Unico film italiano in Concorso al Festival di Berlino, Cesare deve morire dei fratelli Taviani è uno straordinario documentario in cui i detenuti della sezione di massima sicurezza del carcere romano di Rebibbia mettono in scena il Giulio Cesare di William Shakespeare, confrontandosi con le loro idi personali e un doloroso passato con cui non hanno ancora chiuso i conti.
In sala dal 2 marzo, distribuito da Sacher Film, cogliamo l'occasione per conoscere un po' più da vicino il diciannovesimo lavoro di due dei più grandi e apprezzati registi italiani, attraverso l'anteprima italiana dell'intervista realizzata per la stampa internazionale e messa a disposizione in inglese da Richard Lormand per la FilmPressPlus.
Un palcoscenico teatrale all'interno del carcere romano di Rebibbia. Tra gli applausi, si è appena conclusa una rappresentazione del Giulio Cesare di William Shakespeare. Si abbassano le luci e tutti i soggetti coinvolti nella recita tornano ad essere carcerati, accompagnati ancora una volta all'interno delle loro celle.
SEI MESI PRIMA
Il direttore del carcere e un regista teatrale presentano il loro progetto ai detenuti: mettere in scena un'opera di Shakespeare all'interno del penitenziario. Il primo passo d'affrontare è il casting, il secondo l'esplorazione del testo. La scelta del Giulio Cesare non è casuale: il suo linguaggio universale e i temi trattati aiutano gli "attori" a identificarsi con i personaggi. Durante la notte, all'interno delle loro celle, ognuno ripensa a ciò che si appresta a fare: ansia, speranza e divertimento sono i sentimenti che affollano le loro menti dopo ogni prova.
Chi è il Giovanni che indossa i panni di Cesare? E il Salvatore che interpreta Bruto? Per quali reati stanno in carcere? Cesare deve morire non evita di dare risposte: lo stupore e l'orgoglio per lo spettacolo non nascondono le esasperazioni dell'essere in prigione, spesso la rabbia repressa sfocia in duri confronti anche sul palco.
Il giorno della prima si avvicina e gli attori hanno di fronte a loro un pubblico variegato: altri detenuti, studenti e amministratori della struttura. Il Giulio Cesare si trasforma in uno straordinario e inaspettato successo.
Tutti i detenuti ritornano nelle loro celle. Anche "Cassio", il migliore in scena. È in carcere da molti anni ma, per la prima volta, sente dentro sé qualcosa di diverso. Si sente libero ma è costretto a rimanere prigioniero. Si gira verso la cinepresa ed esclama: "Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella si è trasformata in vera prigione!".
NOTE DI REGIA
«Una nostra cara amica ci ha raccontato di avere assistito qualche sera prima a una rappresentazione teatrale unica e di aver pianto come non mai da anni. Siamo quindi andati anche noi a vedere di che si trattava. Il teatro era all'interno del carcere di Rebibbia, all'interno della sezione di massima sicurezza. Dopo aver superato una serie di blocchi e cancelli, abbiamo raggiunto un gruppo di una ventina di detenuti, tra cui alcuni condannati all'ergastolo, che stavano recitando la Divina Commedia di Dante. Avevano scelto alcuni canti dell'Inferno e rivivevano il dolore e i tormenti di Paolo e Francesca, del conte Ugolino e di Ulisse. tutti dall'interno dell'inferno delle prigione... Subito dopo, ognuno di loro ci ha raccontato la propria storia, facendo dei parallellismi tra la storia poetica che avevano evocato e la loro vita. In quell'istante, ci siamo ricordati delle parole e delle lacrime della nostra amica.
In quel momento abbiamo sentito il bisogno di scoprire attraverso un film la genesi della bellezza delle loro interpretazioni, come sia stato possibile raggiungere tale risultato dall'interno delle loro celle per loro che sono emarginati e lontani dalla cultura.
