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Oggi a Roma: Speciale La Kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo
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Quarto e ultimo titolo italiano in Concorso al Festival di Roma è l'attesissimo La Kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo, scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico e produttore, che esordisce alla regia con la trasposizione di uno dei suoi romanzi più autobiografici. Lo si presenta oggi alle 22:30 all'Auditorium Santa Cecilia.

 

Forte di un cast che conta tra gli altri Luca Zingaretti, Valeria Golino, Cristiana Capotondi, Libero De Rienzo e Fabrizio Gifuni, il film è una commedia "familiare" che ci porta dritti dentro l'ambiente underground della Napoli dei primi Anni Settanta, con protagonista l'undicenne Luigi Catani e un Superman all'italiana.

 

Ogni famiglia ha i suoi segreti.
Ma alcuni fanno più ridere di altri.

Napoli. 1973. Peppino Sansone ha 9 anni, una famiglia affollata e piuttosto scombinata e un cugino più grande, Gennaro, che si crede Superman. Le giornate di Peppino si dividono tra il mondo folle e colorato dei giovani zii Titina e Salvatore fatto di balli di piazza, feste negli scantinati, collettivi femminili e la sua casa, dove la mamma si è chiusa in un silenzio incomprensibile e il padre cerca di distrarlo regalandogli pulcini da trattare come animali da compagnia.
Quando però Gennaro muore, la fantasia  di Peppino riscrive la realtà e lo riporta in vita, come se il cugino fosse effettivamente il supereroe che diceva di essere. Ed è grazie a questo amico immaginario, a questo superman napoletano dai poteri traballanti, che Peppino riesce ad affrontare le vicissitudini della sua famiglia e ad accostarsi al mondo degli adulti.

 

 

 

INTERVISTA AL REGISTA IVAN COTRONEO


Come hai scelto e vissuto il passaggio dall'esperienza della scrittura alla regia?
Nella mia vita ho scritto tanto, ma non sono mai stato molto lontano dai set. Subito dopo essermi diplomato in sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia, ho cominciato a lavorare come assistente alla regia. Negli anni in cui mi sono dedicato alla scrittura, ho frequentato i set dei film che avevo scritto ogni volta che il regista richiedeva la mia presenza - e a volte anche quando non la richiedeva. Ma non ho mai preso in considerazione l’idea di assumermi la responsabilità di una regia fino a quando Nicola Giuliano e Francesca Cima non hanno scelto di lavorare alla trasposizione  cinematografica del mio romanzo  La kryptonite nella borsa. Dalle riunioni con loro, mentre discutevamo di come portare il romanzo sullo schermo, si è fatta avanti l’ipotesi della mia regia. Da qui è cominciata una lunga avventura fatta di scrittura, di preparazione, di costruzione della troupe e del cast che mi ha travolto totalmente.

Un’avventura in cui non sono stato mai solo. Ho discusso e argomentato con i miei produttori tutte le mie scelte, ho avuto la fortuna di lavorare con una troupe non solo preparatissima ma che credeva in quello che stavamo facendo, e con un cast di attori che era coinvolto in tutti i momenti della realizzazione, anche quando non era in scena. Ho vissuto quest’esperienza come un’avventura collettiva, in cui mi veniva molto più facile dire “noi abbiamo deciso di fare”, “noi stiamo facendo”, piuttosto di “ho deciso che”.

 

 

Come hai lavorato alla sceneggiatura partendo dal romanzo che avevi scritto?
Quando mi è stata affidata la regia, ho immediatamente pensato che non volevo essere solo nel lavoro di trasposizione. Ho  chiesto aiuto a Monica Rametta, con cui avevo già lavorato, e a Ludovica Rampoldi, con cui non avevo mai collaborato ma di cui avevo letto sceneggiature e visto film. Insieme abbiamo cercato di concentrarci sulla linea centrale del romanzo: la visione del mondo di Peppino, il rapporto di Peppino con la madre, con il padre, con la sua famiglia scombinata e con un cugino presunto supereroe. Abbiamo snellito storie collaterali, e lavorato sui personaggi, cercando di dare a ognuno di essi una possibilità, almeno una scena in cui potessero esprimersi o raccontare la loro verità umana.
Monica e Ludovica mi hanno aiutato molto a guardare la materia del romanzo con distacco e il loro apporto è stato fondamentale.

