Come diceva Bellocchio, La Cina è vicina?
Allora anche la Corea del Sud non è così lontana come sembra. Anzi dal punto di vista cinematografico somiglia abbastanza alla nostra italietta. Con qualche milione in meno di abitanti ma con un numero di film distribuiti all'anno paragonabile e con incassi, a parte variazioni fisiologiche legate a questo o quel fenomeno particolare, molto simili.
Certo, in Corea mediamente vanno di più al cinema e, a vedere le loro classifiche del box office, il cinema coreano gode di ottima salute sia per numero di pellicole prodotte che per incassi.
Lee Chang Dong, regista tra gli altri di Poetry e Oasis, in una recente intervista ha detto che nel suo paese c'è un grande fermento cinematografico e che presto il cinema coreano arriverà ai livelli di Hollywood diventando una delle più importanti scene cinematografiche al mondo. Parole temerarie? Assolutamente no.
In questo ultimo anno ho frequentato molto il cinema coreano recente e sono totalmente d'accordo con quanto detto dal grandissimo Lee Chang Dong. Perché c'è una grossa differenza tra il cinema coreano e quello italiano. E questa differenza riguarda il genere: mentre da noi ultimamente pare che si sappiano fare solo commedie(e neanche così bene almeno secondo la critica) in quel lembo d'Oriente si predilige un genere un po' diverso: il thriller.
In Corea del Sud sono diventati degli assoluti maestri nel girare questo tipo di film, grazie ad una messa in scena assolutamente al di sopra di ogni sospetto, ad una confezione adeguata per l'esportazione e ad un talento nell'utilizzo della macchina da presa che al di qua dell'Oceano non si vede tanto spesso.
Hanno un modo assai personale di girarli e nonostante si noti subito che il cinema occidentale è ben conosciuto, vien fuori un prodotto che risulta abbastanza peculiare nel panorama cinematografico internazionale.
Ad esempio il campione assoluti di incassi del 2010, The Man from Nowhere (Ajeossi) ha una confezione patinata da cinema hollywoodiano, Guta-yubalja-deul (A Bloody Aria) nella sua apparente trasversalità di genere racchiude in sè influenze (quando non aperte citazioni) che vanno da "Un tranquillo week end di paura" di John Boorman, al "Non aprite quella porta" hooperiano, per arrivare a "Le colline hanno gli occhi" di Craven, per non parlare di tutti i remake degli slasher anni '70 che recentemente sono arrivati in sala (a testimonianza ulteriore che in quanto a idee a Hollywood non se la passano tanto bene). Fatta la tara a queste influenze si leggono in filigrana nei thriller coreani molte tematiche sociopolitiche che scattano una fotografia abbastanza impietosa di questo lembo d'Oriente: la disgregazione familiare, la violenza sui minori, l'inefficienza della polizia che viene rimarcata puntualmente in ogni film, la corruzione ad ogni livello.
Qui sotto una videoplaylist che include trailer e clip di The Man from Nowhere, I saw the devil, The Chaser, The Yellow Sea, Memories of Murder, Our Town, Voice of a Murderer, Children..., The Unjust, The Housemaid.
Nella sua intervista Lee Chang Dong dice che in realtà quei casi di famiglie forzatamente ristrette dagli eventi che spesso ritroviamo anche nel suo cinema (lontanissimo per filosofia da quello che può essere un film di genere come un thriller, un action o una crime story) sono casi limite che non si ritrovano più di tanto nella società coreana.
Allora perché lo smembramento del nucleo familiare è caratteristica costante di molti film coreani? E perché vengono prodotti film su casi di cronaca in cui sono tragicamente implicati dei bambini?
