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La top 20 dei film del 2011
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Ormai è una diffusa consuetudine di fine anno, quella delle classifiche dei migliori film della stagione. Ovunque lo fanno un po’ tutti, si tratta probabilmente di top di dubbia o nessuna importanza ma anche di un divertentissimo e gustoso giochino per cinefili incalliti. E, a essere onesti, è anche un’ ottima occasione per mettere ordine e fare un po’ il punto sull’annata appena trascorsa e sui film del 2011 che (forse, magari) ci porteremo dietro (nell'anno appena trascorso, a dir la verità, meno carne al fuoco di altri anni…). Il mio personalissimo elenco si basa ovviamente sui film che ho visto qua e là, usciti non solo in Italia e recuperabili in vario modo (ci sono anche due titoli trasmessi dal Fuori Orario di Ghezzi, come “Il cavallo di Torino” e “Arirang”) e il criterio di scelta non è stato quello, secondo me abbastanza rigido, dei film presenti in sala tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2011. Ho preferito escludere alcuni titoli fondamentali quali per esempio “Il discorso del re” o “Il cigno nero” perché trattasi di opere soltanto uscite in sala in Italia nel 2011 ma di fatto riconducibili ad un’altra annata e spesso anche a una stagione dei premi precedente (emblematico anche il caso di “Bronson”, uscito in Italia solo quest’anno in dvd e in un numero limitato di copie grazie alla One Movie dopo un’attesa di qualche era zoologica…). Bando alle ciance, ecco i titoli:

 

20. The Ward

Ritorno alla regia di un maestro assoluto del cinema americano dopo il deludentissimo “Fantasmi da Marte”. Film virale che ripropone lo slasher in chiave onirico-cerebrale, con inquietanti cori di voci femminili rubati a “Suspiria” e una messa in scena come sempre di grandissima caratura artigianale. Classe immutata, un piccolo ritorno in grande stile che fa quasi tenerezza e un cast che riunisce alcune fresche apparizioni femminili dell’horror contemporaneo.

 

19. Rango

Gore Verbinski realizza un western cartoon che è tra i più originali, curiosi e autarchici prodotti d’animazione mai realizzati. La goffaggine accattivante della voce originale di Johnny Depp, non troppo caricata in termini guasconi, offre ritmo e freschezza, ma la vera differenza la fanno le trovate di regia, le strizzatine d’occhi cinefile, le folgoranti apparizioni e l’innegabile tensione verso il cinema in carne e ossa. Vi è perfino un riaggiornamento in chiave ecologista del mito della frontiera. A conti fatti più per adulti che per bambini, con vette lisergiche che adocchiano in piccolo “Paura e delirio a Las Vegas”.

 

18. Contagion

Ignorato dai più, è forse il miglior Soderbergh in assoluto, o comunque tra i suoi due tre film più riusciti. Sound elettrorock formicolante per una messa in scena serratissima e di grande carisma, un racconto virale di epidemie globali risolto con un irriverente e inaspettato coup de theatre finale. Soderbergh non lesina neanche una riflessione politica in grado di evitare le paludate derive della retorica, riuscendo a sintetizzare al meglio le due anime distinte che da sempre lo contraddistinguono: cinema indipendente nella sintassi e mainstream nell’infiocchettatura.

 

17. Super 8

La personale mitografia nostalgica di JJ Abrams, pregna di amabili riferimenti a un cinema del nostro recente passato. Nessun amante della settima arte può esimersi dall’immancabile coccolone retrò. Elle Fanning, intravista in “Somewhere”, è una meravigliosa e commovente scoperta.

 

16. Source Code

Il secondo film del regista di “Moon” Duncan Jones sposa un ipercinetismo fantascientifico sulla carta ischioso e un intreccio intricato e arrovellante. Ma il modo in cui il figlio di David Bowie sposa ardite soluzioni narrative e scavo esistenzialista sui suoi personaggi attualmente non ha eguali. Sentimentalismo hi-tech dall'anima coinvolgente e straziante. (Ex) enfant prodige.

 

15. Arirang

La commossa e totale videoconfessione di un uomo depresso alle prese con la cupa convivenza col suo malessere quotidiano, con l’esaurirsi di ogni spinta creativa. Il profilico e pluripremiato KimKi-Duk, che si dava per malato o morente o ormai destinato ad abbandonare il cinema, è un fiume in piena d’emozioni e dolenti squarci autobiografici in quest’opera-diario dagli umori, checche se ne dica, ancora densamente kimkidukkiani. La morta del cinema e il trionfo della vita nei suoi aspetti sentimentali più crudi e laceranti.

 

14. Scialla!

La commedia italiana  dell’anno, un’opera di enorme freschezza e dallo stralunato brio espressivo. Bentivoglio rifugge con sapienza il macchiettismo e per la Bobulova è il ruolo di una carriera. La regia dell’esordiente Francesco Bruni, già ottimo sceneggiatore, convoglia nella giusta direzione la verve dell’esordiente Filippo Scicchitano e ne vien fuori un dialogo generazionale autentico e intenso come pochi. Tra l’altro, anche immensamente divertente.