Abbiamo così deciso di suggerire a Fabio Cavalli, il regista teatrale all'opera tra le sbarre di Rebibbia, la rappresentazione del Giulio Cesare. Lo abbiamo portato in scena con l'aiuto dei carcerati: li abbiamo seguiti fin dentro alle loro celle, nel cortile della prigione, nei bracci di massima sicurezza e sul palco. Abbiamo cercato di opporre l'oscurità delle loro vite in prigione con la forza delle emozioni suscitate dall'opera di Shakespeare, evocando temi come l'amicizia, il tradimento, l'omicidio, il tormento derivante da scelte difficili e il prezzo del potere e della verità. La profondità di un lavoro del genere chiedeva in primo luogo ad ognuno di guardarsi dentro e darsi delle risposte, soprattutto quando lasciati i panni di scena si ritornava al confino di una cella».
Paolo e Vittorio Taviani
INTERVISTA CON PAOLO E VITTORIO TAVIANI
Potete, innanzitutto, raccontarci la storia di questo progetto?
È accaduto tutto per caso. Così come per Padre padrone, nato dopo un incontro con Gavino Ledda. Questa volta la molla è stata una conversazione telefonica con una nostra cara amica che ci ha messo in contatto con un universo che conoscevamo solo grazie ai film americani ma il carcere romano di Rebibbia è molto diverso da quello che avevamo visto sullo schermo. Sin dalla prima volta in cui vi siamo entrati, le atmosfere cupe della vita dietro le sbarre hanno lasciato il passo all'energia e alla frenesia di un evento culturale e poetico: i detenuti recitavano alcuni canti dell'Inferno di Dante. Solo in un secondo momento, abbiamo saputo che si trattava di detenuti della sezione di massima sicurezza, la maggior parte condannati all'ergastolo perché appartenenti alla criminalità organizzata: mafia, camorra, 'ndrangheta. La loro recitazione istintiva era mossa dal bisogno drammatico di raccontare la verità ed era stata incanalata loro dal lavoro costante e continuativo del regista Fabio Cavalli.
Quando siamo andati via, ci siamo resi conto che volevamo sapere qualcosa in più su di loro e sulle loro vite. E già alla seconda visita abbiamo proposto loro di mettere in scena il Giulio Cesare per un lavoro cinematografico. La risposta di Fabio e dei detenuti è stata immediata e semplice: "Cominciamo, subito!".
Quindi, gli attori che si vedono nel film sono tutti detenuti? E i provini hanno avuto luogo così come li vediamo?
Gli attori che vedete sono tutti carcerati della sezione di massima sicurezza. Per essere più precisi, dobbiamo però aggiungere che Salvatore "Zazà" Striano, il nostro "Bruto", ha finito di scontare la pena a Rebibbia. Originariamente condannato a 14 anni e 8 mesi, dopo 6 anni e 10 mesi e un'amnistia, adesso è un cittadino libero, così come "Stratone", Fabio Rizzuto.
L'unico "estraneo" al carcere è Maurilio Giaffreda, uno degli insegnanti di recitazione.
Per quanto riguarda le audizioni, invece, abbiamo adottato un metodo semplice ma efficace: abbiamo chiesto agli "attori" di interpretare loro stessi, come se fossero sotto interrogatorio da parte dei funzionari; poi, abbiamo loro chiesto di mettere in scena un addio a una persona amata, tirando fuori tutta la rabbia e il dolore che conoscevano. Una mano ci è stata data dalle pre-audizioni di Fabio Cavalli, che ci ha mostrato le fotografie di coloro che aveva già scelto senza bisogno di ulteriori provini.
A chi ha sostenuto il provino, per rispetto della privacy, abbiamo anche proposto la possibilità di usare identità fittizie ma siamo rimasti colpiti dalle risposte: tutti hanno preteso di recitare con il proprio nome, fornendo ogni loro generalità, compreso il nome dei genitori o il luogo di nascita. Dopo un po', abbiamo capito che il film per loro era un modo di omaggiare e ricordare nel silenzio del carcere le persone più importanti della loro vita. Osservandoli uno ad uno, attraverso la cinepresa, abbiamo imparato a conoscere e capire le loro sofferenze e le loro vere nature.
