«Il passato non è mai soltanto passato, ci guarda e ci indica le vie da prendere e da non prendere». Da questa frase pronunciata da Papa Benedetto XVI in visita al campo di concentramento di Auschwitz nasce Le non persone, un film documentario che vede il giornalista del Tg1 Roberto Olla affrontare un doloroso viaggio fino ad Auschwitz e Birkenau in compagnia di sei ex deportati italiani, sopravvissuti all'orrore dell'Olocausto, e alle telecamere della regista Rossella De Bonis.
Un viaggio che per la prima volta, in prima tv assoluta, si mostra in 3D e in alta definizione il 27 gennaio su Rai 1 e Rai HD all'interno del settimanale Tv7, alle 23.30, per essere poi replicato nei giorni seguenti e in versione integrale su Rai Storia, dove le parole e i ricordi dei sei sopravvissuti saranno raccontati e approfonditi con l'inclusione di diversi materiali di reportorio, in occasione della celebrazione della XII Giornata della Memoria per non dimenticare le vittime dell'Olocausto e i crimini del nazismo.
Le testimonianze di Shlomo Venezia (autore del libro “SonderKommando 182727” tradotto in 24 lingue), Andra e Tatiana Bucci (sopravvissute agli esperimenti di Mengele), Goti Bauer (testimone anche della deportazione ungherese), Sami Modiano (che appena liberato ha testimoniato al processo contro Rudolf Höß capo del lager), Piero Terracina (sopravvissuto assieme a Primo Levi, ha assistito alle riprese dello storico film russo presentato come prova al processo di Norimberga) sono state riprese in 3D per mettere in risalto il rapporto tra gli uomini e lo spazio nel lager. Le grandi dimensioni, gigantesche per i chilometri quadrati di territorio occupato, un‘enorme fabbrica della morte con baracche, forni crematori, camere a gas, torrette, filo spinato elettrificato. Le piccole dimensioni, i soffocanti spazi in cui i deportati erano costretti a sopravvivere in attesa della morte certa, sempre stretti uno affianco all’altro, nelle cucce a tre piani, nelle latrine, nel freddo all’alba durante l’appello, spazi sempre più soffocanti, fino alle “standing cells” di punizione, celle senza aria di 90 centimetri per 90 centimetri, dove venivano costretti in quattro in piedi tutta la notte.
Realizzato con la consulenza del Museo di Auschwitz, Le non persone è dedicato a Ida Marcheria, la testimone triestina, ex deportata, che era sopravvissuta due anni (il periodo più lungo) nel reparto “canada” di Birkenau. Ida Marcheria stava partecipando alla produzione, ma purtroppo è scomparsa durante le fasi di lavorazione del film.
ROBERTO OLLA PRESENTA LE NON PERSONE
«Fare questo documentario riportando questi protagonisti ad Auschwitz, per testimoniare la loro esperienza, li ha portati a rivivere da vicino gli eventi. Per questo motivo, dallo script originario alla fine è venuto fuori un altro film. A fine giornata fare uscire dalla testa immagini, parole, il cosiddetto ''male del campo'' che hanno questi sopravvissuti, non è stato facile neanche per me, mi ci vorranno giorni e come facciano loro non credo di arrivare a capirlo», così inizia Riccardo Olla nel presentare il suo progetto.
«Quando abbiamo cominciato le riprese in 3D ad Auschwitz, Ida Marcheria si è ammalata. Era sopravvissuta per 2 anni al reparto “canada” del campo di sterminio. La sua testimonianza era fondamentale. Ha voluto comunque vedere, esser collegata con noi e così è servita a qualcosa di veramente utile la chincaglieria elettronica che ci portiamo appresso tra cellulari e tablet. Ida se ne è andata mentre iniziavamo il montaggio... A lei è dedicato questo film documentario, a lei e all’avvertimento che ripeteva sempre: “bisogna parlare dell’odio e della violenza che oggi viene diffusa tra i ragazzi, bisogna far capire che quell’inferno costruito dagli uomini non è lontano nel tempo ma purtroppo molto vicino come dimostra la frenetica attività dei negazionisti, far vedere l’industria della morte, non nascondere niente, mostrare il campo com’era veramente”.