 

 

Come hai affrontato la messa in scena degli anni ‘70 ed in particolar modo della tua Napoli degli anni ‘70?
Ambientare un film nel 1973 significa necessariamente fare un film in costume.
Ecco, io ho cercato in tutti i modi di non trattare questo film come se fosse davvero in costume. Volevo che i nostri anni Settanta fossero realistici, che la fotografia, le scenografie e i costumi raccontassero la modestia di quegli anni, senza nostalgia o rimpianto. I vestiti che duravano più stagioni, le maglie passate da un cugino all’altro, i pantaloni dei bambini con la piega più scura in fondo, perché era necessario allungarli mentre si cresceva, i ripiani dei mobili sgombri, poche suppellettili, le buste della spesa di plastica pesante. Tutti elementi reali, non rievocati. Ho cercato di raccontare la storia senza appoggiarmi al mito degli anni Settanta, e di recuperare, di quegli anni napoletani - che ricordo da bambino, lo strano incrocio fra suggestioni alte e basse, fra mode che venivano dall’estero e vita di quartiere, le canzoni in inglese ripetute senza capirci una parola e la pizza fritta. Di quegli anni mi interessava soprattutto la possibilità del cambiamento, il contrasto fra le nuove idee di libertà e lapresenza a volte condizionante della famiglia.

Quanto delle nuove idee sarebbe stato davvero realizzabile? Sono sufficienti solo la determinazione e la convinzione a rendere possibile un sogno, o è la vita a rotolarti addosso? Volevo mettere in scena un mondo combattuto, specialmente per le donne, fra l’utopia del futuro e la tradizione casalinga, un mondo in cui a parole tutto sembrava possibile. Luca Bigazzi alla fotografia, Rossano Marchi per i costumi, Lino Fiorito per la scenografia, mi hanno aiutato a costruire un mondo realistico, in cui gli elementi fantastici si combinano con le porte che cigolano, le lampadine a incandescenza un po’ basse, le scarpe consumate, i bicchieri scompagnati.

 

 

 

 

Il film vanta un cast importante, come hai lavorato con gli attori?
Sento di essere stato molto fortunato in questo mio primo film. Ho avuto la possibilità di lavorare con attori che stimavo per averli visti e amati nei film di altri.

Valeria Golino è stata nei miei pensieri fin da quando scrivevo il romanzo: prima ancora di sapere che ci sarebbe stato un adattamento cinematografico, la Rosaria Sansone del romanzo aveva i suoi occhi, il suo corpo, la sua voce.

Cristiana Capotondi era nella mia testa la zia giovane che cercavo: allegra e disinibita, ma con una malinconia nascosta negli occhi, che emerge solo a guardare bene.

Luca Zingaretti con il suo grande talento e la sua carica di umanità e generosità ha portato al personaggio di Antonio il candore e l’incoscienza di un padre di quegli anni.
Libero De Rienzo ha messo nel suo Salvatore audacia, sfrontatezza e paura della vita, tutto quello che desideravo.
E Fabrizio Gifuni ha dato credibilità e smarrimento al dottor Matarrese. Ma la verità è che sono profondamente legato a tutti gli attori del mio film, dal primo all’ultimo, e se c’è una cosa che ho capito da questa mia prima esperienza di regia è che non puoi lavorare con attori che non ami in un senso profondo e sincero.

Ho conosciuto mentre facevo i provini Vincenzo Nemolato, che interpreta Gennaro Superman, e ho pensato immediatamente di avere trovato quello che cercavo.

Monica Nappo, Lucia Ragni, Antonia Truppo, Gennaro Cuomo, Rosaria De Cicco, Massimiliano Gallo, Sergio Solli, Nunzia Schiano, Tina Femiano…
Ciascuno dei miei attori, popolare o meno, che avesse una lunga esperienza alle spalle o meno, mi ha fatto un grandissimo regalo fidandosi della storia, affidandosi alle mie indicazioni, entrando a far parte di un’idea generale del film.

 

 

 

Un bambino è al centro del racconto. Come hai scelto e lavorato con Luigi
Catani?