Nel realizzare il documentario, avete fatto ricorso a una sceneggiatura o avete lasciato libero sfogo all'improvvisazione?
Come facciamo con tutti i nostri lavori, avevamo una sceneggiatura da seguire. Una volta sul set, a contatto con le interpretazioni, la sceneggiatura però prendeva pieghe inaspettate, dettate dal luogo o dalle luci e ombre. Con tutto il rispetto per Shakespeare - che per noi è sempre stato un padre, un fratello e adesso, con l'avanzare dell'età, un figlio -, noi siamo andati oltre il suo Giulio Cesare, decostruendolo e riscrivendolo. Ne abbiamo mantenuto inalterato lo spirito originale da tragedia, così come la narrazione, ma allo stesso tempo lo abbiamo semplificato adattandolo ai tempi di una rappresentazione da palcoscenico. Noi abbiamo cercato di costruire quell'organismo audiovisivo che chiamiamo cinema e che è al contempo figlio degenere di tutte le arti che lo hanno preceduto: un figlio degenere che Shakespeare avrebbe sicuramente amato!
Cavalli, poi, è stato estremamente efficace nel tradurre tutti i versi adattandoli ai vari dialetti parlati dai nostri detenuti-attori. Ha capito ciò che volevamo realizzare e ha costruito una rappresentazione ipnotizzante, con diversi gradi di emozioni e coinvolgimento. Grazie agli attori e alle verità che esprimevano con le loro performance inattese, la sceneggiatura si è evoluta. Per esempio, la scena dell'indovino, del napoletano "Pazzariello", che porta il palmo della mano aperta al naso e con fare inquietante invita il pubblico a tacere, non era nella sceneggiatura. Ma, quando glielo abbiamo visto fare per la prima volta, ci ha ricordato uno dei personaggi sopra le righe di Shakespeare, Yorik ad esempio, uscito direttamente fuori dalle sue tragedie: un omaggio dal genio implicito in ognuno di noi.
Perché la vostra scelta è caduta proprio sul Giulio Cesare?
Non abbiamo mai avuto altro in mente. Una scelta nata anche dalla necessità di avere a che fare con uomini dal passato ancora in sospeso, fatto di misfatti, errori, reati, crimini e relazioni interrotte. Una storia potente che ci permetteva di mettere gli "attori" di fronte alle loro esperienze andando in direzione opposta rispetto alle loro vite. Il nostro Giulio Cesare cinematografico esplora piccole e grandi tematiche inerenti alle relazioni dell'essere umano, come l'amicizia, il tradimento, la libertà, il potere e il dubbio. E anche l'omicidio. Molti dei detenuti sono stati "uomini d'onore", citati anche da Antonio in un suo discorso. Il giorno in cui abbiamo girato la scena dell'assassinio di Cesare, abbiamo chiesto ai nostri attori armati di pugnale di ritrovare dentro di loro l'istinto omicida. Subito dopo, abbiamo realizzato quello che avevamo appena detto e volevamo rimangiarci tutto ma non è stato necessario: ognuno di loro non aspettava altro che confrontarsi con la sua realtà e affrontarla. In seguito a quella circostanza, abbiamo deciso di seguirli giorno e notte, entrando con loro nelle piccole celle in cui convivono 5 persone, andando nei corridoi o nel cortile durante le ore di aria, aspettando nelle sale di attesa l'arrivo dei loro cari.
Come avete lavorato con Fabio Cavalli?
