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Oggi a Roma: Speciale sul film Pina di Wim Wenders
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Sarà presentato alle 19:30 all'Auditorium Santa Cecilia per gli Eventi Speciali del Festival di Roma il documentario in 3D Pina di Wim Wenders, il film che il regista ha dedicato a Pina Bausch. Per l'occasione, inoltre, si terrà un incontro con il regista che discuterà sul futuro del cinema in 3D.

Ricordandovi la recensione della nostra Yume che ha visto in anteprima il film candidato ufficiale della Germania per gli Oscar 2012, ecco il materiale messo a disposizione dall'ufficio stampa della Bim, che dal prossimo venerdì porta l'opera nei cinema d'Italia.

 

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WIM WENDERS SU PINA BAUSCH (1)

CREATRICE DI UNA NUOVA FORMA D’ARTE

«No, non c’era nessun uragano che spazzava il palcoscenico c’erano solo… persone che danzavano, che si muovevano in modo diverso da quello che conoscevo e che mi commuovevano come mai nient’altro prima.

Dopo pochi istanti avevo già un groppo in gola, e dopo qualche minuto di stupore incredulo ho dato libero sfogo ai miei sentimenti, e ho pianto senza ritegno.

Non mi era mai successo…

Forse nella vita, a volte al cinema, ma non guardando le prove di uno spettacolo - di danza, per giunta.

Quella non era danza, né pantomima o balletto,  e meno che mai opera.

Pina è, lo sapete, la creatrice di una nuova arte.

Il Tanztheater – teatro-danza».

 

 

MOVIMENTO

«Il movimento in sé non mi aveva mai emozionato, lo davo per scontato.

Uno si muove, e basta. Tutto si muove.

Solo attraverso il Tanztheater di Pina ho imparato ad apprezzare movimenti, gesti, pose, comportamenti, il linguaggio del corpo, e a rispettarli.

Ogni volta che vedo una sua coreografia, anche per la centesima volta, resto come folgorato e ri-imparo che la cosa più ovvia e più semplice è anche la più commovente: custodiamo un tesoro nel nostro corpo! La capacità di esprimerci senza parole.

E quante storie possono essere raccontate senza pronunciare una sola frase».

 

Dal suo intervento al Premio Goethe 2008 assegnato dalla città di Francoforte a Pina Bausch

Pina (2011): Trailer Italiano Ufficiale

 

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LO SVILUPPO DEL PROGETTO

Wim Wenders rimase molto colpito e commosso quando, nel 1985, vide per la prima volta “Café Müller” della coreografa Pina Bausch. Il Tanztheater Wuppertal lo portò in scena a Venezia, in occasione di una retrospettiva dell’opera della Bausch. Dall’incontro fra questi due artisti è nata un’amicizia che è durata nel tempo e, più avanti, è nato anche il progetto di fare un film insieme. Purtroppo, la realizzazione del progetto è stata sempre rimandata per via dei limiti imposti dal mezzo: Wenders era convinto di non avere ancora trovato il modo di tradurre nella forma cinematografica l’arte fatta di movimento, gesto, parola e musica della Bausch. Nel corso degli anni, quel futuro progetto comune si era trasformato in un piccolo rituale tra amici, quasi un tormentone. Ogni volta che si incontravano la Bausch chiedeva a Wenders: “Quando?” E lui rispondeva. “Appena avrò trovato il modo…”

 

Il momento della svolta, per Wenders, è arrivato quando la band irlandese degli U2 ha presentato il suo film-concerto in 3D a Cannes. Wenders l’ha capito subito: “Con il 3D il nostro progetto si poteva realizzare! Solo così, incorporando la dimensione dello spazio, potevo tentare di portare sul grande schermo il teatro-danza di Pina.” Da quel momento, ha cominciato a visionare sistematicamente tutti i film in 3D della nuova generazione. E nel 2008, lui e Pina hanno ripreso il loro vecchio progetto e hanno scelto alcune coreografie per il film – “Café Müller”, “Le Sacre du printemps”, “Vollmond” e “Kontakthof” – che sono state inserite nel cartellone della stagione 2009-2010 della compagnia.

 

DOPO LO SHOCK, UN NUOVO INIZIO

Nei primi mesi del 2009, Wenders e la sua casa di produzione Neue Road Movies, insieme a Pina Bausch e alla compagnia Tanztheater Wuppertal, sono entrati in fase di pre-produzione. Ma dopo un anno e mezzo di intenso lavoro, e soltanto due giorni prima delle prove programmate per le riprese in 3D è successo l’impensabile: Pina Bausch è morta il 3 giugno del 2009, in modo del tutto improvviso e inaspettato. In tutto il mondo, i suoi ammiratori e gli amici del Tanztheater Wuppertal piangevano la scomparsa della grande coreografa. Wenders ha immediatamente interrotto il lavoro, convinto che il film, senza Pina, non si dovesse più fare.

 

Dopo un periodo di lutto e di riflessione, e incoraggiato da molti appelli internazionali, dal consenso della famiglia e dalla richiesta dello staff e dei danzatori della compagnia che stavano per cominciare le prove delle coreografie già scelte per il film, Wim Wenders ha deciso di andare avanti, anche senza Pina: il suo sguardo indagatore e affettuoso sui gesti e i movimenti degli artisti della sua compagnia e ogni singolo dettaglio delle sue coreografie erano ancora vivi e presenti, inscritti nei corpi dei suoi danzatori. Nonostante la grave perdita, era il momento giusto, forse l’ultimo, per portare tutto questo sul grande schermo.

 

Oltre a brani tratti dalle quattro produzioni di “Café Müller”, “Le Sacre du printemps”, “Vollmond” e “Kontakthof”, il film contiene filmati di repertorio di Pina Bausch al lavoro, inseriti in modo innovativo nel mondo tridimensionale realizzato da Wenders, come terzo elemento, insieme a diversi brevi assoli dei danzatori della compagnia. Per ottenere l’effetto desiderato, Wenders ha fatto ricorso al metodo delle “domande e risposte” che la stessa Bausch usava per creare i suoi lavori: poneva delle domande ai danzatori, che rispondevano non a parole ma con danze improvvisate o con il linguaggio del corpo. Danzavano sentimenti intimi ed esperienze personali che la Bausch usava come punto di partenza per elaborare le sue coreografie, in lunghe sedute di prove. Seguendo questo metodo, Wenders ha invitato i danzatori a esprimere i loro ricordi di Pina Bausch in esibizioni solistiche, che ha poi filmato in luoghi diversi di Wuppertal e dintorni: nella campagna del Bergisches Land, in uno stabilimento industriale, a un incrocio e sotto la ferrovia sospesa di Wuppertal. Questi luoghi danno un volto a ognuno dei danzatori della compagnia, e costituiscono un eccitante elemento polifonico accanto alle coreografie di “Café Müller”, “Le Sacre du printemps”, “Vollmond” e “Kontakthof”.