In The Man from Nowhere (Ajeossi) di Jeong Beom Lee c'è una bambina senza padre e c'è un uomo dal passato misterioso da nascondere o perlomeno con cui è difficile rapportarsi, tema già esplorato da Jeong Beom Lee nel precedente Yeolhyeol-nama (Cruel Winter Blues) in cui un gangster ritorna nei luoghi della sua infanzia e prende coscienza che a parte i ricordi e il suo codice criminale non ha nulla nella propria vita. E lo stesso fa il protagonista di The Man from Nowhere (il belloccio Bin Won che aveva recitato la parte del ritardato in Mother di Bong Joon Ho assumendo una fisionomia totalmente diversa). Quando la bambina, figlia di una sua vicina di casa sarà in pericolo, capirà di avere trovato un punto di riferimento nella propria vita.
La violenza sui minori è argomento costante in questi film e spesso l'ispirazione viene dalla cronaca.
Ci sono alcuni esempi di film che prendono le mosse da fatti di cronaca: è il caso di uno dei blockbuster di quest'anno Silenced (Dogani) che prende spunto da una storia di violenza su bambini audiolesi per narrare una storia di riscatto.
In A-I-Deul... (Children...) si parla di un fatto di cronaca che ha tenuto con il fiato sospeso l'opinione pubblica per molto tempo, la sparizione di cinque bambini con età comprese tra i 9 e i 13 anni e il loro ritrovamento dopo dieci anni, uccisi con diversi colpi alla testa, è lo spunto per un film costruito con una tecnica simile a Zodiac di Fincher (ancora cinema americano) e che rimanda direttamente a quell'arcano mistero che era racchiuso in Picnic ad Hanging Rock.
In Voice of a Murderer il rapimento di un bambino di 9 anni toglie la maschera a una routine familiare arida e priva di sbocchi e pur facendo leva sui clichet del thriller ad inseguimento, Voice of a Murderer è coreano fino al midollo e fa venire letteralmente i brividi quando sui titoli di coda fa sentire la vera voce del rapitore (peccato per quello spoiler nel titolo) in una delle sue numerose richieste telefoniche di riscatto.
Senza dimenticare che anche il bellissimo Memories of murder del grande Bong Joon Ho, parte da un fatto di cronaca: la ricerca affannosa (e infruttuosa) di quello che è stato il primo serial killer provato della storia coreana. Nel 2003 fu il terzo incasso con oltre 26 milioni di dollari e oltre 5 milioni di biglietti venduti. E in questo discorso della violenza sui minori possiamo anche inserire l'ultimo film di Bong Joon Ho, Mother, il cui accorato discorso sociopolitico prende le mosse dall'omicidio di una liceale.
Come discorso generale possiamo affermare che ci sono meno inibizioni nel mostrare le efferatezze anche se queste colpiscono bambini. E, caratteristica comune a molti film coreani, ci sono anche quegli squarci di lirismo doloroso, in mezzo a tanta violenza, che hanno la caratteristica di creare quasi un corto circuito emozionale tra realtà e fantasia, sconfinando spesso in un melodramma così sovraccarico che si fa fatica a rimanere indifferenti.
Ci sono comunque grosse differenze tra i thriller coreani e quelli americani: per prima cosa è bene notare che c' è una certa tendenza a distaccarsi dal classico lieto fine teorizzato in quel di Hollywood. Gli incassi sembrano non risentire di questo pessimismo di fondo che rende i finali di alcuni film dei veri pugni nello stomaco. Se un film deve finire male, state sicuri che un thriller coreano finirà anche peggio. Il lieto fine tout court è piuttosto raro da queste parti, sembra quasi che i vari registi vogliano trasmettere un disagio che vada ben oltre i titoli di coda.
Ce ne sarebbero tanti di esempi ma forse in questo caso è meglio non spoilerare se a qualcuno venisse in mente di recuperare questi titoli.
Un altro tratto che distingue il thriller coreano da quello hollywoodiano (e anche hongkonghese) è lo scarso utilizzo di armi da fuoco in genere, a parte le dovute eccezioni in cui le coreografie non possono fare a meno del piombo rovente. Se abbiamo in mente lo stereotipo della sparatoria da cinema americano è meglio dimenticarlo. Non è un caso che in The Murderer (The Yellow Sea) l'unico colpo di pistola di tutto il film sia esploso da un poliziotto che centra per sbaglio un altro poliziotto. E' invece l'arma bianca il vecchio classico sempre in voga, arma bianca da intendere nel senso più lato immaginabile. Si parte dai classici coltelli da cucina, si passa per martelli e asce e si arriva ai bisturi. E tutto questo non sembra impressionare più di tanto il pubblico.