Per darvi un'idea della nostra collaborazione e dell'entusiasmo di Fabio, vi cito quello che ci ha detto quando abbiamo discusso del film con lui per la prima volta: "Potremmo girare la sequenza della battaglia di Filippi nei campi dietro il carcere, potremmo chiedere al direttore del carcere di consentire la partecipazione di tutti i detenuti...". Ma questo non era ciò che ci interessava, non era il nostro punto di vista sul film che avevamo in mente e Fabio ha capito subito il nostro diniego, comprendendo e accettando il nostro approccio grazie alla sensibilità intellettuale e alla profonda conoscenza del mondo dello spettacolo che lo caratterizzano. Gli abbiamo descritto come si sarebbe sviluppata la trama e Fabio ha lavorato con noi alla sceneggiatura scritta, ci ha aiutato a scoprire alcuni dei luoghi più segreti del carcere, ha organizzato i primi casting con i detenuti selezionando quelli che riteneva più adatti ai vari ruoli. Prima di girare, ha provato le scene con un gruppo selezionato di detenuti e, con l'aiuto del suo assistente, si è concentrato sulle scene finali del film. Successivamente ci ha proposto anche uno schizzo della scenografia, fatta di due colonne romane realizzate con fibre di vetro colorate, come gli scudi dei soldati. E per finire ci ha anche regalato il colpo di maestria finale: da regista teatrale si è trasformato in attore per recitare la parte di regista all'interno del film, un ruolo di primo piano avallato da una performance eccellente. Aveva addosso gli occhi dei suoi attori, a cui si è rivolto dicendo: "Fino ad oggi sono stato il vostro regista di scena. Adesso stiamo facendo del cinema e si usa un registro totalmente diverso. Questa volta, i registi sono loro!". Sappiamo che adesso è ritornato a Rebibbia per continuare a dirigere i suoi attori nella versione originale del Giulio Cesare.
"La sequenza più bella del vostro film è quella che vede Bruto affrontare Calpurnia", ci ha detto con aria di sfida... la sequenza che abbiamo eliminato perché avevamo un cast formato solo da uomini!
Potete spiegarci la scelta di far parlare i diversi personaggi con i dialetti dei vari detenuti?
Nei mesi che hanno preceduto le riprese, ci siamo recati spesso a Rebibbia. Durante quelle visite, abbiamo attraversato i diversi reparti dell'area di massima sicurezza e, attraverso le porte socchiuse, potevamo notare i detenuti - giovani o vecchi che fossero - sdraiati in silenzio nei loro letti a fissare il soffitto. "Dovrebbero chiamarci i guardiasoffitti, dato che passiamo metà delle nostre lunghissime gionate a fissare il soffitto", ci dissero con poche parole mentre noi passeggiavamo liberamente per i corridoi, tanto che per giorni siamo stati assaliti dai sensi di colpa. Una mattina, invece, in una delle celle più grandi abbiamo scoperto qualcosa che ci ha fatto sorridere per lo stupore e la complicità venutasi a creare: un gruppo di sei o sette detenuti erano alle prese con la lettura di un testo posto al centro del tavolo intorno a cui erano seduti. Solo in un secondo momento, ci hanno detto che quel testo era la nostra sceneggiatura e che quelli erano detenuti nostri attori che stavano traducendo con l'aiuto di altri detenuti, non scelti per il film, la nostra sceneggiatura nei loro diversi dialetti: siciliano, napoletano, pugliese...
Tutto il lavoro è stato poi supervisionato e integrato da Fabio Cavalli e Cosimo Rega, il nostro Cassio.
Ecco, questo aneddoto vi aiuta a capire il perché della nostra scelta. Anche ascoltando i provini, eravamo rimasti felicemente sorpresi di ascoltare i battibecchi di Prospero e Ariel in napoletano o Romeo e Polonio sussurrare e gridare in siciliano o pugliese. Ci siamo resi conto che le storpiature dialettali non sminuivano i toni della tragedia ma al contrario si prestavano particolarmente a una nuova verità, creando una profonda connessione tra l'attore e il personaggio interpretato attraverso l'uso di un linguaggio comune che permette di seguire con maggiore facilità lo svolgimento del dramma, che dopotutto in Shakespeare ha anche un forte aspetto popolare. Di conseguenza, non siamo stati noi a scegliere l'uso dei dialetti ma i nostri attori che hanno preso il sopravvento sulla sceneggiatura e l'hanno adattata al loro essere, alla loro natura.
Avete girato interamente in carcere? Se ci sono state, quali sono state le maggiori difficoltà artistiche e di produzione? Le autorità hanno imposto limiti d'accesso alle vostre telecamere?