 

“Come tanti altri miei colleghi, a volte non mi capacito che Pina Bausch non sia più qui”, racconta la costumista storica del Tanztheater Wuppertal, Marion Cito. “C’è ancora una grande tristezza, in tutti noi. Ci vorrà del tempo perché passi. Però sentiamo che Pina vive nei suoi lavori. Tutto quello che faccio, lo faccio per Pina. Questo aiuta. Sono molto felice che Wim abbia deciso di fare questo film, alla fine, perché è un progetto a cui Pina teneva molto”.

 

RIPARTIRE DA ZERO

Pina non è solo uno dei primi film europei in 3D, è anche il primo film d’autore in 3D. Il produttore Gian-Piero Ringel ha dovuto affrontare un’impresa tutt’altro che facile: “Con Pinasiamo entrati in un territorio vergine, inesplorato, sia dal punto di vista delle tecnologie che del genere artistico. E’ stato un problema perfino trovare i tecnici in grado di sviluppare e realizzare materialmente il progetto, perché erano pochi”. Oggi come oggi, attraverso l’uso del 3D si sta sviluppando un nuovo linguaggio cinematografico che rappresenta una sfida per qualsiasi produttore. “Molti altri registi esitano ancora a lavorare in 3D, perché non esistono modelli di successo. Noi volevamo essere dei pionieri in questo campo”.

 

Ma conquistare un nuovo territorio è faticoso: “Nessuno di noi sapeva come si realizza un film di danza in 3D: abbiamo dovuto prepararci, documentarci, imparare”, racconta il produttore del 3D Erwin M. Schmidt. Che prosegue: “Così, strada facendo, abbiamo acquisito gli strumenti tecnici per preparare e girare il film, e per curare la post-produzione”.

 

“Il 3D apre al Tanztheater prospettive completamente nuove”, ha dichiarato entusiasta  Dominique Mercy, uno dei due direttori artistici del Tanztheater Wuppertal, durante le riprese del film. “Lavorare a questo progetto con Wim Wenders e la sua troupe è un’esperienza meravigliosa. Un grande viaggio comune di esplorazione. Wenders continua a scoprire nuove chiavi espressive per il Tanztheater, e noi scopriamo un modo completamente nuovo di lavorare, insieme alla troupe. Sul set c’è un’atmosfera molto creativa”.

 

“Con la nuova tecnologia 3D, Wenders prosegue il lavoro del Tanztheater, che è sempre stato quello di oltrepassare i confini”, spiega Peter Pabst, scenografo del Tanztheater Wuppertal dal 1980 e scenografo del film. “Varcare il confine tra il palcoscenico e lo spettatore è una parte importante della coreografia. C’è un coinvolgimento costante tra il pubblico e i danzatori, che a volte scendono fisicamente dal palco. Questo coinvolgimento è stato sempre un elemento centrale nel lavoro di Pina: per essere completa, una coreografia deve coinvolgere la mente, gli occhi, il cuore e i sentimenti del pubblico”.

 

Con questo film, Wenders ha conquistato una nuova dimensione cinematografica. Ma ha anche dichiarato: “La terza dimensione ci è servita, è vero, ma abbiamo cercato di fare in modo che questa ‘conquista dello spazio’ passasse inosservata. La plasticità non deve attirare troppo l’attenzione, deve quasi scomparire per lasciare emergere l’arte di Pina”.

 

 

LE RIPRESE

Il film Pina è stato girato a Wuppertal in tre fasi: nell’autunno del 2009, e in primavera ed estate del 2010. Nella prima fase, “Café Müller”, “Le sacre du printemps” e “Vollmond” sono stati eseguiti dal vivo sul palco del Teatro dell’Opera di Wuppertal, in alcuni casi col pubblico, e registrati per intero. La complessa registrazione in 3D è stata resa ancora più impegnativa dalle difficoltà delle riprese dal vivo, perché la registrazione non poteva essere interrotta o ripetuta. Un procedimento che ha richiesto un grosso lavoro di preparazione e pianificazione.

 

Per la composizione della immagini in 3D Wenders ha arruolato uno dei massimi esperti e pionieri della stereografia 3D, Alain Derobe. Derobe ha messo a punto una speciale attrezzatura da ripresa montata su una gru. Per creare la profondità di un ambiente è molto importante seguire da vicino i danzatori. “Di solito, in un film di danza, piazziamo le cineprese davanti al palcoscenico”, spiega Derobe. “Per Pina, invece, le abbiamo messe in mezzo ai danzatori. La camera danza letteralmente con loro. Quindi, ogni membro della troupe doveva conoscere la coreografia, sapere esattamente come si sarebbero mossi i danzatori perché la cinepresa potesse seguirli senza intralciare”.

 

Derobe è stato affiancato da François Garnier, come supervisore, anche lui entusiasta all’idea di affrontare la sfida della danza in 3D. “Non possiamo interrompere il ballerino mentre danza, dobbiamo filmare sequenze più lunghe. Il problema è restargli sempre vicini con la cinepresa, anche quando si muove.” Nonostante le difficoltà, Garnier è sicuro del mezzo: “Poiché la danza è per sua stessa natura movimento nello spazio, la tecnologia 3D è il mezzo ideale per riprodurla. E’ in grado di offrire tutto lo spazio, tutta l’azione e tutto il movimento –  una sensazione fisica molto più efficace di qualsiasi altra riflessione intellettuale. Col 3D, il cinema fa un salto di livello”.

 

Nella seconda fase della lavorazione, la troupe ha ripreso un altro classico della prima Bausch, “Kontakthof”, stavolta senza il pubblico. Wenders lo ha filmato nei tre diversi cast voluti dalla coreografa: con la compagnia del Tantztheater Wuppertal, con uomini e donne fra i 65 e gli 80 anni e con adolescenti dai 14 anni in su. Per gli assoli, i danzatori della compagnia hanno abbandonato lo spazio scenico e si sono esibiti in luoghi pubblici, stabilimenti industriali, nelle campagne del Bergisches Land e sotto la ferrovia sospesa di Wuppertal.