Il box office coreano è colmo di crime stories, di thriller e di film action nelle prime posizioni. Se al di qua dell'oceano spesso il gore è lasciato fuoricampo nel cinema coreano invece spesso è tutto mostrato con dovizia di dettagli.
Indimenticabile la sequenza all'interno del taxi in I saw the devil quando il serial killer si trova con due malfattori che vogliono rapinarlo: il coltello disegna veloci e brevi ghirigori nell'aria, fende le carni e il sangue sgorga copioso.
Si può ricordare anche il grottesco tentativo del serial killer in The Chaser di far saltare l'osso occipitale armato di martello e scalpello a una malcapitata che è riuscito a portarsi a casa (non la sua ma quella di una vecchia coppia che ha già provveduto a far passare a miglior vita), ma la vittima non sta ferma e proprio in quel momento gli suonano alla porta. A volte succede che le sequenze efferate sono nascoste con piccoli escamotages come la porta con vetro opaco che nasconde la mattanza a colpi d'ascia di un corriere in Pagwidwin Sanai (Man of Vendetta) ma mostrando in modo esauriente le traiettorie degli schizzi di sangue oppure che si vede solo il risultato dell'efferatezza del killer come nel caso delle giovani ragazze vittime in Uri Dongne (Our Town) seviziate e crocifisse in una sinfonia di sangue oppure che il ritrovamento delle vittime sia particolarmente macabro come accade in Yongseoneun Eupda (No Mercy) in cui viene ritrovato un cadavere smembrato in vario modo e senza un braccio.
Una citazione dovuta per un'arma bianca impropria che ho già visto utilizzare in almeno un paio di volte in questi film: il bisturi. In Uri Dongne (Our Town) c'è una lunga, sanguinosissima sequenza dell'omicidio di un veterinario (che dolor!) con un bisturi trovato sul posto mentre in Beul-la-in-deu (Blind) il serial killer lo usa di routine per affettare le sue vittime e per uccidere chi gli si frappone come ostacolo. E trattandosi di un medico (ginecologo già condannato per aver procurato aborti clandestini) lo usa scientemente come strumento complementare della logica inappuntabile con cui sceglie le sue vittime e nasconde le sue tracce.
E il box office coreano premia. Il 2010 è stato da questo punto di vista probabilmente l'anno più felice. A parte il trionfo di The Man from Nowhere (che ha sbaragliato il botteghino con un incasso di oltre 42 milioni di dollari, c'è stato il terzo posto di Secret Reunion (un action contaminato col buddy movie), il sesto di Moss (un whodunit con un'ambientazione molto particolare, la ricerca da parte di un poliziotto dell'assassino del padre) oltre al dodicesimo di The Unjust.
Accanto a questi compaiono le sempiterne commedie sentimentali, opere che pescano nella millenaria storia di quel paese e pellicole che affrontano il discorso della storia recente e della memoria collettiva di una nazione fino a pochi anni fa dominata da una feroce dittatura, evidentemente una piaga ancora aperta.
Nel campo del thriller in pochi anni i coreani sono diventati maestri. E, come dice il mio amico kikisan, se nel film coreano c'è un serial killer allora non ce n'è più per nessuno. Neanche per gli americani che pure possono schierare tipini come Hannibal The Cannibal, il figlio di Sam o Il killer senza volto di Zodiac.
Se a volte la figura del serial killer è inserita in un film partendo dalla triste realtà (Memories of murder) molte altre volte è un parto della fervida immaginazione degli sceneggiatori. La lezione americana è molto spesso ben individuabile come succede in uno dei primi film coreani su un serial killer, H di Jong-Hyuk Lee. In questo caso si parte da un plot con evidenti rimandi a Il silenzio degli innocenti e si prosegue con uno stile che può richiamare il putrido marciume di Seven. E forse proprio per questa sua americanità è stato aspramente criticato in patria.