 

13. Il cavallo di Torino

Intensa ricostruzione di un episodio di cruciale dolore nella vita del filosofo Nietzsche. Ultimo film dell’ungherese BélaTarr, regista fluviale, d’intensa e sofferta radicalità. Il mondo sta morendo, ogni stralcio dell’antica integrità umana è ormai svanita. Una tragica verità profuda da un film che risuona come ultimo e colossale monito di un autore che sa di emanare il canto del cigno, avendo già annunciato il proprio addio al cinema. Austero bianco e nero espressionista, il finale è arte pura.

 

12. Corpo Celeste

Attraverso un ritratto crudo e depapeurato della periferia italiana e delle istituzioni (religiose, familiari) Alice Rohrwacher firma una piccola gemma di instabile fictionalità, tesa per sua intrinseca natura verso una veridicità del racconto quasi documentaria. Cinema-sottobosco di ottima ricerca sociale, ma anche un grandissimo lavoro su attori e modelli umani.

 

11.Faust

La furente, tumultuosa, discussa rivisitazione del russo Aleksander Sokurov della colossale opera di Goethe è quanto di più "prevedibile" ci si possa aspettare da un’artista come l’autore di “Arca Russa”. Il mito è reso terragno, rossastro, espressionista ai limiti del gore da una messa in scena difficoltosa ed esplosiva; al contempo, però, è astratto nei suoi significati essenziali e nei prototipi iconici incarnati dai personaggi della storia, su tutti il viscido e deforme Mefistofele di un mostruoso, in tutti i sensi, Anton Adasinsky. Un’avvitata e rischiosissima operazione su un doppio versante dunque, che solo una menta creativa e demiurgica come quella sokuroviana poteva osare. Come tutti i suoi precedenti lavori si ama o si odia, magari a corrente alterna, lo si trova ributtante (inquadrature sghembe da tv via cavo sintonizzata male, filtri, controfiltri, cromatismi verdastri...) o si contempla estasiati urlando al miracolo rivelato. Ma “Faust” è innegabilmente un grandissimo film, sebbene i contrasti che lo animino non diano sempre esiti di facile assimilazione. Non conciliato, ma anche il Leone d'Oro più interessante e stimolante da tempo immemore.

 

10. Le idi di Marzo

Alla sua quarta regia Clooney orchestra un robustissimo e ferreo noir verbale sulla politica (non solo) americana, mostrandocene impietosamente i foschi dietro le quinte che l’animano. La genesi di un’anima nera, quella dell’immenso protagonista Ryan Gosling, una vera e propria metamorfosi da idealista aitante a cinico implacabile in seguito alle volubili circostanze di una nerissima campagna elettorale. Grandioso ensemble d’attori, magnetici asusual le vecchie volpi Paul Giamatti e Philip Seymour Hoffman.

 

9. L’amore che resta

Ilritorno di Gus Van Sant ad atmosfere più smaccatamente indie, minute e personali dopo il più mainstream “Milk”. Una storia d’amore sui generis intessuta a doppio petto col tema della morte, declinato in maniera delicata e originale, con due giovani eccellenti interpreti: la sempre più brava Mia Wasiwoska e il figlio d’arte Henry Hopper, il cui sguardo ha un bagliore che ricorda terribilmente papà Dennis e che mette i brividi. Presentato nell’Un CertainRegard a Cannes e uscito da noi in un numero di copie davvero irrisorio. Ovviamente da (ri)scoprire.

  

8. The Way back

Un film anch’esso parzialmente ancorato al 2010, presentato al Telluride Film Festival, cornice alquanto inusitata, e uscito in America a inizio 2011. Una delle macroscopiche miopie della distribuzione nostrana, l’ultimo capolavoro del grandissimo Peter Weir a 8 anni dal modesto “Master & Commander” è il racconto appassionato ed energico del tragico exodus di alcuni prigionieri evasi da un gulag. L’ennesima conferma di un autore enorme che sforna solo ottimi film e di una poetica per una volta non autoreferenziale o reiterata, che ricerca prima di tutto storie importanti e doverose. Ottimi interpreti (perfino JimSturgess nelle mani di Weir sembra un grandissimo attore) e un multilinguismo originale (inglese, polacco…) che forse ha scoraggiato i nostri doppiatori (e distributori).

 

7. Beginners

Un film raffinatissimo e incantevole, tra malinconie plumbee e una certa surreale stilizzazione del tratto. Un Ewan McGregor dalla collaudata postura intellettuale ha una storia d’amore con l’incantevole Mélanie Laurent e un padre, un Christopher Plummer da applausi, che solo in tarda età e in punto di morte decide di fare coming out e di rivelare al figlio di essere da sempre omosessuale (quella di Mike Mills, solo omonimo del bassista degli R.E.M., è una parziale autobiografia). Commovente e dolente, con punte di divertita e impagabile brillantezza: il cane cui si dà voce coi sottotitoli è una trovata graziosissima e geniale, una delle più folgoranti dell’anno. Purtroppo da noi è solo uno straight to video. Notare il beginning soon della locandina.

