Dobbiamo ringraziare Nanni Moretti e la sua Sacher film se l’ultima fatica di Robert Guédiguian, l’ottimo “Le nevi del Kilimangiaro” che Andrea Fornasiero ha definito “forse non il film più bello dell’anno, ma probabilmente il più importante” (giudizio che mi sento di condividere in pieno, proprio per la rilevante attualità delle tematiche sociali e politiche trattate “mantenendo miracolosamente un registro tra dramma e commedia – sto citando ancora Fornasiero - e danzando con leggerezza e commozione sopra i limiti dell’opera a tema”), è riuscita ad approdare anche sui nostri schermi, seppure in un numero molto limitato di copie e con una distribuzione che grida vendetta per come è stata marginalizzata (e si deve allora essere grati e rendere merito a quei pochi illuminati gestori delle sale che l’hanno accolta fiduciosi e mantenuta in programma anche per qualche giorno in più, nonostante che il pubblico abbia risposto ancora una volta in maniera tutt’altro che adeguata, e mi riferisco soprattutto ai giovani che almeno qui a Firenze le hanno disertate in massa quelle sale, e ai quali sembra che salvo rarissime eccezioni, interessino ormai - cinematograficamente parlando - soltanto “I soliti idioti” e pochissime altre cose).
Le nevi del Kilimangiaro (2011)
di Robert Guédiguian con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Grégoire Leprince-Ringuet, Anaïs Demoustier, Robinson Stevenin, Adrien Jolivet, Karole Rocher, Jacques Boudet, Gérard Meylan, Marilyne Canto
Per lo meno però è una pellicola che rimane a disposizione del mercato nostrano anche per successivi recuperi, sorte che non è invece purtroppo toccata alla precedente (anch’essa straordinaria e soprattutto “necessaria”) fatica del regista. Mi riferisco a L’armée du Crime, passato, sia pure fuori concorso e con qualche inevitabile ma incomprensibile polemica, anche dal Festival di Cannes di tre anni fa (è una rilettura “scottante” di un passato storico che mette in evidenza le gravissime responsabilità del Governo di Vichy, una tematica abbastanza d’attualità in Francia che ha meno timore di riaprire gli armadi per tirar finalmente fuori i propri scheletri rimasti per troppo tempo sepolti, come conferma anche la serie televisiva di qualche anno fa “Un amour à Taire”, sull’olocausto rosa, e la pellicola di prossima distribuzione anche qui in Italia “Elle s’appelait Sara” (che credo per il nostro mercato avrà il titolo “La chiave di Sara”) realizzata da Gilles Parquet-Benner a partire dal romanzo di Tatiana de Rosnay.
L'armée du crime (2009)
di Robert Guédiguian con Virginie Ledoyen, Simon Abkarian, Robinson Stevenin, Jean-Pierre Darroussin, Lola Naymark, Ariane Ascaride, Grégoire Leprince-Ringuet, Yann Trégouët, Ivan Franek, Olga Legrand
L’armée du Crime, dunque, un film ambientato negli anni bui dell’occupazione nazista e della resistenza francese, ma che non è solo di un doloroso passato che parla, perchè i problemi che mette in campo (le lacerazioni che toccano le anime di uomini pacifici messi loro malgrado di fronte alla necessità di agire e di creare “morte” per esempio), le riflessioni che ci costringe a fare e l’analisi morale che ne consegue, sono tutti elementi attualissimi ancora adesso, visto che sono condizioni che si ripresentano puntualmente (e si perpetuano) amplificate (e poco rispettate per la loro valenza “libertaria”) nelle guerre (o guerriglie) di “resistenza” e di opposizione che si consumano, oggi persino più di ieri, in molte – troppe - parti del mondo, non ultima la Siria, lasciandoci indifferenti e passivi (quando non addirittura “giudicanti” in negativo) come mai prima d’ora era accaduto in un passato non poi molto lontano ma che sembra preistoria, tanto siamo cambiati nel frattempo.
Già, perché mentre noi stiamo ancora a menarcela con Il sangue dei vinti, altrove si fanno serie riflessioni anche critiche sulle pesanti responsabilità “collaborazioniste” di un vergognoso “ieri” ormai lontano, ma da tenere comunque sempre in evidenza per conservare viva la memoria di ciò che è stato, e soprattutto mantenere nette le distinzioni comportamentali verso le quali, oggi più che mai, credo non sia possibile fare “di ogni erba un fascio” per quella specie di revisionistica riabilitazione collettiva (che è poi una vera e propria mistificazione storica) che sta dilagando con sempre maggior vigore non solo nell’Italietta post-fascista della nostra contemporaneità berlusconiana tutt’altro che archiviata alle nostre spalle.