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WIM WENDERS SU PINA BAUSCH (2)

 

 

PER PINA

«Pina vedeva col cuore, fino allo sfinimento, non si risparmiava.

E guardando, strizzava gli occhi, così pieni di affetto e di senso critico insieme.

Ma sempre amorevole, senza mai esporti.

Sostenendoti, senza giudicare.

“Bisogna essere crudeli per essere gentili”, dice un bel verso di una canzone di Elvis Costello.

La più grande delle arti, nell’interazione con gli altri, è tirare fuori il meglio da ognuno e renderlo visibile.

In questo, Pina era straordinaria.

Voi danzatori lo sapete meglio di me.

Siete stati per anni, molti di voi per decenni,

l’orchestra dello sguardo di Pina ? ognuno uno strumento unico.

Lei ha permesso a ognuno di voi, con amore ma anche con rigore, di non nascondere il meglio di sé, e rivelarlo.

E ha permesso a noi, il suo pubbico, di condividere il suo sguardo e aprire gli occhi, per vedere noi stessi e il linguaggio nascosto dentro di noi».

 

Dal discorso tenuto alla commemorazione di Pina Bausch il 4 settembre 2009 al Teatro dell’Opera di Wuppertal.

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IL TANZTHEATER WUPPERTAL PINA BAUSCH

 

Gli inizi sono stati difficili per Pina Bausch, quando ha assunto la direzione del Dipartimento Danza del Wuppertal Theater, per la stagione 1973/74: la forma di spettacolo che aveva sviluppato nel corso degli anni, una combinazione di danza e teatro, era troppo insolita. I suoi artisti non danzavano soltanto, parlavano, cantavano, a volte piangevano o ridevano anche. Ma questa sua svolta non-convenzionale alla fine ha prevalso. Da Wuppertal è partita una rivoluzione che ha emancipato e ridefinito la danza in tutto il mondo. Il Tanztheater si è affermato come un fenomeno artistico a sé, che ha influenzato sia il teatro che il balletto classico, oltre a tanti coreografi internazionali. Un successo che dipende dal fatto che Pina Bausch ha messo al centro del suo lavoro un bisogno universale: il bisogno di amore, di vicinanza, di sicurezza. Per questo, ha sviluppato una forma di lavoro aperta, in grado di incorporare le più diverse influenze culturali. Nelle sue escursioni poetiche ha indagato quello che più ci avvicina al nostro bisogno di amore e quello che ce ne allontana. Il suo è un teatro globale che non ha la pretesa di insegnare niente al suo pubblico, piuttosto vuole offrirgli esperienze: gioiose o malinconiche, gentili o conflittuali, a volte perfino buffe e stravaganti. Sono immagini vivide e toccanti di paesaggi interni che esplorano a fondo la condizione umana senza mai abbandonare la speranza che il bisogno di amore trovi soddisfazione. Speranza e realismo sono elementi centrali nel teatro-danza di Pina Bausch: ogni suo lavoro è legato a situazioni che gli spettatori conoscono o che potrebbero conoscere in prima persona. Le opere create da Pina Bausch nei suoi 36 anni a Wuppertal offrono un ritratto lucido e spietato della realtà, ma al tempo stesso incoraggiano ognuno di noi a perseguire i suoi sogni e i suoi desideri. E il Tanztheater Wuppertal porterà avanti il suo lavoro, in futuro, con lo stesso rigore di sempre. 

 

 

Da:  www.pina-bausch.de

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QUATTRO LAVORI DI PINA BAUSCH PER IL FILM 

 

LE SACRE DU PRINTEMPS (1975)

“Le sacre du printemps” è uno dei primi lavori di Pina Bausch, tra i più rappresentati e applauditi dopo “Iphigenie auf Tauris” e “Orpheus und Eurydike”. L’intero palcoscenico è ricoperto di pece fino all’altezza della caviglia di un piede nudo, così che tutti i movimenti dei danzatori lascino una traccia. A poco a poco, l’ambiente si modifica e diventa un’arena arcaica in cui uomini e donne si combattono fra loro. Una donna alla fine sarà sacrificata secondo un preciso rituale. La musica ritmica di Igor Stravinsky amplifica la violenza della dinamica del gruppo e a poco a poco spegne tutte le reazioni individuali. 

 

KONTAKTHOF (1978 / 2000 / 2008)

Per molti versi, “Kontakthof” potrebbe essere considerato la summa dell’opera di Pina Bausch. L’azione si svolge in un ambiente unico, una grande sala da ballo o teatro. La sala è completamente vuota: davanti, è aperta al pubblico, come in un peep-show, e sugli altri tre lati sono sistemate lunghe file di sedie. Uomini e donne siedono allineati contro le pareti. Lentamente si alzano per venirsi incontro. Alcuni si muovono circospetti, altri di slancio, con irruenza. A volte sulla pedana c’è una sola coppia, a volte tutti e trenta i ballerini dell’ensemble. Pina Bausch ha creato questo lavoro nel 1978. Lo ha ripreso anni dopo, nel 2000, ma stavolta con danzatori non-professionisti - per la precisione, anziani dai 65 anni in su. Questa scelta ha fatto (e fa ancora) scalpore, perché mette in discussione e modifica radicalmente la nostra percezione degli anziani, di cose come la bellezza, la grazia, la mortalità, la compassione, l’emozione e la passione. Otto anni dopo, nel 2008, la Bausch ha affidato l’esecuzione di “Kontakthof” ad adolescenti tra i 14 e i 18 anni. Gli stessi gesti e gli stessi movimenti assumevano ancora nuovi significati. Lo spettatore si trova di fronte a se stesso, alla sua vita - con le sue paure, i suoi sogni, le sue proiezioni. 

 

CAFÉ MÜLLER (1978)

“Café Müller” è un lavoro quasi minimalista, interpretato da sei danzatori/interpreti. La scena è uno spazio spoglio e grigio, ingombro solo di tavolini e sedie da bar. Gli interpreti si cercano, ma i loro movimenti sono lenti e impediti dagli oggetti che incontrano. Si muovono come sonnambuli, con gli occhi chiusi, restando estranei, ciechi gli uni agli altri. Solo un uomo ha gli occhi aperti e cerca di aiutare gli altri a trovarsi, aprendo freneticamente dei varchi in quella foresta di sedie. Sulla musica malinconica di Henri Purcell, “Café Müller” racconta un mondo onirico fatto di solitudine e desiderio.