Luigi è stato scelto fra più di cinquecentobambini. Ma potrei dire che si è scelto da solo, si è imposto incontro dopo incontro con la sua presenza, la sua discrezione, il suo sguardo. Continuavo a conoscere altri possibili Peppino, ma poi nella mia testa rimaneva solo lui, ricciolone, con questi grandi occhi chiari che sembravano proprio venire da sua madre Valeria Golino. Aveva nei nostri incontri quel suo modo speciale di mettersi serio serio in un angolo quando entrava in una stanza. Mi sembrava un bambino antico, con un senso del rigore e un grande, istintivo pudore. Luigi non aveva, prima di questo film, nessuna esperienza cinematografica o televisiva ma canta da anni nel coro del San Carlo a Napoli.
Abbiamo cominciato a leggere la sceneggiatura e a costruire il personaggio insieme.
Luigi si è fidato di me e io di lui. Dopo un po’ che lavoravamo insieme alle scene, ha incontrato Valeria Golino. Quando l’ha vista per la prima volta mi si è appeso al braccio, e senza parlare mi chiedeva di aiutarlo. Ha provato tanto, con gli attori che sullo schermo sarebbero stati sua madre, suo padre, i suoi zii e la nonna. Ha trascorso molto tempo con suo cugino Superman, pomeriggi interi con Valeria Golino in giro per Napoli, e quando alla fine siamo arrivati sul set, era diventato Peppino, con quegli occhiali rotti che continuamente si rimetteva
a posto sul naso. Dovevo solo dirgli di iniziare, lui era già lì, nella famiglia Sansone.

 

 

La musica gioca un ruolo importante nel film. Come hai scelto le musiche di repertorio e lavorato a quelle originali?
Già dalla costruzione della sceneggiatura, sapevo di volere affidare una importante funzione narrativa alla musica. Le musiche di repertorio, precisamente quei pezzi, sono stati lì fin dall’inizio del lavoro. Non dovevano solo accompagnare, ma proprio raccontare certi momenti precisi della storia.
La solitudine di Rosaria che torna a casa dopo avere scoperto che il marito la tradisce, già in scrittura poteva per me solo essere raccontata dalla voce di Mina che canta Quand’ero piccola, l’esplosione della fantasia di Peppino poteva solo essere esaltata dalla voce di David Bowie, l’amore tenero e povero di due ragazzi in una cabina sulla spiaggia aveva e poteva solo avere la voce di Peppino di Capri, e ho voluto così fortemente che l’armonia famigliare fosse raccontata da Iggy Pop che non mi sono fatto fermare nemmeno dalla circostanza che  Lust for life fosse in realtà un pezzo che portava una data successiva di tre anni rispetto a quella
in cui è ambientato il film.

These boots are made for walkin’ è presente nel film in due versioni, quella di Dalida in italiano, e una cover che ho chiesto di curare ai Planet Funk, che conosco e ammiro da  tempo.
Volevo che una canzone del passato, ma riarrangiata e resa nuova, accompagnasse sui titoli di coda quella che immaginiamopotrà essere la vita futura di  Peppino. La
sceneggiatura, l’arco della storia sono nati già puntellati da queste scelte musicali, e Pasquale Catalano, con il suo talento e la sua sensibilità, ha costruito una partitura che per proprio conto e in autonomia seguisse lo sviluppo dei personaggi, cercando di ricreare una loro verità e un loro sviluppo attraverso le musiche originali.

Il risultato finale è una commistione solo apparentemente bizzarra di pop italiano e capolavori della musica anglosassone, immersi in un contesto che è quello dei vicoli, della verità umana dei personaggi.
Una colonna sonora libera e piena di suggestioni diverse, che cerca di raccontare la vita. 

 

 

 

 

Valeria Golino

Lo sai Peppì, sembravano giorni come tanti… e invece non pensavo a niente.
Forse era quella la felicità

Rosaria Sansone è a Procida, quando pronuncia queste parole. Sta raccontando al figlio Peppino della sua giovinezza, di un momento lontano della sua vita che le appare, mentre lo rievoca, “felice”, un aggettivo che la sgomenta e la impaurisce.
Davvero la felicità era quella, l’aspettativa di un futuro possibile, la mancanza di preoccupazioni? Veramente la felicità è già passata senza che lei se ne accorgesse? Rosaria è spaventata, non ha risposte, né per sé né per il suo bambino. Però mette un “forse” alla sua convinzione. Un “forse” che è un po’ una speranza. Di lì a poco, nella storia che racconta il film, imparerà che la vita ti sorprende, che le vicende anche drammatiche possono rovesciarsi, e che nella nostalgia del passato non c’è via di salvezza ma solo una trappola, un’illusione, un pericoloso conforto. Mentre pronuncia queste parole, la vita sta già andando avanti insieme a lei, e le sta offrendo una grande possibilità di vittoria e di riscatto, come ricompensa per la sua forza. È questa forse la caratteristica più importante di Rosaria: la sua capacità di resistere, di combattere silenziosamente per la vita che vorrebbe. È questo che la rende vittoriosa, capace di vincere sul suo tempo, sulle circostanze, sulle convinzioni famigliari. Non lasciarsi intrappolare dalla nostalgia significherà per lei trovare una nuova e inaspettata forma di felicità”. 