Tutto il film è girato a Rebibbia. Vi abbiamo trascorso quattro settimane, in cui entravamo all'alba e uscivamo a notte fonda, felici e soddisfatti di quanto stavamo facendo: un giorno abbiamo realizzato che stavamo girando questo film con la stessa incoscienza sfacciata dei nostri primi lavori.
Le nostre videocamere hanno avuto libero accesso, potevamo portarle ovunque: reparti, celle, scale, cortili, corridoi, biblioteca. C'è stato impedito solo l'ingresso nell'unica area off limits del penitenziario, gli ambienti in cui si trovano i detenuti in stato di isolamento e sotto protezione. Nessuno può vedere i loro volti e, ovviamente, neanche noi. Dall'esterno, una guardia ci ha mostrato le finestre delle celle dei "voltagabbana", immerse in un silenzio profondo.
Abbiamo sospeso le riprese solo quando i detenuti di altri reparti dovevano attraversare i corridoi per raggiungere il cortile durante le ore di aria, sotto le docce o quando i nostri attori venivano chiamati a colloquio con i familiari. Ogni volta che tornavano dagli incontri con i parenti, rientravano scossi, amareggiati, e i loro sguardi divenivano distanti, perdevano la loro spontaneità per la recitazione.
Il set di un film è anche il luogo in cui nascono e si rafforzano rapporti di amicizia e complicità. Il set di Cesare deve morire non è stato da meno. Una delle guardie ci aveva borbottato: "Non state troppo vicini a loro. Ho ottimi rapporti con molti di loro, a volte provo compassione e pietà e li sento anche amici... ma poi devo impormi di mantenere le distanze e pensare a coloro che soffrono e che hanno sofferto più di loro, alle loro vittime e alle loro famiglie". Nonostante ciò sia vero, quando abbiamo finito di girare il film, lasciare il carcere e i nostri attori è stato un addio straziante. Salendo le scale per tornare in cella, Cosimo Rega ha alzato le braccia e ci ha gridato: "Paolo, Vittorio... da domani, niente sarà più lo stesso!"
Perché avete scelto di girare la maggior parte del vostro film in bianco e nero?
Perché il colore è realistico mentre il bianco e nero non lo è. Può sembrare una dichiarazione altisonante ma, per il nostro film, in parte è così. Una volta all'interno del carcere, ci siamo resi conto che c'era il rischio di cadere nel realismo televisivo e per evitarlo ci siamo rifugiati nel bianco e nero, che ci ha fatto sentire più liberi di inventare e di girare in quel set inusuale che è Rebibbia, dove Cesare non è stato ucciso per le vie della Roma antica ma nel cortile in cui i detenuti passano il loro tempo all'aria aperta. Con il bianco e nero, ci siamo sentiti più liberi nel girare in una cella il monologo con cui Bruto ripete ossessivamente "Cesare deve morire". Abbiamo optato per un bianco e nero molto forte che esplode nel colore solo sul palco per esaltare l'immensa gioia dei detenuti, sopraffatti dal successo che hanno riscosso.
Ma il bianco e nero è stata anche una scelta artistica dettata da ragioni narrative: abbiamo voluto sottolineare il passare del tempo, un salto all'indietro in maniera semplice e diretta. Siamo consapevoli che non si tratta di una scelta innovativa ma a volte ci piace percorrere sentieri già battuti da altri.
In omaggio a tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione di Cesare deve morire, ecco il cast completo degli attori:
Cassio: Cosimo Rega
Bruto: Salvatore Striano
Cesare: Giovanni Arcuri
Marco Antonio: Antonio Frasca
Decio: Juan Dario Bonetti
Casca: Vittorio Parrella
Metello: Rosario Majorana
Lucio: Vincenzo Gallo
Trebonio: Francesco De Masi
Cinna: Gennaro Solito
L'indovino: Francesco Carusone
Stratone: Fabio Rizzuto
Ottaviano: Maurilio Giaffreda
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