Qui c’è la scelta del 3D: dare allo spettatore la sensazione più vicina alla realtà degli spazi nel lager. Le grandi, gigantesche, dimensioni di Auschwitz con i “viali” dove venivano incolonnati i deportati, l’oppressiva presenza del filo spinato, incombente, teso e elettrificato per separare le varie zone, il tortuoso percorso nella cosiddetta “sauna” verso la sala dove venivano tatuati i numeri, i blocchi dove dormire costretti, le umilianti latrine, spazi che diventano sempre più stretti, oppressivi, fino alle “standing cell” dove i deportati in punizione erano costretti a passare la notte, quattro in meno di un metro quadro senza aria, fino alle camere a gas dove gli ultimi venivano stipati dentro a bastonate.
“Ciò che è stato”, grazie a Goti, Tatiana, Andra, Piero, Sami e all’aiuto di Shlomo, era possibile raccontarlo da dentro il lager, nei luoghi precisi in cui ognuno di loro si è trovato. Non è stato semplice. Si trattava di passare più giorni di seguito a Birkenau, dove ogni mattone, ogni sasso, ogni metro di binario costringe i testimoni a rivivere l’incubo della fabbrica della morte. È stato un impatto emotivo forte a cui si sono sottoposti convinti della necessità di lasciare alle nuove generazioni un messaggio registrato con la più avanzata tecnologia a disposizione. Questa lunga permanenza nel campo, causata dalle necessità delle riprese, ha finito per influenzare lo stesso sviluppo del film. Ricostruire il loro stato di non-persone, ripercorrere ciò che accadeva in quell’aria satura di morte, ha fatto emergere i sentimenti della sopravvivenza come il bisogno di un’amicizia, di sentire vicino un fratello o una sorella.
Mi viene difficile pensare che non rivedrò più Ida. Dovevamo registrare ancora un'intervista, doveva dirmi ancora molto. Stavamo parlando di quella zona scura dove non bastano più le parole, dove la comunicazione s'interrompe e noi non possiamo più capire, quel male che gli ex deportati si portano appresso e che non riescono a raccontarci. Noi piangiamo Ida, ha detto il rabbino quando il funerale è passato per il ghetto, ma lei oggi è contenta perché ha compiuto la sua opera e si è ricongiunta ai suoi, a sua madre, a sua sorella e a suo fratello, ed era quello che lei desiderava. Sarà. Le parole del rabbino erano belle, ma non riesco a immaginarmi Ida contenta. Di sicuro voleva essere sepolta con la sorella Stellina e col fratello per rispettare la promessa fatta alla madre, sui binari della Judenrampe, che aveva raccomandato: ragazzi state sempre assieme. Contenta Ida? No. Stanca si, molto stanca. Innanzi tutto d'esser prigioniera di una malattia che dal lager la perseguitava, sempre peggio ogni anno. Arrabbiata? Si, e pure molto, col paese in cui viveva, con la sciatteria delle strade sporche e dei soldi facili, con le svastiche ignorate e ignoranti sui muri, con le lapidi oltraggiate al cimitero ebraico, con le parole razziste che riuscivano persino ad attraversare l'aria densa di cioccolato del suo laboratorio, con chi non aveva bombardato lei, i deportati e tutti i nazisti ad Auschwitz, coi partigiani che non avevano fermato un solo treno per non sprecare una bomba, con chi invece aveva fermato la proiezione di una sua intervista in sala quando lei stava dicendo che non perdonava le SS. Arrabbiata? Si, con la retorica del perdono. Non devono neppure chiederlo a me di perdonare, mi diceva, devono chiederlo a mia madre, a tutta la mia famiglia, a tutto il mio treno, a tutti quelli finiti nelle camere a gas, io non devo perdonare, io non posso perdonare al posto loro, e poi chi?, chi ha mai chiesto perdono? Ma quando i ragazzi chiedevano del perdono, comunque lei li capiva e con tutta la sua signorilità ed eleganza a loro rispondeva. Un adulto che insisteva sul perdono poteva farla infuriare. No, Ida contenta di essere andata via non riesco proprio a vederla. Fino all'ultimo era dispiaciuta per come ci lasciava, per questo paese che non reagisce, per i ragazzi senza futuro. Ha fatto tutto quello che ha potuto per consegnarci il suo messaggio. Era sempre disponibile ad un'intervista, un collegamento, un intervento, davanti a centinaia di ragazzi, a scuole intere, a palazzetti dello sport pieni. Poi il male del lager (quello che le tormentava i polmoni e quello oscuro che non le era possibile spiegarci) l'ha resa stanca, troppo stanca per continuare. Quando ha saputo che sarei andato in Grecia, mi ha chiesto di portarle una piccola pietra per la memoria di sua madre che era nata a Corfù. Una piccola pietra, senza alcun segno particolare, salvo il fatto di essere greca. Con Danila abbiamo raccolto dalla battigia un sasso bianco e rosa e glielo abbiamo portato. A quel punto Ida, sapendo che sarei andato ad Auschwitz per girare il nuovo documentario in 3D, mi ha pregato di posare la pietra sul binario della Judenrampe in memoria di sua madre.