 

 

 

 

 

Cristiana Capotondi

.
Elio non è zoppo, cammina solo un po’ sportivo

Questa battuta della mia Titina sintetizza alla perfezione il suo pensiero: la vita, del resto, è come la vedi.
Se Elio è davvero zoppo non importa, Titina è disposta a convincersi che sia solo un vezzo che lo rende particolare. Riesce a vedere il bello in ogni cosa, è quello spirito tipicamente napoletano del credere che qualunque cosa ci mandi il cielo, andrà certamente bene.
Elio, in effetti, gliel'ha mandato la Provvidenza ed a quel fioretto Titina, che qui si scopre molto più tradizionalista di quanto i suoi costumi disinibiti facciano credere, non può che tener fede. Titina vive le esperienze delle giovani degli anni Settanta ma ad un certo punto sentirà più forte il richiamo di quel destino che la lega a tutte le donne della sua famiglia, a tutte le donne che rappresentano quel tipo di femminilità matriarcale.
D'altro canto non ha mai realmente creduto in un futuro diverso, più agiato, lontano dai luoghi in cui è cresciuta. È Miss Levagnole, una reginetta di bellezza che sa di essere speciale solo tra quelli come lei. E la zoppia di Elio è anche un modo per non illudersi di una felicità che non crede possa esistere davvero anche per lei.

 

 

 

 

Luca Zingaretti

Senti Peppì, perché non mi abbracci come quando eri piccolo che pareva che tenevi  bisogno solo di me..

La prima cosa che ho pensato studiando il personaggio di Antonio è che mi infondeva una grande tenerezza. Un sentimento strano per un personaggio che, tutto sommato, ne combina di cotte e di crude. Se venisse giudicato oggi come padre e marito il personaggio di Antonio riceverebbe sicuramente una solenne bocciatura. Verrebbe definito un papà e un marito, nel migliore dei casi, distratto.
Per questo è importante ricordare che Antonio deve essere letto, visto, pensato, e da ultimo giudicato, come un uomo degli anni Settanta, quando cioè l’educazione dei figli era un compito delle mamme, e in cui, per esempio, la
depressione, soprattutto quella femminile, veniva liquidata genericamente come esaurimento nervoso. La loro storia è ambientata in un’epoca in cui non eravamo ancora intrisi di cognizioni di psicologia adulta e infantile, e le coppie non si separavano se non per qualcosa di veramente importante. Antonio è un uomo che vive una realtà in grande trasformazione (che come tutti i cambiamenti vengono letti prima e meglio dall’universo femminile) senza avere gli strumenti per fronteggiarla.
La bocciatura sarebbe, quindi, non solo sbagliata, ma anche ingiusta: Antonio vive e agisce secondo la morale e l’educazione del suo tempo.
L’amore verso la moglie è autentico e vivo così come la sua passione. Ma quando lei va in crisi non riesce a capirla. Il suo tradimento è un’infantile reazione al sentirsi trascurato ma anche un generico pensare che il rapporto con l’amante niente abbia a che vedere con il suo matrimonio. Anche con Peppino, Antonio
è un padre affettuoso. La sua sensibilità di uomo degli anni Settanta non gli permette di leggere correttamente il malessere di Peppino, ma lui ce la mette tutta per tentare di distrarlo e confortarlo.
E quando non ci riesce, quando ha esaurito tutte le frecce e non sa cosa fare, la sua impotenza emerge con un candore che intenerisce: è lui a chiedere al figlio un gesto che possa fermare il tempo e donargli la pace interiore.

 

 

 

Libero De Rienzo

Ma perché non ci credi?
Guarda che se non ci credi non succede,  e poi rimaniamo qua tutta la vita.
Ci devi credere, Titì…

Salvatore Sansone sorride molto. Dietro la sua allegria, le sue uscite notturne, le mille ragazze che rimorchia, ha un unico desiderio, fortissimo: sentirsi speciale. Ha bisogno di credere di essere destinato a una vita diversa, che vedrà lui e la sorella Titina lontani da Napoli, lontani dall’Italia, magari a Londra.
Nel quartiere di Napoli dove vivono, i due fratelli sono come delle piccole celebrità: sono estrosi, stravaganti, quasi oltraggiosi.
Si sentono molto moderni. Ma Salvatore sente istintivamente che la loro modernità potrebbe non portarli più lontano delle scale di San Pasquale. Ha bisogno di credere al suo sogno, e questa fede è l’unica arma che ha per renderlo possibile: Se ci credi succede veramente. È un’illusione, molto spesso. La vita si incaricherà di scombinare le carte, i suoi progetti per il futuro, e gli darà in cambio il carico di un rimorso che lo renderà responsabile e molto più dubbioso. Meno sorridente, e più uomo.