In Uri Dongne (Our Town) ad esempio abbiamo la moltiplicazione dei serial killers perché anche chi dà la caccia a colui che sta seviziando e crocifiggendo liceali ha qualche problema maniaco/ossessivo da curare. Anche in Beul-la-in-deu (Blind) l'assassino seriale agisce su giovani donne e questo succede anche in The Chaser (anche se poi accade che si debba procedere a qualche omicidio in più per avere meno problemi). In Pagwidwin sanai (Man of Vendetta) l'omicida in realtà è un rapitore seriale che uccide le giovani vittime i cui genitori non hanno pagato il riscatto. In The Unjust invece il serial killer che sta terrorizzando la città è solo un accessorio in un film incentrato molto più sul marcio nella polizia coreana interessata più alla politica che ad assicurare i criminali alle patrie galere.
E qui si entra in un altro argomento tipico di molti thriller coreani: l'inefficienza cronica, anche comica, della polizia. Se nel film appena citato la corruzione dilaga nelle alte sfere che sono interessate solo a consegnare un capro espiatorio all'opinione pubblica e non a cercare il vero colpevole, si possono citare molti film in cui l'inadeguatezza del poliziotto coreano è messa in primo piano. Questo è un altro tratto distintivo rispetto alla cinematografia americana che straripa letteralmente di superpoliziotti quasi capaci di fermare pallottole a mani nude, sempre con capacità deduttive e/o investigative che farebbero impallidire Sherlock Holmes, Hercule Poirot e Miss Marple assieme e alle prese costantemente con uno scheletro che a fatica è contenuto nell'armadio; sempre storie di migliori in qualche campo, superpoliziotti a volte con superproblemi ('sti americani hanno il vizietto dei supereroi).
Il detective coreano è invece quasi sempre totalmente inadeguato alle indagini che sta seguendo: capisce tutto sempre col classico attimo di ritardo e molto spesso è pure abbastanza imbranato quando si tratta di passare all'azione. Per non parlare dei semplici poliziotti trattati più o meno come carne da cannone.
Succede in The Murderer (The Yellow Sea) in cui un semplice tassista che accetta di compiere un omicidio su commissione si dimostra molto più efficiente di una masnada raccogliticcia in divisa che cerca di prenderlo, in Beul-la-in-deu (Blind) una testimone (cieca) è molto più perspicace del detective che la dovrebbe proteggere, in Yongseoneun Eupda (No Mercy) addirittura è gabbata da un killer reo confesso e da un patologo forense che contamina prove senza colpo ferire, si arriva addirittura al grottesco in Voice of a murderer in cui un funzionario chiede un autografo al padre(un famoso anchor man televisivo) di un bambino appena rapito.
Anche in questi casi non mancano certo le eccezioni ma guarda caso i film in questione sono ambientati nel passato. E' il caso di uno dei maggiori incassi di quest'anno Detective K o di Hyeol-ui nu (Blood Rain) del 2005.
Altre volte invece c'è anche la figura del superpoliziotto come ad esempio in I saw the devil in cui il protagonista la mette molto sul personale con il serial killer che ha appena ucciso la sua fidanzata incinta: non gli interessa l'indagine, ma la vendetta. E ha un'idea piuttosto originale per farlo. Ma si sa la violenza genera altra violenza e non bisogna diventare dei mostri come coloro contro cui si combatte.
E' un vero peccato che molto di questo cinema da noi non venga importato: ma forse qualcosa sta cambiando. La distribuzione in sala di Poetry di Lee Chang Dong o addirittura di The Housemaid di Im Sang Soo, raffinato thriller a sfondo erotico il cui stile ultra-patinato fa da contraltare a una storiaccia di sesso e vendetta con un finale in perfetto stile coreano, fa ben sperare per il futuro.
Un ringraziamento a kikisan per i preziosi suggerimenti.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta