Bisogna cospargersi il capo di cenere e ammetterlo: ci sono piccoli film che l'Italia produce di cui noi spettatori non capiamo la portata e di conseguenza ci divertiamo a sottovalutarli. Si tratta sovente di piccole pellicole che passano inosservate al grande pubblico, troppo amante dei soliti noti e dei nomi altisonanti che magari in vita loro hanno beccato una sola pellicola degna di tale nome.
Penso per esempio a quello che è successo due anni fa con Io sono l'amore di Luca Guadagnino, deriso dall'80% della critica di casa nostra e snobbato dal pubblico dei cinefili italiani ma amato all'estero fino al punto di arrivare alla notte dei Bafta, dei Grammy Adwards e degli Oscar. Più o meno, quello che sta accadendo anche a Corpo celeste di Alice Rorhwacher, ad esempio: piccolo gioiello - per di più opera prima - che i nostri selezionatori hanno avuto paura di proporre all'Academy, nonostante le ottime recensioni riportate a casa dai Festival di mezzo mondo e fosse amato dalla stampa di oltreoceano più di quanto lo fosse da quella italiana, e che in sala è stato visto da tre o quattro di noi.
Nemo pro domo sua, dicevo qualche giorno fa. La lista è lunga, a ben pensarci: Ainom, La bella gente, La siciliana ribelle, La bestia nel cuore, Cose dell'Altro Mondo, Sette opere di misericordia, Maledimiele, Sulla strada di casa, Tatanka, Isole. E potrei continuare all'infinito, riportando ad esempio quello che si è scritto in Francia di Maternity Blues o l'accoglienza riservata in Giappone a Scialla! oppure le lodi sperticate ai Baci mai dati della Torre al Sundance Festival.
Mi chiedo a cosa si debba questa differenza di vedute e me lo chiedo alla luce di una notizia che oggi nessun esperto ha ancora commentato. Negli Stati Uniti, il regista Joshua Marston (al suo attivo ha due film come La Faida e Maria Full of Grace, che lo hanno portato nonostante la giovane età nell'Olimpo degli Autori acclamati ai Festival) è stato chiamato a dirigere il remake di La doppia ora di Giuseppe Capotondi, sotto la produzione di Roy Lee e Nicola Giuliano (produttore dell'originale e di titoli come This must be the place).
Presentato in Concorso al Festival di Venezia del 2009, La doppia ora valse la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile a Kseniya Rappoport che con il personaggio di Sonia si muoveva all'interno di un thriller che aveva poco di "cinema italiano":
«Si tratta di un film sorprendente, strano, mai banale, mai scontato. Un film dove la suspense è soprattutto una suspense dell’anima, i colpi di scena ci sono ma sono sempre coniugati con le conseguenze che porteranno nelle vite e negli affetti dei due protagonisti. Compreso lo strano rumore che ogni tanto la protagonista avverte (ma solo lei) nella prima parte del film. Cinismo e amore, legati in modo quasi indissolubile. Alla fine gli elementi gialli tornano tutti, quelli affettivi un po’ meno. Per proporre un’opera prima così insolita e graffiante ci voleva la coppia Nicola Giuliano & Francesca Cima, i due che hanno arricchito il cinema italiano con il talento di Sorrentino e la suspense di La ragazza del lago. Per interpretare i due protagonisti era indispensabile il talento di Filippo Timi e di Ksenia Rappoport, bravissimi ed efficaci. Per legare insieme giallo e amore, sogno e realtà ci voleva una mano sicura anche se di esordiente. Gli elementi si combinano bene, il film è riuscito. Ma soprattutto è riuscita l’operazione più difficile: fare un film di dimensioni e ambizioni internazionali mantenendo salda l’identità italiana. Ed è riuscito anche l’inserimento in concorso a Venezia di un’opera prima che non è stata mandata al massacro. Era da tempo che questo non accadeva».
Così scriveva Steve Della Casa nella recensione pubblicata da FilmTv.it, eppure il pubblico italiano in sala non si è visto: l'incasso totale è stato di poco superiore al milione di euro, raddoppiato però dalla considerevole cifra (una enormità per un film uscito in un numero esiguo di sale ma rimasto in cartellone per ben quattro mesi) racimolata nella sua distribuzione a stelle e striscie.
La stampa statunitense, poi, è andata in visibilio:
La doppia ora "è un film da vedere una seconda o, addirittura, una terza volta per carpirne ogni segreto. In Kseniya Rappoport si insinua un mix di ansia, vulnerabilità e diffidenza, che ricorda la Monica Vitti dei film di Antonioni mentre Filippo Timi ha negli occhi la stessa intensità di Javier Bardem, con tocchi di Al Pacino da giovane. La commistione di generi, che parte da Vertigo e arriva a Brivido caldo, ti porta a sperare che la storia continui per altri 20 minuti di pensieri diabolici e che la fine venga ritardata il più possibile", scrive il New York Times.
Dunque... Ma è davvero possibile che si debba sempre piangere sul cinema italiano che per molti sembra non realizzare niente di buono? Quanto diventa credibile chi non riconosce in casa propria il valore di un film per poi esaltare tutto ciò che viene dall'estero e soprattutto da una certa parte del pianeta? Non sarà che forse 'sti americani stanno per superarci anche in fatto di competenze e gusti? Davvero siamo così ciechi da non accorgerci del valore intrinseco di un prodotto? Cosa ricerchiamo per farci colpire da qualcosa? Ci deve essere per forza il tizio truccato come al carnevale di Rio, la pesantezza di prodotti che dietro alla firma celano due ore di noia e sbadigli o qualche disgraziata squartata in mille modi per gridare al capolavoro? Cosa aveva in meno La doppia ora di opere ben più acclamate e viste?
Nell'attesa di un confronto che forse avverrà solo tra vent'anni, io corro a rivedermi il film di Capotondi in dvd. E, a proposito, cosa sta facendo Capotondi in questi ultimi tempi? Sta girando qualcosa di nuovo o come tanti altri registi promettenti è fermo solo perché noi, il pubblico, abbiam deciso così?
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