 

VOLLMOND (2006)

“Vollmond” illustra perfettamente il genio artistico di Pina Bausch, valorizzato da una musica esuberante e dalle splendide scene di Peter Pabst, suo collaboratore storico. La scena è dominata da un grande masso e da un fossato che la taglia a metà, come un fiume. Dodici danzatori si muovono in questo scenario argenteo, alla ricerca febbrile dell’amore, esposti a pioggia e tempeste. Anche qui, al centro di tutte le relazioni c’è una lotta (o una guerra) tra i sessi. Una lotta che, come in tutti i nuovi lavori della Bausch, può condurre a situazioni che vanno dalla leggerezza comica al terrore. La coreografia inizia giocosa, per poi farsi sempre più scatenata e selvaggia fino allo sfinimento dei danzatori.

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PINA BAUSCH SUL SUO LAVORO

 

DOMANDE

“Le domande servono ad affrontare con grande attenzione un argomento. E’ un modo di lavorare molto aperto e insieme accurato. Io so sempre cosa sto cercando, ma lo so emotivamente, non con la testa. Non faccio mai domande dirette: sarebbe troppo brusco, e le risposte sarebbero banali. Metto da parte quello che sto cercando, almeno con le parole, ma devo riuscire con molta pazienza a rivelarlo, a farlo emergere. Quando trovo qualcosa, lo riconosco: è quello che sto cercando. Allora sono felice, ma non lo dico. I danzatori non sanno che cosa cerco o cosa trovo di speciale e prezioso. Fa parte dalla fiducia reciproca che deve esserci in questo lavoro. Tutti devono sentirsi liberi di proporre qualsiasi cosa, senza inibizioni. Se ti tieni dentro qualcosa, i tuoi pensieri cominciano a girarci intorno e non te ne sbarazzi più. Però, se la tiri fuori, possono affiorare anche altre cose…”

 

RICERCARE

“Ogni dettaglio è importante, perché anche il più piccolo cambiamento crea un effetto diverso. Tutto il materiale che troviamo durante le prove viene esaminato attentamente per capire se ‘tiene’ anche nelle condizioni più difficili. Non lascio passare niente che non mi convinca. Ogni dettaglio viene passa attraverso una serie di trasformazioni, finché non trova una sua collocazione. Ci vuole tempo, ogni volta, perché il processo si metta in moto. Basta trascurare una piccola cosa e il lavoro può prendere la direzione sbagliata, e diventare difficile da correggere. Ci vogliono precisione, onestà e molto coraggio. Noi mostriamo qualcosa di personale che però non è privato: un pezzetto di qualcosa che riguarda tutti. Per trovarlo ci vogliono una grande pazienza e la volontà di continuare a cercare”.

 

TROVARE QUALCOSA CHE NON HA BISOGNO DI DOMANDE

“Non ho mai voluto inventare uno stile personale o un nuovo tipo di teatro. La forma è emersa praticamente da sola: dalle domande che mi facevo. Nel mio lavoro ho sempre cercato qualcosa che non sapevo cosa fosse. E’ una ricerca continua, anche dolorosa – una lotta. Cercando, non puoi affidarti a niente, né alla tradizione né alla routine. Non hai appigli: sei da sola, di fronte alla vita e alle esperienze che fai, e devi provare tutto su di te per fare emergere, o anche solo intravedere, quello che hai sempre saputo. Devi trovare qualcosa che non ha bisogno di domande”. 

 

Da: “Trovare qualcosa che non ha bisogno di risposte”  di Pina Bausch. 2007 Kyoto Prize Workshop in Arts and Philosophy.

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IL NUOVO CINEMA IN 3D (1) 

INTERVISTA CON WIM WENDERS

 

Lei ha vissuto la peggiore esperienza che possa capitare girando un film: la morte del protagonista. La morte di Pina Bausch ha segnato anche la fine del progetto?

Pina non era solo la protagonista del film. Era la ragione stessa per fare il film. Eravamo nel pieno dei preparativi, pronti per la prima prova di riprese in 3D con la compagnia, a Wuppertal, quando è arrivata la notizia della sua morte improvvisa. Sì, certo, abbiamo immediatamente interrotto il lavoro. Ci sembrava inutile, ormai, fare il film. Erano vent’anni che Pina ed io inseguivamo questo sogno! Originariamente, l’idea di fare un film insieme era partita da me, a metà degli anni ottanta, ma alla fine era diventato un nostro tormentone. Pina mi chiedeva: “Che ne dici se lo facciamo ora, Wim?” E io rispondevo: “Non so ancora come, Pina!”. Non avevo idea di come si dovesse girare un film di danza – neanche dopo averne visti tanti. Il Tanztheater di Pina Bausch è così vitale, così pieno di libertà, di gioia, di energia, è così fisico che non sapevo proprio come avrei potuto filmarlo. Finché un giorno, nel 2007, mi sono trovato di fronte al nuovo 3D digitale. Da quella stessa sala cinematografica ho chiamato Pina e le ho detto: “Ora so come farlo, Pina”. Non c’è stato bisogno che dicessi altro. Lei ha capito.

 

E avete cominciato subito?

C’è voluto un po’ di più. In realtà, la tecnologia non era ancora pronta. Funzionava abbastanza bene per i film di animazione e di cassetta, ma per rendere i movimenti dal vivo in modo naturale dovevamo ancora aspettare. Così, abbiamo cominciato a progettare il film solo due anni fa, fissando le riprese per l’autunno del 2009, quando il progetto sarebbe stato tecnicamente possibile. E all’improvviso, Pina non c’era più. Ho subito staccato la spina e interrotto i preparativi. Dopotutto, il film era stato scritto con e per Pina. Volevamo guardare lei alle prove, seguire lei in tournée con la compagnia, e doveva essere lei a introdurci nel suo regno…

 

Qualche settimana dopo, però, è successo qualcosa: i danzatori stavano per cominciare le prove dei pezzi che io e Pina avevamo già deciso di inserire nel cartellone della stagione teatrale, per poterli filmare. E sono stati i danzatori a dire: “Nei prossimi mesi danzeremo tutti i lavori che tu e Pina volevate filmare. Non puoi lasciarci soli. Devi farlo, questo film! Ora più che mai”. E avevano assolutamente ragione. Su tutto, c’era ancora lo sguardo di Pina! Così, abbiamo ripreso in mano il progetto con l’obiettivo di essere pronti in ottobre per registrare almeno “Café Müller”, “Le Sacre du Printemps” e “Vollmond” in 3D. In quel momento non potevamo fare di più. Dopo tutto, l’idea originale andava completamente trasformata: quello che doveva essere un film a quattro mani, sarebbe diventato qualcosa di totalmente diverso. Solo nelle ultime due fasi della lavorazione, tra aprile e giugno del 2010, siamo riusciti a portare a termine il progetto.

