriti eclatanti della serie in se stessa, al più bella ricostruzione di facciata (negli ambienti e nei costumi), mentre riduce tutto il resto a rumore di fondo, focalizzandosi eccessivamente su eventi spesso ininfluenti, anche ai fini della trama e dell’“approfondimento” (del genere di quelli riguardanti le filippiche amorose dei vari personaggi).
Anche il ‘68 sembra passare nell’indifferenza senza influire molto sugli equilibri all’interno dell’agenzia pubblicitaria. Certo, la gente inizia a vestirsi in modo diverso, a parlare, talvolta, in modo diverso eccetera, ma per il resto la Sterling Cooper rimane pressoché un’isola distaccata, a sé, all’apparenza immune ai mutamenti, e anche questo, ovviamente, avrebbe potuto costituire un interessante spunto, e avrebbe permesso d’indagare in che misura i cambiamenti fossero più di facciata che non di sostanza ma, ancora una volta: null’altro che rumore di fondo. Le uniche che paiono venirne influenzate, dal nuovo clima, sono la figlia di Roger e l’amichetta violoncellista di Sally (e non, per dire, la dolce mogliettina all’altro capo del paese la cui idea d’adesione alla nuova epoca, a quanto pare, consiste nel proporre al maritino un bella e “progressista” cosa a tre), che però non si può certo dire siano personaggi di primo piano (e infatti scompaiono ben presto). Dunque anche questo argomento, della rivoluzione sperata, forse mancata, forse fallita, viene affrontato superficialmente, con anche, ad esempio, la sequenza con protagonista Betty che prende e si lancia in un’eccitante visita ad un palazzo semi-diroccato nel cuore del Village patria di hippies naturalmente brutti, sporchi, rozzi e anche un po’ cattivi.
E, inoltre, alcune scene, che tentano maldestramente d’affrontare altre pregnanti tematiche dell’epoca, sono semplicemente patetiche: come quella con ancora una volta protagonista una Betty oltremodo commossa dalla morte di Kennedy, che crede essere l’indice della fine del mondo e la porta sull’orlo d’una proverbiale crisi di nervi (inducendola SPOILER: finalmente a decidersi di lasciare il marito FINE SPOILER).
Oppure quell’altra della morte, stavolta, di Martin Luther King, che provoca in questi bianchi benestanti protagonisti della serie un’ondata di profondissimo sdegno e più che vibrante protesta di quasi deandreiana memoria quando fino ad un attimo prima se ne fregavano altamente, della lotta. Ma di fronte allo schermo del televisore non si può, non si può restare impassibili ed ecco che allora la loro grande indifferenza si tramuta subitaneamente in plurimo, collettivo sostegno alla causa, considerata d’un tratto una battaglia sacrosanta.
Per l’ennesima volta: anche tutto ciò offrirebbe ottimi spunti per affrontare una serie di questioni di mai sopita attualità, ma tutto finisce per affogare nel brodo riscaldato non troppo di giuggiole di banalità al quadrato della serie nel suo complesso. Serie che riduce questi potenzialmente stimolanti argomenti ed episodi storici a pochissime scene e sporadici dialoghi, mentre di lì a poco ritorna ad occuparsi delle ben poco entusiasmanti vicende “sentimentali” di Don o, peggio ancora, Pete Campbell (ovvero: il personaggio più odioso della storia della televisione, convinto d’essere anche lui un specie di grande sconfitto della vita, d’aver dovuto lottare per ottenere quel “poco” che ha, quando più d’una volta a salvarlo sono intervenute prontamente solo le sue influenti “conoscenze”, e che crede d’essere un personaggio tormentato di spessore quasi tragico).
In definitiva, l’unico elemento persistente è costituito dal tema portante dell’onnipervasivo sessismo di quegli anni, che avvolge come una cappa di smog ogni singola interazione sociale, anche all’interno dell’agenzia, e, almeno in questo, bisogna riconoscerlo, non si sa quanto volontariamente, ma qualcosa la serie riesce a dirlo, anche se con conseguenze un po’ ambigue (riguardo al già citato adeguamento allo standard maschile). Ma, per questo e poco altro (ovvero: buona recitazione, ottima ricostruzione d'epoca, qualche, brevissima, scintilla a livello di sceneggiatura e dialoghi), 7 stagioni e 92 episodi paiono, in tutta onestà, un po’ troppi.
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