1 giugno 1970: non esistevano ancora i black bloc chiamati a rovinare ogni tipo di manifestazione di dissenso. Le proteste contro la politica e il sistema si manifestavano in modi che oggi appaiono utopici: riunioni universitarie e musica. Tanta musica. Tanto che il giovane Pino Masi, cantautore di sinistra, si crede in pericolo a causa di un imminente golpe e fugge via, alla ricerca di libertà con altri due sciagurati, Renzo Lulli e Fabio Gismondi. Il viaggio da Pisa al confine con la Jugoslavia (e poi verso l'Austria) diventa man mano sempre più tragicomico tanto da entrare nella leggenda. E il bello è che tutto ciò non è solo un film ma una storia realmente accaduta che Roan Johnson ha scelto di portare sullo schermo con I primi della lista, presentato oggi al Festival di Roma alle 23 in Sala Petrassi tra gli Eventi Speciali, prima di approdare in sala il prossimo 11 novembre. Nei panni di Masi, c'è un irriconoscibile Claudio Santamaria, affiancato dagli esordienti Francesco Turbanti (il Lulli) e Paolo Cioni (il Gismondi).
Questa è una storia vera, successa il 1 giugno 1970. Dopo le manifestazioni degli studenti e gli scioperi, l’Italia è a un bivio: da un lato ci sono ancora l’ingenuità e i sogni sinceri della stagione del ’68, dall’altra sta iniziando una lotta interna sempre più cruenta.
A Pisa, nell’ambiente del movimento studentesco, arriva la notizia che sta per scattare un colpo di stato come quello dei colonnelli in Grecia del ‘67. “Dormite fuori casa per tre, quattro notti. Se fanno il putsch vi vengono a prendere a casa uno per uno.” È questo l’ordine per tutti i ragazzi più esposti. Tra loro c’è anche Pino Masi, un cantautore che ha fondato da poco il Canzoniere Pisano e fa concerti davanti a migliaia di ragazzi. Ha scritto le canzoni di lotta più famose, dalla “Ballata del Pinelli” all’inno di Lotta Continua. Ma è anche una persona con un’infanzia difficile, istintivamente diffidente, e quella notizia lo agita molto.
Quel giorno nella sua soffitta ci sono due liceali: Renzo Lulli e Fabio Gismondi. Hanno appena vent’anni e sognano di suonare con Pino Masi che per loro è un mito, un leader indiscusso.
Quando li prende da parte e spiega loro che devono andare fuori città per evitare pericoli, accettano. “Prendiamo la macchina del Lulli e si va verso il confine. Se il golpe non c’è, s’è fatta una gita.” Se invece accade il peggio, andranno in esilio e da lì diventeranno degli Inti Illimani ante litteram: gireranno il mondo con le loro canzoni per fare luce sulle ingiustizie in Italia.
Dopo aver trovato delle scuse con i genitori e bruciato le agende personali per non lasciare traccia, i tre si mettono in marcia verso il confine jugoslavo. Nella notte si fermano a fare benzina e, mentre prendono un caffè per rimanere svegli, vedono il bar riempirsi di soldati che scherzano fra di loro, con le mitragliette a tracolla: stanno andando verso Roma, all’alba saranno lì. I nostri tre non pensano che il giorno dopo è il 2 giugno e ci sarà la parata militare a Roma per la Festa della Repubblica. Pensano che il colpo di stato ormai è cosa certa.
La A112 adesso corre verso il confine e la salvezza, mentre i tre hanno nel cuore la malinconia per quello che si stanno lasciando alle spalle e l’eccitazione per quello che li aspetta. Arrivati davanti al confine jugoslavo, si trovano di fronte la cortina di ferro: buio, fili spinati, perquisizioni alle macchine davanti. I tre decidono di ripiegare in Austria.
Una volta lì, il poliziotto guarda perplesso il patentino del Gismondi e la denuncia di smarrimento del Masi. Va alla radio per capire se si può fare un permesso giornaliero. Mentre quello parla i nostri si convincono che li abbiano beccati, che abbiano capito che sono del movimento, che il doganiere stia chiedendo istruzioni da Roma, e così si lanciano con la macchina verso l’Austria e la salvezza.
Il Masi e il Gismondi vengono arrestati dai poliziotti austriaci insieme ai carabinieri che li hanno seguiti armi in pugno oltre il confine. L’unico che riesce a scappare è Renzo Lulli. Proprio lui, il ragazzo di buona famiglia, con i capelli pettinati e la camicia pulita. Mentre corre verso la libertà, ricercato dalle polizie di due paesi e senza una casa dove tornare, si sente un eroe, un vero ribelle in fuga. Lo ritrova il Masi su una jeep degli austriaci: “tranquillo, ci danno l’asilo politico!”.
