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Roma 2011, Giorno 2: tra Tintin e vibratori, Il Mio Domani di Marina Spada in Concorso
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Dopo aver scaldato i motori con la proiezione fuori concorso di The Lady, il Festival di Roma entra nel vivo con il Concorso presentando ben tre film, di cui uno italiano, in competizione per il Marc'Aurelio d'oro.

 

In quella che rischia di passare come la giornata di Tintin, evento speciale in anteprima italiana, si apre anche la nuova sezione riservata ai giovani registi emergenti di casa nostra: la Vetrina dei giovani cineasti, infatti, propone ben due opere alla ricerca di attenzione. Procediamo però in ordine con l'agenda della giornata.

 

Si comincia alle 10:30 nella Salacinema Lotto con Foster di Jonathan Newman, nella sezione Alice in Città, un'anteprima europea che nasce da un corto realizzato dallo stesso regista (che in assenza di trailer ufficiale, vi propongo):

 

Zooey (Toni Collette) e Alec Morrison (Ioan Gruffudd) sono una coppia sposata che non riesce a rimarginare la ferita della perdita del figlio di 5 anni scomparso anni prima. Non potendo concepire altri bambini, i Morrison sono ora in attesa di un affidamento. Un giorno misteriosamente appare alla loro porta un bambino di 7 anni, Eli (Maurice Cole) che dice di essere stato mandato dall’agenzia. Il ragazzo mostra una maturità inaspettata ed offre alla coppia sostegno morale e saggi consigli per recuperare la loro unione. Adorato dalla madre adottiva e ammirato dal padre, il bambino supporta la coppia nella ricostruzione del loro rapporto, finché essi si riscopriranno innamorati ed in attesa: un bimbo è in arrivo.

 

 

 

 

Stesso orario, stessa sezione ma Sala Sinopoli per La Brindille di Emmanuelle Millet:

 

Debutto cinematografico promettente che combina l’eccezionale interpretazione di Christa Theret nei panni di una giovane donna accanitamente indipendente con l’inesorabile senso della narrazione della scrittrice-regista Emmanuelle Millet. Un giorno Sarah (Christa Theret), durante uno stage in una prestigiosa galleria d’arte, in seguito ad un malore improvviso, scopre con stupore di essere incinta di sei mesi pur non mostrando segni evidenti della gravidanza. In un primo momento rifiuta la diagnosi, tenta di sfuggire alla trappola in cui sembra caduta, poi pensa all’aborto come unica soluzione, ma costretta a confrontarsi con la sua imminente maternità decide di far nascere il bambino per darlo subito in adozione. Troppo orgogliosa per confidarsi con sua madre che vive in un’altra città. Senza lavoro e senza casa, è costretta a ricoverarsi nella clinica locale, piena di altre donne nelle sue stesse condizioni, tranne che per una sola sostanziale differenza: queste vogliono il loro bambino. Gli incontri, la realtà della nascita, scuoteranno, in un crescendo appassionante, la sua inflessibilità. Un soggetto d’intensa energia emotiva ed una protagonista in stato di grazia per un film sorprendente e fulminante.

Troppo simile a Juno per impressionare, il film si riscatta con un finale ottimista che cancella 90 minuti di sventure. Rimane tuttavia impresso per l'interpretazione dell'attrice protagonista e per aver tracciato con naturalezza l'approccio alla gravidanza di una giovane che tutto avrebbe chiesto alla vita tranne che un bambino in arrivo. Pur nella banalità della storia, si apre così uno squarcio su una donna sola contro il mondo e al bivio, di fronte alla decisione più importante della sua intera esistenza.

 

 

 

Alle 14, sempre per Alice in città, presso i locali della Salacinema Lotto, vi è la proiezione di En el nombre de la hija di Tania Hermida:

 

Dopo aver conquistato milioni di spettatori con Qué tan lejos (Quanto lontano), vero e proprio fenomeno sociologico in Ecuador, Tania Hermida torna con una storia non convenzionale interpretata dalla piccola Eva Mayu Mecham Benavides. Estate del 1976. Manuela (Eva Mayu Mecham Benavides) è una bambina di 9 anni dallo sguardo vivo da cui traspare un'energia potente, quasi fisica. Con suo fratello minore Camilo (Markus Mecham Benavides) trascorre le vacanze nella fattoria dei nonni nella valle delle Ande dell’Ecuador, insieme ai suoi cugini, dove la nonna cattolica conservatrice insiste che porti il nome che tutte le prime figlie femmine della famiglia portano da generazioni. Decisa a difendere le idee del padre, ateo e socialista, affronta fieramente i comportamenti privi di gesti di cura dei suoi parenti, decisa a non perdere il senso della propria integrità. La disputa intorno al suo nome oltre a cambiare per sempre le relazioni con il suo ambiente, la porta a confrontarsi con due mondi a loro modo convenzionali: il cattolicesimo ed il socialismo. Un ritratto vivido e realista costruito introno ad una figura che ricorda certi personaggi femminili delle fiabe. Le fiabe vere, quelle dove un personaggio deve essere abbastanza straordinario da attraversare alcuni secoli senza un graffio.

