Il cinema di Vittorio De Seta non è di facile approccio. Non aveva scelto di provocare né tantomeno di ricorrere alla finzione per raccontare il mondo che lo circondava. Il suo era un approccio quasi antropologico ed etnografico, attento al fatto che a parlare fosse la realtà che lo circondava, una realtà non filtrata dal suo sguardo... semmai una realtà che facendosi scudo della cinepresa si mostrava nel suo essere e nei suoi limiti tanto che spesso ci si riferisce alla sua produzione accostandola al verismo di Giovanni Verga, un cinema che in poche parole si affida alla realtà restituendola oggettivamente per immagini, capaci senza commento aggiunto di suscitare reazioni soggettive.
Un cinema spesso fatto di natura che si antropomorfizza divenendo protagonista insieme ai personaggi e al contesto sociale in cui le storie sono inserite. Chi pensa che il documentario sia un genere a sé stante, lontano dai meccanismi di produzione della cultura cinematografica, deve fare un passo indietro: forse non tutti sanno che un tempo, ad esempio, il Festival di Cannes accanto ai lungometraggi di finzione premiava anche i documentari, come Isole di Fuoco che De Seta girò nel 1954 come omaggio al popolo dei pescatori delle isole Eolie, da secoli abitanti di un lembo di terra in aperto mare e sotto l'ombra di un vulcano, e facente parte di un corpus contenente altri sei documentari (dalla durata media di dieci minuti) dedicati alla sua terra. Discendente di una famiglia nobile calabrese, De Seta era nato a Palermo il 15 ottobre 1923 e si sentiva siciliano: era affascinato da un mondo lontano dal suo, dal mare che regolava la vita dei pescatori e dai raccolti che determinavano le azioni dei contadini. Vedeva piena armonia e corrispondenza tra la natura e la popolazione, non c'erano ancora la macchine a farla da padrone e il concetto di globalità non era ancora entrato nella vita delle comunità. Uno sguardo sociologico, si direbbe oggi: le comunità prima di essere società, per dirla alla Max Weber, sono protagoniste di un cinema che documenta l'Italia del dopoguerra, microcosmi ancora vergini dal massacro culturale degli Anni Sessanta e Settanta, massacro che poi è il motore che spinse il regista a girare La Sicilia rivisitata, dopo 8 anni di inattività.
Non c'era mai presunzione autoriale nei suoi lavori, nonostante fosse lui stesso figlio del neorealismo, corrente cinematografica a cui si può ascrivere la sua produzione. Mai capito fino in fondo dalla critica blasonata e bistrattato anche dopo lo straordinario successo televisivo dello sceneggiato Diario di un maestro (15 milioni di spettatori a puntata) e dei riconoscimenti ottenuti con Banditi a Orgosolo (altra terra, altra isola: la Sardegna al centro del suo primo lungometraggio), De Seta è stato troppo poco dietro la macchina da presa, l'ultima produzione risale al 2006 quando in Lettere dal Sahara si fa cantore dei processi di immigrazione e integrazione multiculturale, anticipando quelle tematiche oggi care ai cineasti italiani del Terzo Millennio con uno sguardo spiazzante che ridimensiona il lavoro di chi si è palesato anni dopo tra terreferme e indicizzazioni luogo-temporali.
Vittorio De Seta è morto ieri sera a Catanzaro, aveva 88 anni. Sono sicuro che nessuno si fionderà a ripescarne le origini e che tre righe tra le brevi ne ricorderanno il passaggio nel mondo della settima arte. De Seta non provocava né inventava: era in continuo processo osmotico con la realtà e la realtà spaventa per la passione con la quale può essere raccontata senza fronzoli o metafore esistenziali.
Percorsi sul cinema di Vittorio De Seta:
- Banditi a Orgosolo - Recensione di Yume
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