Guédiguian è un regista marsigliese di origini armene molto attivo in Francia, come ben si sa e abbastanza “rinomato” anche da noi almeno nel circuito d’essai, poiché da lì sono passate in sala alcune opere (una piccola parte per la verità) fra quelle più significative che ha realizzato, tutte intrise di forte impegno sociale e civile di artigianale e robusto impianto. Un tipo di cinema il suo, che credo sarebbe piaciuto moltissimo ad Aristarco e ai critici della sua scuola, insomma, visto che può oggettivamente essere catalogato in quella corrente (o categoria che dir si voglia) che privilegia i contenuti rispetto alla forma (che non è comunque mai trascurata o sciattamente inerte, anche se non può essere considerata certamente “d’avanguardia”) e che viene magnificamente riconfermata anche dalla drammatica attualità messa in campo (con Marsiglia e l’Estaque sullo sfondo) da “Le nevi del Kilimangiaro”, appunto.
Marius e Jeannette (1997)
di Robert Guediguian con Ariane Ascaride, Gérard Meylan, Pascale Roberts
Lui è dunque un regista che “sceglie” di essere sempre incisivamente chiaro, rigoroso e concreto, che sfrutta al meglio proprio in questa direzione, le sue indubbie, spiccate doti di narratore e le utilizza per “disegnare” - spesso quasi in punta di penna - quadretti sulla marginalità periferica del suo paese, che è una realtà che gli sta particolarmente a cuore trattandosi di un francese fiero delle sue radici mai disconosciute e che in questo modo diventano il suo “rivendicativo” patrimonio genetico.
Di questo parlano per esempio sia il film che lo ha rivelato qui in Italia, Marius e Jeannette del 1997, favola realistica che narra una delicata storia d’amore che è poi un tenero racconto che mescola commedia e melodramma fra immigrazione e degrado, ambientato ancora una volta tra i poveri che abitano il quartiere popolare dell’Estaque a Marsiglia, una contestualizzazione “geografica” che è molto più di una cornice, poichè diventa l’elemento propulsore della storia (mi verrebbe da dire di quasi tutte le storie che racconta), la materia indispensabile per fornire il quadro asciutto e corposo, totalmente privo di retorica - e soprattutto scevro da tentazioni di demagogia populista sempre in agguato in queste circostanze - delle “solidali emarginazioni suburbane” su cui si concentra il suo affettuoso sguardo, che i successivi (parlo sempre e solo di ciò che è passato in Italia però) Al posto del cuore del ’98 (singolare e ardita trasposizione in terra di Francia - ancora Marsiglia e “quel” particolare quartiere che lui conosce molto bene - del romanzo Se la strada potesse parlare dello scrittore afro-americano James Baldwin, meglio conosciuto per opere come La prossima volta il fuoco e La Camera di Giovanni e che meriterebbe indubbiamente una riscoperta e una rivisitazione più generosa, capace di dissipare se non tutte le riserve espresse a suo tempo da una parte della critica nostrana, almeno la pesante coltre di oblio che l’avvolge e che lo spinge inesorabilmente verso il dimenticatoio (centrale nel film il dialogo interrazziale e la solidarietà, oltre che, ancora e sempre, “l’orgogliosa fierezza e la dignità di appartenere al proletariato urbano”), À l’attaque! del 2000 (una specie di apologo realizzato tenendo a suo modo conto della lezione “straniante” del teatro Brecht, e forse fra tutte le sue opere - questa è la sua decima fatica, ma solo la terza che noi abbiamo potuto vedere - quella più programmatica e “discutibile”), e La ville est tranquille sempre del 2000, che è invece e certamente fra le sue migliori prove, la pellicola con la quale ha il coraggio di affrontare “seriamente” la crisi ideologica della sinistra e l’aggressivo avanzamento di una destra sciovinista e sempre più razzista (lo fa con un pessimismo di fondo fatto di solitudini disperate e di scacchi sentimentali magistralmente resi dai “suoi” attori, fra i quali si distingue la prova maiuscola di Ariane Ascaride, per altro sua compagna di vita).
Marie-Jo e i suoi due amori (2002)
di Robert Guédiguian con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan
Possiamo considerare invece Marie-Jo e i suoi due amori (2002) un film di transizione, quello che lo aiuta ad allontanarsi dal “natio borgo” per esplorare le nuove strade suggerite dalla sua ispirazione in movimento, e – contemporaneamente - a sfumare un poco le tematiche socio-economiche che sono state il motivo conduttore delle storie precedenti e che qui vengono invece lasciate decisamente a margine, per concentrarsi sulla straziante dialettica contraddittoria dell’amore e dell’innamoramento (non sempre conseguenti). Ne esce un’opera tutt’altro che disprezzabile, ma più discontinua e zoppicante, forse un pò troppo prolissa e compiaciuta, ma fondamentale per la “crescita” che lo porterà poi a realizzare nel 2005 la pellicola della raggiunta maturità stilistica (e politica), che è poi anche la più conosciuta e apprezzata.
Le passeggiate al Campo di Marte (2005)
di Robert Guédiguian con Michel Bouquet, Jalil Lespert, Philippe Fretun, Anne Cantineau, Sarah Grappin
Mi riferisco a Le passeggiate al Campo di Marte che, forte di una poderosa opera registica “invisibile” e discreta in apparenza, ma profondamente incisiva nel risultato pratico, dipinge in immagini un poliedrico, tenero ritratto sospeso fra pubblico e privato, ma tutt’altro che agiografico, di un politico dalla statura monolitica di un Mitterand, del quale ce ne rimanda a tutto tondo una “interpretazione” sfaccettata che non dimentica di soffermarsi, pur senza retoriche veemenze, anche su un passato non del tutto adamantino, denso di non rimosse responsabilità che ombreggiano sulla sua figura di statista, rappresentato dalla compartecipazione personale nei primi anni ‘40 e prima di passare nella resistenza antifascista, col regime collaborazionista di Pétain (il disonorevole “Governo di Vichy”), un’esperienza verso la quale lo statista è stato sempre troppo ambiguo nel respingere le accuse più infamanti, e quindi incapace di dissipare del tutto le “pesanti nubi” delle responsabilità oggettive che si addensano ancor oggi su di lui. Credo infatti che proprio la conseguente riflessione sui tempi infami di Vichy, abbia poi fortemente influenzato la successiva scelta che, dopo un accorato ritorno alle origini (Le voyage en Armenie del 2006) e un ulteriore “passaggio” dalle parti di Marsiglia (Lady Jane del 2008) ha indotto (mi sento di poter dire quasi “costretto”) Guédiguian a scrivere e realizzare proprio il film di cui sto parlando in questa circostanza, che esprime a mio avviso la chiara volontà di soffermarsi con maggiore profondità di pensiero, su un momento molto tragico e buio, senza inutili deferenze timorose nei confronti di tutti quei francesi poi perfettamente reinseritisi nel tessuto sociale della nazione nemmeno senza troppa personale vergogna, che scelsero di mettersi al servizio (in varia misura e modo) del nazismo, e decisero di conseguenza di “assecondare e facilitare il lavoro del nemico occupante”, macchiandosi per questo di terribili crimini contro i propri fratelli. E’ certamente questa la molla che lo ha ispirato, inducendolo a ritornare a quegli anni per riportare di nuovo in primo piano uno degli ultimi eroici esempi della resistenza francese, che ha una caratteristica peculiare molto importante, come vedremo in seguito (anche in relazione alle radici etniche del regista) e che rappresenta certamente un’ottima contrapposizione dialettica fra l’abnegazione e il tradimento, visto che furono davvero tantissimi coloro che scelsero quella seconda opzione più comoda e sicura (una grossissima fetta di francesi d.o.c., formata non solo da notabili e personalità in vista, ma anche da comuni cittadini) e che più che adagiarsi nell’apatica accettazione di una condizione, optarono ignobilmente per schierarsi apertamente dalla parte del nazismo, fino a diventarne in molti casi la longa mano operativa che si sostituiva ben volentieri ai tedeschi proprio nel fare il lavoro più “sporco” e detestabile (quello della delazione che portava alla deportazione in prima istanza e addirittura della tortura e alla esecuzione programmata di condanne a morte per “alto tradimento” come fase conclusiva del percorso). La motivazione, molto personale e sofferta, ha reso dunque preponderante la volontà e il dovere di cercare di ripristinare attraverso questo racconto, la necessaria distanza fra il “giusto” e la “disumana perversa convenienza” che il tempo aveva forse un po’ troppo accorciato, proprio al fine di “non dimenticare” mai ciò che è davvero successo, ma al contrario, di “ricordarsi” sempre per tenere ben impressa nella memoria, l’incontrovertibile verità di quei tragici eventi, responsabilità oggettive comprese.