«Come regista, mi interessano i processi di ricostruzione del senso e di reinvenzione dell'identità di personaggi le cui certezze sono minacciate durante l'evoluzione di una storia. Ho indagato nel mondo dei simboli, scavando nel loro potere e mettendo in discussione il ruolo che hanno nel plasmare le nostre identità. Quali possibilità ha una ragazzina in un mondo di simboli che hanno costruito le verità che la circondano? Dissacrare le certezze equivale per me a un'apertura ai misteri del mondo».

 

 

 

Alle 15, al Teatro Studio, per gli Eventi Speciali, il regista Luca Verdone presenta La meravigliosa avventura di Antonio Franconi, un progetto nato nel 2006 e finalmente pronto per mostrarsi al pubblico:

 

Il Festival Internazionale del Film di Roma ricostruisce la figura del capostipite di una grande dinastia circense, abile cavallerizzo italiano che, verso la fine del Settecento, si reca in Francia dove, a Lione, costruisce un proprio circo. Successivamente Franconi dà vita alla prima struttura circense parigina, il famoso Cirque Olympique. Il film, diretto e scritto da Luca Verdone, con la collaborazione di Massimo Biliorsi, e interpretato nel ruolo di protagonista da Massimo Ranieri, narra la vita di Franconi attraverso l’immaginaria rievocazione di un sogno compiuto da un bambino che, prima di andare a letto, scopre nella soffitta un baule con vecchi giocattoli: una pista del circo e dei cavallerizzi di piombo. All’interno del baule, c’è anche un libro che narra la vita del leggendario pioniere del Circo Moderno. Il film propone le imprese di questa mitica figura che desiderava realizzare uno spettacolo costruito con tutte le forme rappresentative sino ad allora conosciute. Pur di raggiungere l’obiettivo Franconi non si pone limiti e la fortuna lo premia, con la realizzazione del Circo Olimpico, iniziato da lui e completato e “regalato” dai figli Laurent ed Henry al pubblico parigino. Il bambino, che si era addormentato sognando gli avvenimenti della vita di Antonio Franconi, si risveglia e, affacciandosi alla finestra della sua camera osserva il tendone di un circo, in cui stanno per cominciare gli spettacoli.

 


Il film è diretto da Luca Verdone, fratello di Carlo e figlio di Mario, indimenticato professore di “Storia e critica del film”, profondo conoscitore e studioso di tutte le forme di spettacolo, critico d’arte, saggista, scrittore e poeta, ma anche il nome di riferimento, ben oltre i confini italiani, per quanto riguarda la storiografia del circo. Nel lontano 1955 Mario Verdone scrisse un soggetto cinematografico dal titolo “Il conte Franconi, re del circo”, ambientato ai tempi della Rivoluzione francese fra Venezia e Lione. Un soggetto che - come scrisse lo stesso Verdone - “potrebbe essere particolarmente adatto per una co-produzione italo- francese. Protagonista potrebbe essere Vittorio Gassmann”. A distanza di 56 anni quel “sogno” si realizza e nel ruolo che doveva essere di Gasmann c’è Massimo Ranieri. 

La pellicola propone una biografia immaginaria del cavallerizzo e ammaestratore di animali emigrato in Francia dalla natia Udine, trattando gli elementi più vicini alla poesia e alla fantasia del circo. Un film per certi aspetti visionario e nostalgico che guarda al futuro del circo con gli occhi di un bambino.

 

 

 

 

 

Alle 16:30, l'Auditorium Santa Cecilia ospita la prima proiezione di Le Avventure di Tintin: il Segreto dell'Unicorno, diretto da Steven Spielberg e prodotto da Peter Jackson:

 

Tratto dai fumetti creati da Hergé, il film in 3D racconta la storia del giovane e curioso reporter Tintin (Jamie Bell) e della scoperta di un modellino di una nave che nasconde un grande segreto. Travolto da un mistero vecchio secoli, Tintin si ritrova tra le grinfie del diabolico Ivan Ivanovitch Sakharine (Daniel Craig), convinto che abbia rubato un tesoro inestimabile legato al perfido pirata Red Rackham. Ma con l’aiuto del suo cane Milou, dell’arguto e irascibile Capitano Haddock (Andy Serkis) e dei detective pasticcioni Thomson & Thompson (Simon Pegg e Nick Frost), Tintin si ritroverà a viaggiare per il mondo, cercando di superare in astuzia i suoi nemici in un inseguimento mozzafiato, alla ricerca dell’Unicorno, una nave naufragata che forse nasconde la chiave di un’immensa fortuna e di un’antica maledizione. Dal fondo degli oceani ai deserti del Nord Africa, Tintin e i suoi amici verranno trascinati in un crescendo turbinoso di emozioni e pericoli.