Birkenau è il più grande cimitero ebraico del mondo. Per essere sicuro di ciò che desiderava le ho chiesto se, per caso, non volesse il muro dello spogliatoio prima della camera a gas. No, era sicura, voleva la Judenrampe, il posto dove per l'ultima volta aveva visto sua madre, dove sua madre le aveva dato la raccomandazione di stare sempre assieme alla sorella e al fratello, il punto dove lei si era fermata in raccoglimento e in preghiera quando aveva visitato il lager assieme agli studenti romani e avevamo girato le inquadrature per il documentario "Auschwitz e la cioccolata". Dalle sue mani la piccola pietra greca è passata nelle nostre, involta in un fazzoletto rosso ed ha viaggiato fino a Cracovia. Restava un problema: Ida avrebbe tanto voluto posare lei la pietra sul binario, ma era impossibile. Qualcosa però si poteva fare: poteva almeno vedere. Tutta questa chincaglieria informatica che ci portiamo nelle tasche e nelle borse poteva finalmente servire a qualcosa che non sia spedire in rete la foto della zuppa di pesce mangiata a cena o dell'abito nuovo riflesso nello specchio. Con uno qualsiasi di quegli attrezzi e un link ad un sito gratuito Ida avrebbe potuto vederci mentre posavamo la pietra e avrebbe potuto parlare con noi.
Grazie ad Elvira Di Cave e a suo nipote Simone Efrati un pc si è materializzato davanti al letto di Ida. Superati alcuni piccoli fastidi, c'era qualcuno nel gruppo a Birkenau assolutamente contrario alla posa di questa pietra, siamo arrivati alla Judenrampe col fazzoletto rosso e il sassetto greco dentro. Piero Terracina, Goti Bauer, Sami Modiano, Andra e Tatiana Bucci erano felici e non nascondevano una piccola sensazione di meraviglia per poter avere Ida con noi, così, semplicemente. Tutti hanno voluto parlarle, anche solo due parole, un saluto, e lei a tutti ha risposto. Posata la pietra bianca e rosa in memoria di sua madre, gli altri testimoni della Shoah hanno voluto posare altre pietrine per tutti i familiari di Ida. Così il suo ultimo desiderio è stato esaudito. Ora guardo con strana soddisfazione il mio i-pad e mi pare persino diverso da quando l'ho comprato, perché so che in quel momento Ida è stata contenta».
QUANDO I SOPRAVVISSUTI
RACCONTANO LA LORO STORIA,
PARLANO DELLA NOSTRA STORIA,
DELLE NOSTRE FAMIGLIE,
DELL’AMORE, DELL’ ODIO,
DEI SENTIMENTI CHE PROVIAMO.
PARLANO DI NOI
PERCHÉ CIÒ CHE È STATO
NON ACCADA MAI PIÙ
ESTRATTI DALLE TESTIMONIANZE
“Prima io non lo sapevo neanche di essere ebrea, cosa voleva dire per un bambino di 4, di 6 anni essere ebreo?”