 

Avevate già materiali filmati con Pina?

No, non abbiamo mai girato niente insieme. Lei è morta il 30 giugno: due giorni dopo dovevamo vederci a Wuppertal con i tecnici del 3D per le prime prove di registrazione con la compagnia, così Pina avrebbe potuto vedere le prime immagini. A lei non interessava vedere una qualsiasi cosa in 3D, voleva vedere i suoi danzatori. Per capire meglio – diceva. E non ho avuto neanche l’occasione di riprenderla direttamente in video. Mia moglie Donata le ha scattato alcune foto, e basta. Ma Pina c’è ugualmente, nel film. Oggi esiste anche la possibilità di inserire filmati di repertorio e immagini bidimensionali in un film in 3D.

 

Quanto è sviluppata la tecnologia 3D?

Durante i primi test, abbiamo scoperto che non era sviluppata come speravamo. Dopo la morte di Pina, mi sono sentito ancora più impegnato a fare un film in 3D all’altezza di quello le avevo promesso. Lo spettatore doveva avere la sensazione di trovarsi davanti al palcoscenico, o ancora meglio, sul palcoscenico.

 

Sembra più facile a dirsi che a farsi.

Le immagini dei primi test erano spaventose. Ci siamo rapidamente resi conto che gli errori del 2D si amplificano all’ennesima potenza, in 3D. Se, per esempio, fai una panoramica dei danzatori sulla scena, produci un’immagine spezzettata, una specie di effetto stroboscopico. Nel 2D, questo effetto si evita rallentando la panoramica: nel 3D sembrava inevitabile. Il movimento rapido di un braccio produceva l’impressione di stare guardando, per una frazione di secondo, più braccia vicine. Neanche il cinema tradizionale rende il movimento in modo fluido, solo che non ce ne accorgiamo perché ci siamo abituati. Nel 3D, invece, ogni errore visuale appare ingigantito…

 

Si poteva aumentare il frame rate, la frequenza fotogrammi…

Esatto. Bisognava girare 50 fotogrammi al secondo invece dei normali 24. Ci abbiamo provato, e il risultato è stato sensazionale, bellissimo. Purtroppo, però, è subito emerso un inconveniente: potevamo girare il film così, ma le sale non avrebbero potuto proiettarlo, perché lo standard internazionale per il 3D è 24. Abbiamo tentato di negoziare con l’American Film Institute, da cui dipende questo standard, ma poi ci siamo resi conto che era inutile: James Cameron aveva già cercato, senza successo, di convincerli che Avatar sarebbe venuto meglio girandolo a 50, 60 fotogrammi al secondo. Non glielo hanno permesso.

 

Ha imparato qualcosa da Avatar?

L’ho visto molte volte, e mi sono accorto che gli avatar animati al computer si muovevano in modo molto fluido e aggraziato – come volevo che si muovessero i nostri danzatori – ma i personaggi in carne e ossa erano inguardabili. Tutti gli errori che avevamo registrato nei nostri test, erano lì in bella mostra, sul grande schermo. Basta un movimento impercettibile, e immediatamente vediamo muoversi tre o quattro braccia o gambe. I movimenti non sono morbidi e rotondi. Non si nota molto perché il film consiste soprattutto di animazioni al computer e funziona bene, e il montaggio di Cameron è molto veloce. In poche parole, hanno avuto gli stessi nostri problemi, ma hanno potuto mascherarli meglio. Comunque, noi volevamo e dovevamo girare al cento per cento dal vivo, non potevamo contare sulle animazioni. I nostri danzatori dovevano muoversi in modo fluido ed elegante! Dovevamo trovare il modo di piegare la tecnologia ai nostri scopi, e restituire naturalezza ai movimenti.

 

Qual è la soluzione al problema?

Le camere digitali producono singoli fotogrammi molto nitidi. La riproduzione delle immagini è estremamente accurata, tanto che quella leggera sfocatura a cui ci ha abituato il cinema tradizionale scompare del tutto. Abbiamo evitato cambi di obiettivo e sostanzialmente girato tutto il film con due lunghezze focali, ma entrambe molto ampie in modo da riprodurre il nostro campo visivo. Nel complesso, abbiamo cercato di seguire il più possibile la fisiologia dell’occhio umano. Il 3D si sta evolvendo in fretta. Nell’ottobre del 2009, giravamo ancora con una immensa gru che sembrava un dinosauro: piazzata in mezzo al teatro, riempiva metà dell’auditorium. Una tecno-gru che arrivava fin sopra al palco, ed era in grado di reggere il peso delle cineprese e dello specchio…

 

...due cineprese piazzate vicine come due occhi, per imitare l’effetto della visione spaziale…

In teoria, sì. La tecnologia non è ancora abbastanza sviluppata da consentire di girare con una sola cinepresa con due obiettivi, quindi ce ne vogliono due. Ma non possono stare vicine, perché la loro mole e soprattutto gli enormi obiettivi non consentono di riprodurre la distanza media tra i due occhi, che è di sei centimetri. Bisogna metterle una sopra l’altra, collegate da uno specchio semi-trasparente, che però assorbe parecchia luce. E’ un apparato imponente, operato da diversi motori.

 

L’esatto opposto della leggerezza della danza…

Un mostro telecomandato, che richiedeva cinque persone per essere manovrato. Eppure, riuscivamo a muoverlo abbastanza disinvoltamente. Ma solo cinque mesi dopo, durante la seconda fase della lavorazione, in aprile, abbiamo girato quasi esclusivamente con un prototipo di steadycam. La cinepresa deve muovesi in 3D, questo è essenziale. Se resta statica, una grossa parte dell’effetto spaziale si perde. Non c’è bisogno di fare grandi movimenti avanti e indietro. Bastano lente carrellate per ottenere splendidi risultati.