 

Steven Spielberg e Peter Jackson hanno in comune non solo una fervida immaginazione ma anche la passione di avventurarsi in territori sconosciuti. Dagli extraterrestri alla Terra di Mezzo, hanno creato personaggi indimenticabili e mondi straordinariamente emozionanti e  originali, ma fino a ora non si erano mai confrontati con l’animazione in 3D.   

Spielberg e Jackson per prima cosa desideravano restare fedeli al Tintin originale – e condividevano anche il desiderio di trasportare lo stile grafico di Hergé in un film di animazione in CG.  

 Fin dall’inizio del progetto, mentre si stava  ancora scrivendo la sceneggiatura, è stato costituito il dipartimento artistico e il team dell’animazione, e i collaboratori sulle due sponde del Pacifico hanno iniziato a lavorare sui personaggi e gli ambienti.  Una delle decisioni più importanti, che avrebbe influenzato tutto quello che sarebbe seguito, è stata quella di mantenere l’ambiente e la struttura della storia senza riferimenti temporali – in una sorta di eterno universo noir, con ombre scure che spuntano da ogni angolo.  

“Queste storie potrebbero essere ambientate negli anni ‘30, ‘50, ’80 o adesso”, afferma Spielberg, “ed è parte della loro bellezza che abbiamo voluto preservare. Nel nostro film non abbiamo voluto telefoni cellulari, televisioni o automobili moderne. Il nostro stile viene soprattutto da Hergé, e non da un certo periodo o da un certo luogo”. 

“Volevamo che il film avesse l’atmosfera retro dei polizieschi. Non Tintin, ma il mondo in cui vive. C’è tanta suspense nella storia che abbiamo sentito che potevamo inserire gente con l’impermeabile e iI cappello calato sotto la pioggia, le luci delle strade che proiettano ombre sull’asfalto bagnato – questo è il mondo che abbiamo creato per il nostro Tintin”, aggiunge Jackson.  

Poi gli artisti, i designer e gli animatori hanno iniziato a immaginare come sarebbe apparso il tratto di Hergé in uno spazio tridimensionale. Anche se disegnato decine di anni fa, il materiale si è adattato naturalmente, dice Richard Taylor, comproprietario di Weta Workshop e supervisore degli effetti del film. “Quando guardi i disegni di Hergé, tracciati con la penna nera e ripassati con i colori a acqua, tutto quello che devi fare è chiudere gli occhi e iniziare a immaginare il mondo di Tintin”.  

Tutto ha funzionato bene anche perché Hergé si lasciava alle spalle le regole del realismo quando disegnava le avventure di Tintin. “Le  linee che tracciava non erano necessariamente accurate”, dice Joe Letteri, supervisore senior  degli effetti visivi. “Non cercava di riprodurre esattamente ciò che vedeva – e noi abbiamo voluto conservare queste caratteristiche. Gran parte del nostro studio è stato osservare quello che ha fatto, ma poi immaginarlo da altri punti di vista e questo ci ha permesso di iniziare a elaborare un vademecum di come costruire questi mondi in 3D”.



Per far vivere il mondo di Hergé, il dipartimento artistico ha lavorato alla ricerca di immagini e location che potessero rappresentare i  diversi ambienti in cui si ritrovano Tintin, Milou e Haddock, dalle acque tempestose dell’oceano alle sabbie del deserto del Sahara. Uno degli ambienti preferiti dai disegnatori è stata l’immaginaria città di Bagghar, in Marocco.  

“Abbiamo studiato i diversi stili dell’architettura del Nord Africa”, dice la designer Rebekah Tisch, “e per creare Bagghar abbiamo scelto forme e colori esotici. Questo lavoro mi ha lasciato il desiderio di vedere il mondo – e spero che anche coloro che andranno a vedere Tintin ameranno lo stesso mix di eccitazione e colore”.  