Li portano tutti e tre in un carcere e qui iniziano ad affiorare i dubbi: perché ci hanno messo in cella e ci guardano perplessi quando parliamo di golpe? All’interrogatorio con l’Interpol tutto si fa chiaro: non c’è stato nessun colpo di stato, hanno fatto una cazzata. Una posizione giudiziaria non facile, i genitori incavolati, tutti a Pisa pronti a prenderli per il culo per anni. La loro strana amicizia viene messa alla prova.
Quando li liberano, i tre si tolgono la soddisfazione di fare il loro primo e ultimo concerto davanti alle inferriate dell’istituto. Per un attimo sembrano guardare nel futuro: la loro storia personale e quella d’Italia non sarà facile, ma forse, adesso, sono pronti per affrontarla.
Mi sono innamorato di questa storia la prima volta che l’ho sentita. Dalle mie parti, a Pisa, è una sorta di leggenda che viene raccontata fin da quel 2 giugno 1970 quando uscirono gli articoli sulla Stampa e il Corriere della Sera con il titolo Stupore a Pisa: tre ragazzi chiedono asilo politico all’Austria.
È un film che parla di un tempo che adesso sembra epico e lontanissimo. Anche se in Italia il clima politico è stato più caldo e cruento che in altri paesi europei, nel 1970 c’erano ancora gli ultimi sprazzi di un’ingenuità, di una purezza tipica del periodo prima della strage di Piazza Fontana. Si stava in bilico fra la paura di una guerra civile e l’ingenuità degli anni sessanta. C’era ancora lo spazio per un orizzonte mitico e avventuroso e questa storia spero renda onore all’entusiasmo di essere giovani e al talento che hanno tutti a venti anni, ieri come oggi, di fare delle meravigliose cavolate. In fondo, chi non ha mai pensato di scappare di casa? Chi non ha vissuto un giorno folle da cui è uscito cambiato e maturato per sempre?
Nonostante il film sia un piccolo film con un piccolo budget ho avuto la fortuna di lavorare con la Palomar che fin dall’inizio ha spinto perché io creassi un gruppo di giovani, un cast artistico e tecnico di persone affini a me. Non a caso alla fine delle riprese eravamo affiatati e uniti come un gruppo di amici che si conosceva da anni.
Anche con gli attori ho avuto la massima libertà. Il mio unico metro è stato: quale attore è giusto per questo ruolo? Quale attore mi convince, con quale attore riesco a lavorare bene? Due dei tre protagonisti sono degli esordienti e sono orgoglioso di averli portati per la prima volta sullo schermo. Sono sicuro che faranno altri film dopo questo, e quando ho rivisto le scene per decine di volte nella sala di montaggio, ho continuato a dire: grazie al cielo ho scelto gli interpreti giusti. Se c’è una cosa di cui vado fiero è la scelta degli attori e la loro recitazione.
Abbiamo fatto giorni e giorni di prove per affinare i dialoghi, prendere confidenza con i personaggi, fare in modo che al momento di girare tutto fosse spontaneo, scorrevole, vero.
E devo ringraziare Claudio Santamaria più di tutti perché si è messo al servizio completo del film,
ha aiutato me e gli altri due attori più giovani in ogni momento e in ogni modo possibile. Lui era il più esperto ma non ce l’ha fatto pesare neanche per un minuto. Si è messo al nostro livello e per me è stata un’iniezione di fiducia senza prezzo.
Anche la scelta delle musiche non è andata in una direzione scontata. Mentre in scena gli attori cantano due canzoni di lotta, la colonna sonora non è una riedizione della musica anni sessanta e settanta. Con gli autori della colonna sonora Ratchev e Carratello abbiamo provato a fare un lavoro di ricerca che ci portasse a trovare un equilibrio tra fiati e marce militari che avesse dentro le due nature del film: la paura del colpo di stato militare e la comicità a tratti grottesca della storia.
L’ultima canzone cantata dai tre “Quello che non ho” di De André è stata scelta per raccontare cosa è avvenuto dopo la fine del film. La canzone infatti è del 1981 e incarna perfettamente la fine di un epoca, l’orgoglio e la purezza di una generazione (quella dei nostri tre protagonisti) che è stata sconfitta.