L’armée du Crime è proprio questo che intende fare, e il regista assolve con partecipata commozione al compito che si è prefisso. Come è nel suo stile, sempre pacato e accorto, niente proclami urlati nemmeno questa volta, niente megafoni amplificativi perché non ce n’è bisogno: il pesante, definitivo giudizio sul collaborazionismo francese, sulle vergognose conseguenze di quegli orrendi crimini, sono di una tale portata, da non consentire nemmeno di insinuare possibili, tardive attenuanti “consolatorie”,, perché le connivenze opportunistiche emergono chiare e lampanti, semplicemente appoggiandosi sulla linearità (anche narrativa) di un racconto che è la reale trasposizione solo leggermente “romanzata” di una realtà storica inoppugnabile e certa e quindi “irribaltabile” (e forse per questo ancor più disturbante per chi vorrebbe mantenere quegli scomodi scheletri a cui accennavo prima, chiusi negli armadi e seppelliti sotto la coltre di una impossibile e inaccettabile rimozione).
La storia è tutta qui (ancora una volta raccontata dalla parte degli esuli, delle minoranze esiliate, dei fuggiaschi che vedevano nella Francia la speranza di quella libertà che le loro patrie di origine non erano più in grado di garantire, una tradizione secolare durata a lungo, e che solo adesso nella contemporaneità dei gemelli diversi – Berlusconi-Sarkozy – ha visto mostrare le prime desolanti crepe con una involuzione preoccupante e pericolosa che rende persino la terra di Francia meno sicura e accogliente di una volta (certamente non più “mitizzabile” come un tempo), e forse anche peggio (vedi ciò che racconta per esempio un film come Welcome).
Dunque Parigi come centrale propulsiva dell’accoglienza, il paese d’elezione dove da tempo immemorabile (e prima dell’inversione di tendenza destrorsa e razzista del presente) avevano trovato asilo e solidarietà i rifugiati politici, i perseguitati provenienti da ogni parte del mondo. Anche negli anni ’40 fu così, né è stata ovviamente colpa dei francesi in toto, se a causa dell’invasione nazista non riuscirono a garantire fino in fondo la salvezza auspicata a tutti quei transfughi in cerca di libertà. I “peccatori”, i colpevoli, i responsabili, furono però numerosi anche fra i francesi, identificabili proprio in coloro che con un atteggiamento di iniziale compiacente sudditanza scelsero poi di diventare delatori e con le loro soffiate anche semplicemente “sospettose”, “vendicative”, o peggio ancora “invogliate” da possibili ricompense, contribuirono a denunciare scientemente molti di questi misconosciuti eroi transfughi dall’orrore per consegnarli nelle mani dei sicari del governo Pétain che li torturarono e uccisero, proprio per punirli del fatto che queste minoranze di fuoriusciti assetate di libertà e giustizia, avevano contribuito a loro volta e in prima persona a portare avanti tutti quegli atti anche sanguinosi di resistenza attiva, necessari per abbattere il tiranno (il film lo testimonia con accorata adesione, raccontando in un lungo flash-back tutti gli avvenimenti relativi a quegli infausti giorni, partendo dalla fine, così da non creare false illusioni consolatorie e mettere subito il pubblico a conoscenza di come purtroppo si conclusero le cose, creando conseguentemente una più palpitante e diretta partecipazione emotiva da parte degli spettatori in sala).
E’ uno degli ultimi episodi di resistenza attiva dunque, questo, che riguarda e coinvolge in prima persona un’armata di futuri e “certi” martiri formata da armeni, ungheresi, polacchi, rumeni, italiani, spagnoli, ebrei e guidata dal poeta armeno Missak Manouchian, tutti determinati a combattere a qualunque costo anche rinunciando ai propri ideali di convivenza pacifica, per liberare la Francia che amavano, identificata nella patria dei Diritti Umani appunto (un valore “fondante e irrinunciabile”, da difendere e preservare) per farla diventare davvero anche la loro terra.
Lottarono e agirono in clandestinità quegli uomini e quelle donne, mettendo a rischio la propria vita; uccisero anche a loro volta, perché quando si combatte una guerra anche l’umanità va a farsi benedire, e diventarono così a pieno titolo dei veri e propri eroi della resistenza. Gli attentati di questi partigiani stranieri, e come tali ancor più esecrabili per i collaborazionisti stanziali, bersagliarono senza tregua i nazisti, facendo loro subire ingenti, importanti perdite attraverso una serie di operazioni dinamitarde e di rischiose azioni individuali. Da quel momento, la polizia francese, scornata e desiderosa di far bella figura col “padrone” si scatenò come mai era successo prima, utilizzando pedinamenti, spiate, ricatti e torture, e dando così inizio a una caccia spietata e priva di regole per essere lei a potersi vantare di essere stata capace di chiudere in saccoccia gli artefici “di quei massacri” che avevano portato alla morte anche tanti presunti innocenti, ma non sufficientemente immacolati, visto che se la facevano con il nemico.