 

Per la terza volta si trova a sperimentare nuove tecnologie. L’aveva già fatto con Hammett: indagine a Chinatown, negli studi elettronici di Coppola, e poi con Buena Vista Social Club, il suo primo film digitale ad alta risoluzione. Con questo suo nuovo film ha compiuto il salto tecnologico più radicale?

Altro che! Buena Vista Social Club è stato il primo documentario digitale ad arrivare nei cinema, ma per me non ha rappresentato una svolta radicale, né da un punto di vista estetico né dal punto di vista del metodo di lavoro. Semplicemente, quel film non sarebbe stato possibile su pellicola. Le macchine da presa da 16 o 35 millimetri sono ancora così rumorose che non consentono di registrare musica acustica. Le cineprese digitali, poi, ci permettevano di girare tutto il giorno senza interruzioni. La tecnologia ci ha messo le ali, ma fondamentalmente il modo di lavorare era lo stesso.

 

E’ per questo che lavorare col 3D è uno straordinario balzo in avanti.

Il 3D mi ha entusiasmato fin dal primo fotogramma che abbiamo prodotto. Forse, potremmo dire che questa tecnica è partita col piede sbagliato. Al momento, conosciamo solo film di animazione o con immagini generate al computer, in 3D. Film girati di fronte a paesaggi reali quasi non esistono, ancora. Ma io credo che il futuro di questa tecnologia non sarà circoscritto all’uso attuale che se ne fa nei film fantasy. E’ stato così anche col digitale: all’inizio era molto costoso e veniva usato in pubblicità o per gli effetti speciali di film americani ad alto costo. All’epoca, nessuno immaginava che il cinema digitale avrebbe finito per salvare e reinventare il documentario. Io credo che succederà la stessa cosa con il 3D. Non appena entreranno in commercio cineprese più piccole e leggere – ed è solo questione di tempo – il 3D consentirà un approccio totalmente nuovo anche al cinema realista.

 

Domande e risposte da un dibattito con Wim Wenders che si è tenuto il 29 giugno 2010 al Media Forum Film - International Film Conference NRW, intitolato “Tecnologia contro contenuto”. Moderatore: Hanns-Georg Rodek.

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IL NUOVO CINEMA IN 3D (2)

PARLA IL PRODUTTORE DEL 3D, ERWIN M. SCHMIDT

 

Nuove possibilità con la tecnologia digitale 3D

La tecnologia digitale permette il controllo totale dell’immagine nell’intero processo produttivo del film: dalle riprese alla post-produzione, alla proiezione nelle sale. Per questo motivo ha favorito il recente boom del 3D, risolvendo i problemi del 3D analogico che hanno funestato le precedenti ondate negli anni cinquanta e ottanta. Le camere digitali sono sincronizzate e, come proiettori, offrono un’immagine assolutamente stabile: due elementi fondamentali per la resa del 3D. Quando abbiamo cominciato a preparare il film, la disponibilità di attrezzature sofisticate e tecnici specializzati era ancora limitata. Per fortuna, abbiamo incontrato l’esperto stereografo Alain Derobe, che non solo ci ha messo a disposizione le montature che aveva sviluppato per lo specchio, ma ha dato anche un contributo prezioso alla produzione con il suo entusiasmo e le sue competenze.

 

La preparazione alle riprese in 3D

Per prepararci abbiamo condotto una serie di elaborati test. Nell’estate del 2009, due mesi prima dell’inizio delle riprese, abbiamo fatto una prova a Wuppertal, con la troupe cinematografica e i danzatori del Tanztheater, utilizzando le stessa attrezzatura che avremmo usato per le riprese effettive. Lo scopo era simulare il processo di ripresa e testare l’affidabilità dei sistemi tecnici. Poi, questi test di ripresa sono stati post-prodotti e proiettati in una sala cinematografica. Abbiamo continuato a fare prove su prove estenuanti finché non ci siamo sentiti padroni del mezzo. Gli impegni del Tanztheater lasciavano pochi giorni utili per le riprese, e non potevamo permetterci errori e rifacimenti.

 

Le riprese dal vivo in 3D: un sistema complesso

Wim Wenders e il supervisore al 3D François Garnier hanno sviluppato un sistema sofisticato per controllare la gru telescopica montata in mezzo al pubblico. A questo scopo, hanno diviso il pavimento dello spazio teatrale in una scacchiera virtuale usando un goniometro che riproduceva esattamente l’angolo visivo dell’obiettivo. Facendo ricorso a videoregistrazioni di precedenti spettacoli, Wenders e Garnier hanno potuto redigere un piano di ripresa dettagliato, annotando precisamente in che punto del quadrante dovesse essere posizionata la camera in ogni singolo momento dell’esecuzione. Durante le prove e le riprese, il regista comunicava via radio le istruzioni agli altri membri della troupe.


La tecnologia 3D usata

Per girare in 3D ci vogliono due cineprese montate una accanto all’altra su un cosiddetto mirror-rig (*apparecchio dotato di specchio e predisposto per l'installazione ortogonale delle due cineprese - NdT). Qui, le camere sono posizionate a un angolo di 90 gradi. In mezzo a loro viene installato uno specchio unidirezionale, a 45 gradi rispetto alle due linee di ripresa. Una camera filma attraverso lo specchio, l’altra filma il riflesso. I vari apparecchi usati sul set del film erano tutti prototipi, ottimizzati da Akain Derobe per le nostre riprese.

I due sistemi a doppia camera che abbiamo usato sono entrambi prodotti dalla Sony: grandi cineprese da studio (HDC-1500) da montare sulla gru telescopica, e unità mobili più piccole (HDC-P1) per la steadycam. Il 3D limita la scelta della lunghezza focale: i grandangoli producono una distorsione dell’immagine, mentre i teleobiettivi creano un effetto silhouette. Dopo una serie di prove accurate, abbiamo deciso di usare tre obiettivi: DigiPrimes con focale da 10mm, 14mm e 20mm. Siccome il cambio di obiettivi nelle apparecchiature 3D è un’operazione lunga e laboriosa, bisognava scegliere la focale prima di cominciare a girare la scena.