 

 

Luigi Catani

Il bambino, Sansone Giuseppe, detto Peppino, nasce a Napoli il 20 febbraio 1964. L’arrivo  di Peppino in famiglia suscitò immediatamente grande sensazione

Quando ho saputo di essere stato scelto, tra tanti bambini, sono stato felicissimo perché, dopo molti provini, mi ero affezionato a Peppino, che in fin dei conti un po’ mi somiglia.
Con Ivan è nato un feeling speciale dal primo momento, ci siamo voluti bene subito!
La prima cosa che ho fatto è stata la prova costumi. Ho indossato vestiti per tante ore ma già si respirava un'aria di allegria e simpatia.  
Qualche giorno prima di iniziare le riprese ho avuto modo di trascorrere qualche pomeriggio con Valeria Golino, la mia mamma nel film, che oltre ad essere dolcissima e bellissima è anche molto sportiva infatti mi ha battuto a Kinect Sport!
Il primo giorno di riprese mi sono svegliato prestissimo. Andavamo a Procida ed ero molto teso, avevo paura di sbagliare tutto e di deludere Ivan.
Invece è andata bene, tutti mi hanno messo a mio agio, mi hanno aiutato e come per magia sono diventato Peppino. Ho scoperto un mondo nuovo che non conoscevo, il cinema e ne sono rimasto affascinato.
Mi sono sentito davvero Peppino, adesso lui è parte di me e lo sarà per sempre.
Sul set si respirava un'aria di infinita allegria, tutti erano calmi, tutti lavoravano con la voglia di dare il meglio. Me compreso!
Le scene più divertenti sono state quelle con Gennaro Superman, Vincenzo Nemolato. Lui ha una carica di simpatia fortissima e ridevamo molto insieme.
Devo dire che ho legato con tutti. Anche quando giravo le scene con Luca Zingaretti mi sono divertito, specie quella con i pulcini e quella della giostra gigantesca in piazza Mercato.
Ero molto curioso di scoprire quel mondo, mi affascinavano le scenografie, i microfoni, le telecamere, le riprese fatte da ogni angolazione, i carrelli - le telecamere montate in alto, insomma capire quanto lavoro c'è dietro ogni film.
Ma quello che di più resterà dentro di me è l'affetto che provo per tutti loro, il calore che ho sentito, mi sembrava di conoscere tutti da sempre, di essere nella mia famiglia.
Cristiana e Libero sembravano davvero i miei zii, ho ballato e cantato senza vergogna perché mi sembrava così naturale farlo. Anche Valeria sembrava proprio la mia mamma.
Insomma l'ultimo giorno di riprese - all'ultima scena ho pianto molto perché, finita l'avventura, avevo paura di non vedere più persone come Ivan e come il mio amico Bigazzi.
Ringrazio tutti per avermi regalato la possibilità di interpretare il ruolo di Peppino e di aver fatto sì che tutto sia stato come un bellissimo gioco.

 

 

 

 

Fabrizio Gifuni

Immagino che ora lei si stia chiedendo chi sono io. Allora io mi chiamo Enrico.
Sono nato a Napoli e ho 42 anni... Mi sono laureato in medicina e poi mi sono
specializzato in psichiatria

Il dottor Matarrese è un uomo che inciampa di continuo nelle sue fragilità. Perde e riprende il controllo in più riprese.  
Vive, in questo racconto, solo all’interno del suo spazio.  I pochi metri quadrati che delimitano il perimetro del suo studio. I passi che occorrono per arrivare dalla porta alla scrivania e da questa al lettino.

La “mia” paziente è Valeria Golino. Che in alcune vite precedenti è stata
già, per me, mamma e fantasma (ne  L’uomo nero di Sergio Rubini), amante (ne  L’inverno di Nina Di Majo), moglie separata (ne  La ragazza del lago di Andrea Molaioli), psicologa - mai incontrata - (ne L’amore buio di Antonio Capuano). C’è, dunque, ormai una sorta di naturale meravigliosa consuetudine nel ritrovarsi così, anno dopo anno, a far finta di essere altri.  Una sicurezza.  E poi la luce di Luca
Bigazzi ritrovata dopo tredici anni dal film di Amelio  (Così ridevano). Insomma troppe, troppe certezze per il dott. Matarrese in questo momento della sua vita. Per lui - è chiaro - non poteva che finire così.

 

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