Due film provocatori. Per enunciare l’ovvio, ma, più che altro per rovesciarne il senso. La pubblicità è un’ossessione. Un po’ per chi la subisce, ma molto di più per chi la crea. L’invenzione da sostituire alla realtà per dar vita ad un sogno in cui credere è un’impresa ardua, in cui la retorica e la fantasia devono addivenire ad un difficile compromesso. Il desiderio deve essere grande, ed il suo oggetto deve apparire a portata di mano. Può essere un’aspirazione ideale, come la fine dell'instabilità politica, oppure un bisogno molto concreto e materiale, come guarire dall’acne. L’immagine ed il testo devono convincere dell’importanza di quel problema, e proporne un’immediata soluzione. Tutto deve essere falso, per simulare un’inesistente, eppure verosimile, realtà mediatica. In Generation P l’industria del marketing ha il compito di preparare la popolazione al nuovo corso della politica russa; in Come fare carriera nella pubblicità si tratta, invece, di lanciare, in Gran Bretagna, un nuovo tipo di crema per la pelle. Il segreto è, in entrambi i casi, inflazionare, preventivamente, ciò per cui, subito dopo, si intende presentare il rimedio. Far venire la nausea della democrazia. Diffondere la moda del brufolo è bello fino a non poterne più. Il massimo potere esercitato sulle coscienze è quello che riesce ad inculcare una verità paradossale, un sentimento del contrario che fa tendenza, sopprimendo la memoria e spegnendo la ragione. Lo scopo è distruggere le certezze, e quindi coltivare il dubbio, per poi indirizzare le domande nella direzione prestabilita. Riprodurre, in un contesto commerciale, i meccanismi su cui si basano i miti e le religioni. Predisporre i vuoti che le risposte preconfezionate andranno prontamente a colmare. Il punto è, però, che i pacchetti, una volta aperti, continuano a vivere di vita propria, diventando incontrollabili. Sono virus che infettano la mente di chi li ha partoriti, e che germogliano in nuovi, fantomatici esseri, inumani eppure antropomorfi. Sono divinità mitologiche, come la dea Ishtar di cui il pubblicitario russo Babylen Tatarski diventa l’amante schiavo. O creature virtuali, come il nuovo ministro Smirnov, il successore di Boris Eltsin, che non è una persona, ma solo un disegno digitale. O, ancora, appendici corporee, come il brufolo parlante che diventa l’alter ego del copywriter Dennis. Sono mostri che fagocitano l’immaginazione, sostituendola con fatti che si impongono prepotentemente all’attenzione, pretendendo l’esclusiva. Sono coloro che sono, e, davanti a loro, nessuna ulteriore riflessione è richiesta. Vivono inscatolati nei teleschermi, negli ziggurat, nelle allucinazioni, eppure da essi non si può prescindere, perché stordiscono il pensiero critico fino a renderlo totalmente inoffensivo. Babylen finisce per immolarsi volontariamente all’autorità dell’assurdo, che parla per enigmi e tutto sa e tutto può. Dennis inverte la propria personalità, arrendendosi all’altra metà della sua schizofrenia, quella che, inizialmente, aveva fermamente deciso di rifiutare. E, in questo modo, i due uomini si rendono, contemporaneamente, artefici e vittime di una fame insaziabile di felicità, che è come una perenne rincorsa della vita eterna. Il loro percorso inizia con lo studio, con un approccio prettamente tecnico, basato sul significato dei simboli e delle parole. Prosegue poi, attraversando perigliosamente il labirinto del mondo, in cui la follia dell’istinto si mescola tumultuosamente al cinico calcolo economico. E termina, infine, in un delirio d’onnipotenza, in cui i due individui si pongono al vertice dell’universo, da dove ogni cosa può essere controllata a vista. Per giungere a quel traguardo surreale, Dennis si è sdoppiato, Babylen ha conquistato il dono dell’ubiquità, moltiplicandosi oltre ogni limite. Il punto d’arrivo è l’illuminazione, che fa uscire dal buio di un girovagare senza sbocchi, dando, all’esistenza, un significato improntato al consumo, alla ripetizione, all’inesauribile ciclo che cerca il piacere, lo esaurisce, e poi lo fa risorgere dal nulla.
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