Furono tutti identificati e catturati, traditi persino da uno dei loro capi che non si dimostrò così eroico da resistere alla pressione, una volta intrappolato nella rete (nemmeno di “tali teste pensanti” ci viene qui offerta un’esemplare, adamantina rappresentazione, concentrate spesso solo nella “sollecitata” ricerca dell’azione eclatante ad ogni costo, quella che dà prestigio e risonanza, e interessate di conseguenza più che all’incolumità di coloro che le azioni le dovevano compiere davvero, “all’importanza propagandistica” dell’effetto mediatico che avrebbero potuto determinare).
Ventidue uomini e una donna (l’intero gruppo) venero così arrestati, torturati (nessun altro parlò però né denunciò altri compagni, nonostante le terribili prove che dovettero subire) condannati a morte e trucidati nel febbraio del 1944. Con un'ultima operazione di bieca propaganda denigratoria, vennero poi buttati in pasto al pubblico ludibrio delle folle come una compagine terroristica, una vera e propria "armata del crimine", e i loro volti stampigliati sul fondo rosso dei manifesti infamanti attaccati e sbeffeggiati sui muri di tutte le città del paese, diffusi con meticolosa capillarità per servire da “monito” e da esempio.
Ma nonostante l’opera calunniosa ed offensiva tesa ad addossare al loro folle operato la responsabilità della morte di quei pochi civili presunti “innocenti” che gli attentati si portarono inevitabilmente dietro (come sempre accade, è il potere a tentare di farci percepire queste necessarie azioni fatte in nome della libertà e della giustizia, come vili e spregevoli atti) questi immigrati morti per la liberazione della Francia e del mondo, sono poi entrati nella leggenda, diventati dei veri e propri eroi da ricordare e “venerare” come meritano.
Ecco: lo ripeto per l’ennesima volta: il film racconta questa bella e tragica storia, soffermandosi anche sul “privato” (gli amori, le passioni, la vita insomma alla quale ciascuno è disposto – o costretto - a rinunciare per raggiungere l’obiettivo della vittoria). La ricostruzione è accurata, le psicologie attendibili, il ritmo è serrato, una vera e propria docu-fiction piena di empatia. Nonostante qualche scivolata nell’ovvio che poteva essere evitata, il film tiene magnificamente fino in fondo... e quando alla fine sullo schermo appare davanti ai nostri occhi quel manifesto rosso “denigratorio” e infamante, con le facce originali di coloro che sono “davvero morti” per la causa, sulle parole amare del testamento (equiparabili a quelle delle lettere dei nostri condannati a morte per la resistenza che se qualcuno ha voglia di farlo, può forse ancora recuperare nel volumi a suo tempo stampati dal “comunista” Luigi Einaudi) che è poi la missiva che Missak Manouschian manderà alla moglie prima dell’esecuzione, con cui la esorta, una vota ritornata la pace, a rifarsi una vita, a fare con un altro “quel” figlio che loro non avevano potuto concepire, per consegnargli il frutto maturo della ritrovata libertà, la commozione, la rabbia (ma anche la vergogna) sono palpabili poichè ci ricordano indirettamente anche le nostre negligenze, quel non essere stati capaci di tener viva tutta intera la “memoria” per tramandarla intatta ai nostri figli e ai posteri (perché in queste cose al di là dell’ufficialità, tutti avremmo dovuto fare meglio la nostra parte), cosa che invece non è stata, se siamo arrivati al punto in cui ci troviamo e quei valori una volta certi, sono da tempo buttati nella pattumiera del qualunquismo.
Gli interpreti sono tutti bravissimi e così numerosi, che è impossibile davvero citarli tutti. Mi limito allora a ricordare le sofferte, umanissime prove di Simon Abkarian e Virginie Ledoyen (Manouchian e sua moglie) e quelle ugualmente intense – seppure questa volta in parti un pò più defilate - di Ariane Ascaride, ancora una volta accanto all’uomo con il quale divide la vita e la passione artistica delle storie che racconta, e di Jean-Pierre Darroussin.
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