Su invito di Fanny e Nick Rodwell di Hergé Foundation, il responsabile dei designer Chris Guise si è recato a Brussels per studiare di persona i luoghi in cui è nato Tintin, e immergersi nell’atmosfera che ha portato alla creazione del suo appartamento al numero 26 di Labrador Road, e la residenza di campagna di Capitan Haddocks, Marlinspike Hall.  

“Chris si è immerso completamente nel mondo di Hergé e ha cercato gli ambienti cui si è ispirato, poi è tornato con le idee chiarissime”, sottolinea Richard Taylor.  

Marco Revelant, supervisore del modello digitale, ha aggiunto per di più la sua passione per i modellini delle navi, fondamentali per l’intreccio del film, e ha visitato il Musée de la Marin di Parigi per studiare i vascelli su cui si era basato Hergé per la Brilliant e l’Unicorno. “I disegni di Hergé sono più elaborati, ma le dimensioni sono ridotte”, dice Revelant. “E noi abbiamo applicato gli stessi criteri ai nostri modelli digitali”. 

Kim Sinclair, direttore artistico degli effetti visivi, ha girato in lungo e in largo per trovare vetture autentiche, come la Ford del 1937 che si vede nei fumetti, che è stata scannerizzata al computer e poi ricostruita in digitale. “Hergé aveva compiuto ricerche accurate sui veicoli, come la Ford e l’idrovolante, e noi siamo riusciti a recuperare il modello e l’anno di produzione”, spiega.

Ma l’elemento più critico di tutti, fin dall’inizio, sono stati i personaggi. Dalle espressioni colleriche di Haddock al ciuffo di Tintin, dalla caratteristica foggia dei baffi dei detectives Thompson e Thomson al naso di  Milou, ogni sfumatura è stata discussa, provata e riprovata, fino ad arrivare alla scelta definitiva.

“Abbiamo osservato ogni personaggio da tutte le angolature possibili per assicurarci che aderisse al disegno di Hergé ”, afferma Spielberg. “Non abbiamo avuto paura di dire ‘Bene, questo particolare calco del viso del Capitano Haddock non è in linea con lo stile di Hergé’.”  


 

 

 

Alle 16:30, all'Auditorium Sinopoli, Focus UK apre la sua vetrina offrendo The Deep Blue Sea di Terrence Davies:

 

Il profondo mare azzurro (2011)

di Terence Davies con Tom Hiddleston, Rachel Weisz, Simon Russell Beale, Ann Mitchell, Harry Hadden-Paton, Steve Conway, Sarah Kants, Jolyon Coy

 

 

Hester, la bella moglie del giudice della corte suprema Sir William Collyer (Simon Russell Beale), vive un’esistenza privilegiata nella Londra degli anni ’50. Ma quando si innamora perdutamente del giovane ex-pilota della RAF Freddie Page (Tom Hiddleston), decide di andare a vivere con lui e viene subito travolta dalla dura critica moralista della società londinese dell’epoca. Tratto dall’omonima opera drammaturgica del 1952 di Terence Rattigan, il film scardina la quiete carica di insicurezze e le ipocrisie dell’alta borghesia inglese e ripropone il tema dell’amour fou, dove eros e morte si sovrappongono. Hester, uno dei grandi personaggi femminili del teatro contemporaneo inglese, interpretato nel passato da attrici come Peggy Ashcroft e Vivien Leigh, è in questa nuova edizione cinematografica magistralmente riproposto da Rachel Weisz, vincitrice nel 2006 del premio Oscar® come miglior attrice in The Constant Gardener, nonché sofferta e passionale Ipazia nel film Agora di Alejandro Amenábar.


Terrence Davies, il cantore più poetico della cronistoria inglese dal Secondo Dopoguerra in poi, mette in scena in maniera impeccabile la sensibilità emotiva del melodramma classico, focalizzando l'attenzione sul tema delle disuguaglianze sociali. I toni tenui del film catturano l'atmosfera del periodo in cui la storia si svolge, restituendo un suggestivo racconto tra emozione e repressione, in cui spiccano le interpretazioni dei tre attori protagonisti e una colonna sonora che con le sue note ora gioiose ora tragiche fa da specchio a una regia più che superba.

 

 

 

Alle 17:30 L'Altro Cinema ci propone fuori concorso, al Teatro Studio, il documentario African Women di Stefano Scialotti:

 

African Women (2011)

di Stefano Scialotti con Stefano Scialotti

 

 

“Le donne del Senegal sono stanche”, si ripete più volte in questo documentario realizzato per un progetto che vuole riconoscere e valorizzare il ruolo delle donne in Africa e proporre per loro il Premio Nobel per la Pace 2011 (una proposta del CIPSI, coordinamento di 48 associazioni, e di ChiAma l’Africa).