Tatiana Bucci, deportata all’età di 6 anni
“Le SS non perdevano occasione per ricordarci che da questo campo saremmo usciti soltanto attraverso il fumo dei camini.”
Piero Terracina, deportato all’età di 15 anni
“Io sono una di quei sopravvissuti che vive col senso di colpa dell’esser tornata a casa.”
Andra Bucci, deportata all’età di 4 anni
“Non avevamo più diritto ad avere un nome, un padre, una carta d’identità, solo questo numero.”
Goti Bauer, deportata all’età di 19 anni
“Ci avevano tolto la dignità di esser persone, ci facevano capire che non eri più una persona umana.”
Sami Modiano, deportato all’età di 13 anni
“Aprirono i carri tutti assieme....cominciarono subito a urlare, ad urlare degli ordini...
… nessuno capiva quello che dicevano o almeno molto pochi capivano il tedesco e gli ordini erano dati in tedesco. Ma c’è un linguaggio che si capisce subito ed è il linguaggio del bastone.....”
Piero Terracina
“Volevano dividere le donne da una parte e uomini dall’altra e sono venuti a dare questi ordini a mio papà e mio papà si rifiutava di lasciare mia sorella....perché non voleva perderla di vista. Poverino quando sono venuti a tirargliela per forza, lui non cedeva. Ha preso tante di quelle botte, poverino...che per finire ha allentato la presa e gli hanno strappato dalle mani mia sorella........”
Sami Modiano
“Mamma e mia sorella Anna stavano su uno degli ultimi vagoni e da qui si avviavano verso la fila delle donne che si stava formando....le raggiungemmo...ricordo che mamma piangeva...aveva il volto bagnato dalle lacrime. Le raggiungemmo. Mamma ci abbracciò tutti. Ricordo il mio viso contro il suo che si bagnava delle sue lacrime.”
Piero Terracina
“Hanno detto di proseguire lungo il rettilineo che c’era, lungo la rampa e di fermarci di fronte alla commissione degli ufficiali tedeschi delle SS che compivano quella che si chiama la selezione...che noi ex deportati pronunciamo con estrema sofferenza...perché selezione, che è una parola del tutto normale, rappresenta per noi un ricordo estremamente tragico....”
Goti Bauer
“Dovevamo passare davanti a questo... medico.....medico!? Insomma! ...che ha un nome che io non lo voglio neanche pronunciare perché non merita di essere pronunciato. Quando gli si passava davanti ci dava una guardata...come se niente fosse, lui alzava il dito e decideva.... semplicemente con uno sguardo e con un semplice gesto di un dito, lui decideva chi doveva andare da una parte e chi doveva andare dall’altra parte.”
Sami Modiano
“Mengele, elegantissimo, spavaldo, insieme ai suoi colleghi, stava qui e indicava tu di qua e voi di qua. tu di qua e voi di qua ...di là andavano le giovani donne, quelle che avevano un aspetto sano , un aspetto in forze.....mia mamma aveva 44 anni. era una donna giovane e sana, aveva forse qualche capello bianco. l’ha mandata dall’altra parte... e insieme a questi tutte le giovani donne che non volevano staccarsi dai loro bambini, che li tenevano per mano o in braccio. io mi ricordo l’ultimo saluto di mia madre....mi ha accompagnato per ogni giorno della mia vita. sono passati 67 anni e ogni giorno io mi rivedo mia madre che passa di qua ......che da lontano mi faceva un saluto.”
Goti Bauer
“Era una grande tragedia. Prima di tutto quando arrivavano che dovevano andare nella camera a gas e c’era la camera di vestizione, che si vede tuttora...si vede quanto è lunga, 20 metri di larghezza e 50 di lunghezza, alle pareti c’erano tutti questi attaccapanni con i numeretti e a questa gente che andava a morire, per non far capire che andavano a morire, i tedeschi dicevano di tenere bene in mente i numeretti perché uscendo dalla doccia avrebbero trovato la loro roba lì. Se uno si fosse dimenticato del numero avrebbero perso la roba a dopo sarebbero rimasti senza niente. E tutti quanti stavano attenti. Invece non era vero perché dov’era la camera per fare la doccia invece c’era la camera a gas.”
Shlomo Venezia
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