 

Sul set abbiamo usato uno speciale monitor Transvideo 3D per calibrare le attrezzature e controllare l’effetto tridimensionale. Il monitor traduce il girato di entrambe le camere, destra e sinistra, in immagini anaglife sovrapposte, visualizzando l’offset di pixel tra le due. Insieme all’esperienza e alla creatività della squadra stereografica, questo monitor è stato il nostro strumento di lavoro più importante.

 

Le difficoltà della registrazione dal vivo e delle riprese 3D in esterni.

Abbiamo registrato i quattro lavori della Bausch dal vivo, durante spettacoli che registravano il tutto esaurito in sala. Di conseguenza, non potevamo interferire con i danzatori o disturbarli, durante l’esecuzione. Però, volevamo che il 3D fosse il più vicino possibile a loro. L’uso di una lunga gru telescopica ci ha dato questa possibilità. Certo, all’inizio i danzatori erano preoccupati di dover danzare con un occhio gigante che li seguiva in scena, ma si sono abituati presto. Così, siamo riusciti a cogliere immagini incredibilmente vicine e dinamiche, dando allo spettatore la sensazione di essere sul palco con i danzatori.

 

Il 3D ama la profondità: per questo gli assoli dei danzatori in esterni sono un complemento perfetto ai brani danzati in teatro. Queste scene spettacolari sono state girate in esterni in luoghi particolarmente suggestivi di Wuppertal e dintorni: strade, foreste, pendii montani, paesaggi industriali e infine sotto la monorotaia sospesa di Wuppertal.

 

 

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PINA BAUSCH

DANZATRICE, COREOGRAFA

 

Philippine Bausch, detta Pina, nasce nel 1940 a Solingen, una vittadina vicina a Wuppertal, dove ancora oggi ha sede il suo Tanztheater che l’ha resa famosa in tutto il mondo. A Solingen i suoi genitori gestiscono un ristorante in un albergo, dove Pina dà una mano insieme ai fratelli. Lì, impara a osservare la gente, ma soprattutto quello che muove la gente, nel profondo. Nei suoi lavori più maturi riaffiorano frammenti di questo primo ambiente: la musica in sottofondo, i clienti che vanno e vengono, la loro fame di felicità. Ma anche l’esperienza della guerra, come improvvisa esplosione di panico, di paura di una oscura minaccia.

 

Dopo le prime lezioni di danza classica a Solingen, a 14 anni Pina entra alla Folkwang Hochschule di Essen, diretta da Kurt Jooss. Prima e dopo la seconda guerra mondiale, Jooss è stato un autorevole rappresentante del movimento della danza moderna tedesca, che si era liberata dalle pastoie del balletto classico. Come insegnante, però, Jooss riconciliava lo spirito libero dei rivoluzionari della danza con i principi del balletto. E’ così che la giovane allieva di danza impara la libertà creativa e insieme l’importanza della tecnica. Ma decisiva è anche la vicinanza ad altre forme d’arte che vengono insegnate alla Folkwang Hochschule: opera, musica, teatro, scultura, pittura, fotografia, design e molto altro. Questo approccio estremamente aperto e multidisciplinare influenzerà in modo determinante il suo metodo di lavoro.

 

Nel 1958 viene premiata col Folkwang-Price e una borsa di studio della Deutscher Akademischer Austauschdienst (l'organizzazione tedesca per i programmi di scambio accademico) e parte per un anno per andare a studiare alla prestigiosa Juilliard School di New York. La città è una mecca della danza, dove il balletto classico viene reinventato da coreografi come George Balanchine. Tra gli insegnanti di Pina Bausch ricordiamo Antony Tudor, José Limón e i danzatori della Martha Graham Dance Company, Alfredo Corvino e Margaret Craske. Come ballerina, lavora con Paul Taylor, Paul Sanasardo e Donya Feuer. Ogni volta che è possibile visita mostre, assorbe le nuove tendenze. Elettrizzata dalla varietà della vita artistica newyorkese, prolunga la sua permanenza di un altro anno: ma stavolta deve mantenersi da sola. Antony Tudor la scrittura al Metropolitan Opera Ballet. La vicinanza dell’opera e il rispetto per la tradizione musicale influenzeranno il suo lavoro futuro, come pure l’amore per il jazz. La rigida distinzione tra musica cosiddetta “seria” e musica “di intrattenimento” non avrà mai alcun valore, per lei. Tutta la musica che evoca sentimenti profondi ha lo stesso valore.

 

Due anni dopo, Kurt Jooss le chiede di tornare a Essen: è riuscito a rimettere in piedi il Folkwang Dance Studio. Pina Bausch danza balletti nuovi e vecchi di Jooss, e diventa sua assistente. In mancanza di materiale sufficiente per la nuova compagnia, comincia anche lei a creare coreografie, come “Fragment” e “Im Wind der Zeit”, per cui riceve il primo premio al Concorso di composizione coreografica di Colonia, nel 1969. Come coreografa ospite, crea i suoi primi lavori per Wuppertal, che vengono interpretati dai membri del Folkwang Dance Studio: “Aktionen für Tänzer” nel 1971, e “Tannhäuser-Bacchanal” nel 1972. Per la stagione 1973/74, il sovrintendente Arno Wüstenhöfer la chiama a dirigere il Balletto di Wuppertal, che ben presto la Bausch rinomina Tanztheater, teatro-danza. Il termine, coniato negli anni 20 da Rudolf von Laban, è un manifesto: segnala il distacco dalla danza tradizionale e la totale libertà di scelta dei mezzi espressivi.

 

In rapida successione, Pina sviluppa nuovi generi. Con le due opere di Gluck “Iphigenie auf Tauris” (1974) e “Orpheus und Eurydike (1975) crea le prime due “opere danzate”; con “Ich bring dich um die Ecke” (1974) entra nel mondo triviale della musica pop; “in “Komm tanz mit mir” e “Renate wandert aus” (entrambi del 1977) gioca con i cliché dell’operetta. La sua coreografia di “Le sacre du printemps” di Igor Stravinsky (1975), con la sua immediatezza fisica e il suo impatto emotivo, diventerà la sua pietra miliare, la quintessenza del suo lavoro. Da Kurt Jooss ha imparato le virtù “dell’onestà e l’accuratezza”, e sa sfruttarle entrambe per ricavarne una tensione drammatica fino ad allora sconosciuta. Nei suoi primi anni a Wuppertal, la Bausch sconvolge il pubblico e la critica: il confronto con i veri motivi che stanno dietro al movimento è doloroso. In “Blaubart” (1977) alcuni passaggi musicali sono ripetuti all’infinito, e la tristezza e la solitudine evocati possono essere lancinanti. Ma fin dall’inizio, oltre al talento drammatico Pina Bausch rivela anche una vena umoristica, come in “Die sieben Todsünden” (I sette peccati capitali) di Brecht-Weill (1976), dove gli uomini danzano vestiti da donna mentre la coreografa si diverte a giocare con gli stereotipi.