 

6. Carnage

Il grande assente dell’ultimo palmarès veneziano è un serratissimo kammerspiel dalle furiose unghiate di sceneggiatura, un monumentale valzer di grandissimi attori al servizio della regia essenziale di un ispiratissimo Polànski, che recide alla fondamenta e sgretola i valori costitutivi dell’upperclass sghignazzando sardonico sulle loro ceneri. "Triplo" finale da applausi a cena aperta, sia il cellulare di Waltz che il criceto che la riconciliazione filiale sono stilettate caustiche che non si dimenticano. Jodie Foster naviga su sovratoni recitativi incredibili, sovraccarica di isteriche nevrosi. Rispetto al cast della pièce con James Gandolfini, Marcia Gay Harden, Hope Davis e Jeff Daniels l'aderenza dei volti degli attori ai caratteri è decisamente più marcata.

 

5. This must be the place

Il film del grande salto americano del migliore autore del nostro cinema è un’opera dall’ispirazione diseguale ma dall’enorme carica simbolica. L’alter-ego sorrentiniano Cheyenne, incarnato da uno Sean Penn tutto cerone, zazzera e eyeliner, attraversa l’America in un on the road che accumula suggestioni, inanella derive e palpiti della percezione, sbalestra, scuote, lacera, disturba, respinge, lascia ammaliati. Non importa se qualche episodio o parentesi appaiano meno riusciti o se il film intorno alla metà giri a vuoto: “This must be the place” è un esempio geniale di come il racconto cinematografico possa (debba?) essere prima di tutto ispirazione immaginifica, variopinta fucina di soluzioni e tensioni dello sguardo. Sorrentino denota una maestria registica enorme e la trama è solo un pretesto per sguinzagliare riflessioni seriosamente sottili e goffamente divertenti sul tempo che ci siamo lasciati alle spalle, sugli affetti, su eventi storici “condivisi” (una Shoah trattata con mano così naif non si era mai vista). Tra Kerouac e Pirandello, il bildung di un tenerissimo eterno adolescente con un finale densamente emotivo in cui viene fuori tutta l’umanità debordante del protagonista, spazzando via trucchi pesanti e sovrastrutture.

 

4. Melancholia

Lars Von Trier, il meraviglioso nichilista. In questo film lo dimostra in pieno, portando sullo schermo la sua depressione con una sorta di vaga "onestà" che per una volta suona meno paracula del solito. Torbida discesa negli abissi dell’animo umano sullo sfondo levigato ed estetizzante di una irreversibile fine del mondo. La controversia fine a se stessa cede il passo a un’intima cupio dissolvi e a una stupefacente ricerca visiva. Ma sa tanto di momentanea parentesi dato che già incombono un po' a tavolino gli scandali porno-erotici di Nymphomaniac.

 

3. HabemusPapam

L’umanissimo Papa di Moretti non si sente all’altezza del gravoso incarico, vaga per la capitale assistendo ammirato a delle prove del Gabbiano di Cechov, contemplando tramonti, artisti di strada e teneri bagliori isolati di vita vera fuori dalle opprimenti mura vaticane. Poeticissimo ritorno alla regia di Moretti nel suo film più maturo e compiuto, che al suo solito gusto per la trovata lancinante (il deficit di accudimento, il torneo di pallavolo trai cardinali) coniuga uno scavo psicologico così dolce e profondo da mozzare il fiato. “Per cortesia, non mi scardinate questa griglia che c’ho lavorato tutta la notte!”

 

2. Drive

Che Nicolas Winding Refn fosse un fottutissimo genio di regista lo si sapeva. Che “Drive” è un fottuto gioiello di regia è adesso sotto gli occhi di tutti. Sordido, elettrizzante, ti entra sottopelle, ti rapisce, il suo mix di amore e iperviolenza di fatto non ti lascia più. Ryan Gosling stunt di giorno e crime-driver di notte, stuzzicadenti in bocca e pugno d’acciaio dentro guanto di velluto, si innamora di Carey Mulligan e la difende da tutto e da tutti avvolto in un’atmosfera sospesa e liquida, feroce e strizzata, fuori dal tempo e dalle logiche estetiche imperanti. Un noir sui generis, per l’ex (taxi) driver De Niro, che gli ha tributato il premio per la miglior regia a Cannes, è uno dei thriller più belli di sempre. Le scene della gita in auto e il ralenty con bacio in ascensore sono le sequenze più intense, struggenti, squassanti dell’anno. A real hero.

 

1. The tree of life

L’opera mondo di Terrence Malick è un mozzafiato e gigantesco affresco biggerthan life, pura suggestione filmica, un 2001 dai connotati esistenzialistici e filosofici. Probabilmente uno dei migliori film della storia del cinema, in cui il particolareautobiografico di una famiglia texana si lega all’universale dei destini escatologici e alla vita dell’intero cosmo. Semplicemente indimenticabile, un tripudio emozionale e compositivo continuo. Nel finale Malick azzarda perfino il suo al di là, e sono brividi perpetui e pelle d’oca. Il nostro Terry è il più grande e intenso poeta del cinema contemporaneo. Da non mancare.

 

 (Davide Stanzione)

 

 

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