Abbiamo provato anche a fare una scelta sui costumi e sulla scenografia in modo che fossero semplici, verosimili ma non il frutto di una ricostruzione storica pedante. Volevamo che l’impatto rendesse attuali quegli anni rivisitandoli, filtrandoli con gli occhi di adesso.
Il paesaggio sgombro di macchine e di persone richiama ad una sorta di visione di un paese sull’orlo del precipizio, un’Italia surreale, pronta al suo ultimo giorno, perché è così che la percepiscono i nostri tre protagonisti.
L’ambiguità del tono e della storia (una commedia che nasce però da un senso di rischio e di paura) era un equilibrio delicato da tenere. I personaggi sono infatti minacciati dalla storia con la S maiuscola, una storia di un “se”, di un bivio spazio?temporale in quegli anni probabile e possibile.
Mentre i nostri si convincono del loro amaro destino e di quello del loro paese, dovevamo mantenere anche il filo dell’ironia.
Il film è sicuramente una commedia, ma è una commedia particolare. Ha come riferimento la nostra grande tradizione della commedia all’italiana, con delle componenti di novità nei suoi echi picareschi, a tratti surreali, e uno sguardo incantato più che disincantato.
Questo è un film piccolo che parla di una storia piccola, divertente e svagata ma, a guardarla meglio, nasconde nel suo cuore alcuni temi importanti di quegli anni pieni di speranze e paure, e nasconde nella sua leggerezza i semi dell’Italia del 2011 e alcuni temi personali che ci accomunano tutti: la fuga, l’amicizia, l’avventura, il fare i conti con le proprie illusioni e paure, il diventare adulti. Per me è una storia meravigliosa. Ho fatto di tutto per farne il miglior film che potevo. E sono orgoglioso che sia questo il mio primo lungometraggio.
Roan Johnson
IL MASI, IL LULLI, IL GISMONDI. QUELLI VERI
PINO MASI
Noto per il suo impegno politico, Pino Masi ha firmato alcuni dei canti di lotta più famosi del movimento del '68 e degli anni successivi.
Cresciuto politicamente a Pisa (Potere Operaio), ventenne è tra i fondatori nel ’66 del “Canzoniere Pisano” e prosegue poi la ricerca e lo studio della cultura popolare con il “Nuovo Canzoniere Italiano” cantando con la Marini, Della Mea ed altri fino al '70.
Chiamato da Gianni Bosio a far parte del Nuovo Canzoniere Italiano (Edizione I dischi del sole), nello stesso periodo con Bosio e altri studiosi vicini all'Istituto Ernesto De Martino (Michele Straniero, Goffredo Fofi, Dario Fo, Pier Paolo Pasolini) lavora alla ricerca della veridicità della storia ufficiale scritta, attraverso il suo confronto con la storia orale delle classi subalterne, e canta alle feste popolari con Rosa Balistreri, Giovanna Marini, Ivan Della Mea.
Dal '70 in poi, per i Circoli Ottobre di cui fu anche dirigente, Masi compone e pubblica alcuni dei canti di lotta più famosi di quegli anni, canti che entrano a far parte del patrimonio culturale della nuova sinistra uscita dalle lotte del ‘68, e che verranno incisi in numerosi dischi per le Edizioni Lotta continua; tra le più famose “La ballata del Pinelli”.
Già suo assistente alla regia dal 1971, Masi lavora fino al 1973 con Pier Paolo Pasolini alla colonna sonora ed al montaggio del film 12 dicembre sui fatti legati alla Strage di Piazza Fontana.
Nel '75 organizza a Pisa uno storico evento: il primo concerto pubblico ufficiale di Fabrizio De André.
Collabora di nuovo con Dario Fo nel 1977 per la registrazione alla Palazzina Liberty del "Ci ragiono e canto - cento anni di storia italiana nelle canzoni del popolo", per Rai 2.
Nel 1978 pubblica con successo, per la Cramps di Gianni Sassi e gli Area di Demetrio Stratos, "Alla Ricerca della Madre Mediterranea" e dedica gli anni successivi in Sicilia alla ricerca etnica e alla pittura prima di fare rientro a Pisa nel 1989.
Pino Masi è a tutt’oggi un cantastorie, cantando all'antica maniera per piazze e osterie due o tre volte la settimana.
RENZO LULLI
Vive in Marocco, ad Essaouira, dove gestisce un bed & breakfast, e realizza sculture di legno.
FABIO GISMONDI
Dopo la fuga in Austria, andò via da Pisa. Ha vissuto in Danimarca, Australia e Sardegna.
Oggi vende antiquariato esotico nei mercatini in giro per l'Italia.
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