 

Nel 1978, Pina Bausch cambia modo di lavorare. Invitata a Bochum dal regista Peter Zadek per creare una sua versione del “Macbeth” shakespeariano, per la prima volta si ritrova isolata: buona parte della sua compagnia non vuole più continuare il lavoro con lei, perché c’è troppo poca danza convenzionale. La Bausch è costretta ad allestire la produzione con quattro ballerini soltanto, cinque attori e un cantante. Ma con un cast misto come questo, non tutti gli interpreti sono in grado di seguire i passi di una coreografia. Così, Pina comincia a porre a ognuno di loro delle domande sul tema del brano. Quando il risultato di questa ricerca collettiva va in scena a Bochum il 22 aprile 1978, col lunghissimo titolo di “Er nimmt sie an der hand und führt sie in das schloss, die anderen folgen…” (Lui la prende per mano e la porta al castello, gli altri seguono…), è accolto da un coro di proteste. Ma Pina Bausch ha finalmente trovato la sua forma espressiva: le immagini poetiche e oniriche di quel suo linguaggio dei movimenti la porteranno rapidamente al successo internazionale.

 

Esplorando le emozioni umane di base – sogni e desideri, ma anche paure e bisogni – il Tanztheater Wuppertal si fa capire in tutto il mondo e innesca una vera e propria rivoluzione nella danza internazionale. Il segreto del suo successo, forse, è che mette gli spettatori di fronte alla realtà, e al tempo stesso li incoraggia all’ottimismo. Ma ognuno di loro è chiamato ad assumersi la responsabilità della sua vita: i danzatori di Pina Bausch non dispensano rimedi. Tutto quello che possono fare è indagare in modo onesto e accurato cosa ci avvicina alla felicità e cosa ce ne allontana. Eppure, ogni volta mandano a casa il pubblico con la certezza che alla vita – con i suoi alti e bassi – si può sopravvivere.

 

Nel gennaio 1980 muore il compagno di Pina Bausch, Rolf Borzik, che con le sue scene e i suoi costumi ha costruito lo stile visuale del Tanztheater. A lui, subentrano Peter Pabst (scene) e Marion Cito (costumi). Gli spazi scenici sono poetici, spesso il palcoscenico si apre in un paesaggio, portando l’esterno all’interno. Sono spazi fisici che modificano i movimenti: acqua e pioggia fanno risplendere i corpi attraverso gli abiti; il suolo rende ogni passo una fatica immane; le foglie disegnano il passaggio dei ballerini. Le scene vanno dalla stanza d’epoca al nudo pavimento in legno del minimalismo giapponese; i costumi, dall’abito da sera elegante al buffo travestimento di un bambino. Come la coreografia, scene e costumi riflettono la vita di tutti i giorni e non solo, ma sempre in funzione di un’autentica e naturale bellezza. Col passare degli anni è più facile accorgersi che anche il brutto ha una sua bellezza – una cosa che da bambini ci sfugge. Finalmente, un po’ alla volta, cominciamo a dare una fisionomia al Tanztheater: non è una provocazione, ma – come lo ha definito la stessa Bausch – “uno spazio in cui è possibile incontrarsi”.

 

Il successo internazionale del Tanztheater ha prodotto molte coproduzioni: “Viktor”, “Palermo Palermo” e “O Dido”, collaborazioni con l’Italia; “Tanzabend II” a Madrid; “Ein Trauerspiel” a Vienna; “Nur Du” a Los Angeles; “Der Fensterputzer” a Hong Kong; “Masurca Fogo” a Lisbona; “Wiesenland” a Budapest; “Água” in Brasile; “Nefés” a Istanbul; “Ten Chi” a Tokyo; ” Rough Cut” a Seul; “Bamboo Blues “ in India; e infine un nuovo lavoro del 2009, una coproduzione col Cile, a cui Pina Bausch non potrà più dare un titolo. Inizialmente molto discussa, quest’opera ha finito per diventare una sorta di teatro globale, dove c’è spazio per tutti i colori delle diverse culture e ognuna viene trattata con lo stesso rispetto. E’ un teatro che non vuole insegnare, ma piuttosto creare un’esperienza di vita fondamentale che lo spettatore è invitato a dividere con i danzatori. E’ un teatro generoso, rilassato nella sua percezione del mondo e molto benevolo col suo pubblico. Aiuta a fare pace con la vita, forte del proprio coraggio e della propria forza espressiva. Come mediatore tra culture, è un ambasciatore di pace e di comprensione reciproca. E’ un teatro che si mantiene libero da dogmi e ideologie, che cerca di guardare il mondo senza pregiudizi e registra la realtà della vita, in tutte le sue sfaccettature. Dalle scoperte di questo viaggio, che ogni volta riparte da zero, emerge un mondo di grande complessità, pieno di svolte impreviste e sorprendenti. Il Tanztheater Wuppertal segue un solo principio: la gente. E quindi è portatore di un umanesimo che non conosce confini.

 

Per il suo lavoro, Pina Bausch ha ricevuto molti premi e riconoscimenti. Tra cui il Bessie Award a New York (1984), il Premio tedesco per la danza (1995), il Theatertreffen di Berlino (Premio per il teatro,1997), il Praemium Imperiale in Giappone (1999), il Prix Nijinskijnsky a Monte Carlo, la Maschera d’oro a Mosca (2005), il Premio Goethe a Francoforte sul Meno (2008). Nel giugno 2007 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia, e a novembre dello stesso anno ha vinto il prestigioso Premio Kyoto. Il governo tedesco le ha tributato la Grande croce al merito (1997), quello francese l’ha nominata Cavaliere dell’Ordine delle Arti e delle Lettere (1991) e l’ha ammessa alla Legione d’onore (2003). Molte università le hanno conferito una laurea ad honorem.

 

Pina Bausch si è spenta il 20 giugno del 2009. E’ considerata una delle più grandi coreografe del XX secolo.

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