Ma in questa coloratissima ed appassionante galleria di donne africane “indignate” troverete più sorrisi, danze e gioia di quanta si possa incontrare in qualsiasi festa o cerimonia popolare di una cittadina o di una campagna occidentale: sia che passino la giornata ad essiccare pesce o a lavorare sotto al sole nei campi, sia che accudiscano la prole o preparino da mangiare o convivano pacificamente in una famiglia plurima sotto un patriarca poligamo, come si scopre in una divertente e sorprendente scena di questo film che è una sorta di inchiesta o reportage che ha il passo incessante e allegro di un canto rituale.

 

 

 

Alle 18, in Sala Petrassi, L'Altro Cinema Extra propone fuori concorso Nuit Blanche di Frédéric Jardin:

 

Notte bianca (2011)

di Frédéric Jardin con Tomer Sisley, Joey Starr, Julien Boisselier, Serge Riaboukine, Laurent Stocker, Samy Seghir, Dominique Bettenfeld, Adel Bencherif, Birol Ünel, Lizzie Brocheré

 

 

Uno sbirro corrotto. Un colpo andato male. Molto male. E lo sbirro scopre in una notte striata di polvere bianca e di sangue cosa significa essere padre schivando proiettili e agguati. Un noir teso come un filo d’acciaio. Tutto in una notte, quasi tutto in una discoteca. Nelle sue immagini c’è la memoria del “polar” francese, da José Giovanni a Jacques Deray ma anche i meccanismi di perfetta sceneggiatura di B-movies americani come Le Jene di Chicago e Il tempo si è fermato, interamente ambientati, come questo, in uno spazio claustrofobico. Un manipolo d’attori in stato di grazia, uno stuolo di facce da galera. Tutti i colori del buio più impenetrabile distillati nei colori luminosi della notte più bianca.


 

Provate a immaginare le difficoltà logistiche nel girare un film d'azione all'interno di un ambiente ridotto come una discoteca: posizionamento delle cineprese, purezza e continuità del suono, il controllo di ogni minimo dettaglio. Jardin vince la sfida e ci proietta in un universo che cattura e tiene incollati allo schermo: non c'è niente che vacilla e il ritmo è talmente implacabile che le 24 ore della storia sembrano durare pochi secondi per quanto scorrono veloci. Ogni immagine restituisce in maniera vorticosa una tensione palpabile che avvolge e coinvolge, portandoci in una dimensione di vertiginoso piacere. 

 

 

 

Alle 19, in Sala Sinopoli, arriva il primo film in Concorso, Poongsan di Juhn Jaihong, scritto e prodotto da Kim Ki-duk:

 

Anche se nessuno può facilmente attraversare il confine fra la Corea del Nord e quella del Sud, il giovane Poongsan (Yoon Kye-Sang), un uomo con gli occhi da bambino, valica il confine per recapitare il dolore e i desideri di famiglie lontane, le stesse che lasciano messaggi sul muro che separa le due regioni, la cosidetta zona demilitarizzata. Nonostante i pericoli che corre, l’uomo, sorta di supereroe, si assume il rischio senza timore. Un giorno, per una misteriosa richiesta di agenti governativi, Poongsan si introduce di nascosto nella Corea del Nord per persuadere In-oak (Kim Gyu-Ri), amante di un disertore nord coreano, a seguirlo. Lungo la strada per la Corea del Sud, i due giovani si innamorano, ritrovandosi in situazioni tra la vita e la morte. Al loro arrivo, sono accolti dagli agenti che catturano e torturano Poongsan. In-oak, delusa dal suo vecchio amante, molto cambiato rispetto al passato, è sempre più coinvolta da Poongsan.

L’amante della donna intuisce i sentimenti che Poongsan e In-oak provano l’uno per l’altra e, geloso, consegna il protagonista agli agenti governativi. A Poongsan, torturato, è offerta la possibilità di ritornare indietro con In-oak, a condizione che intervenga a favore di un agente sud coreano infiltratosi nella Corea del Nord. Poongsan accetta la proposta dell’agente e ritorna nella Corea del Nord.

 

 

«Mi auguro che tutti coloro che desiderano vedere le due Coree riunite vedano questo film. Sono 60 anni che interi nuclei familiari sono stati separati per motivazioni inerenti alla sola politica: i governi di Corea del Nord e Corea del Sud dovrebbero pensare alla sofferenza che hanno loro imposto. Per quanto tempo ancora hanno intenzione di farsi la guerra? Si parla sempre più spesso di riunificazione ma ciò sarà possibile solo nel momento in cui la smetteranno di litigare su chi ha torto e chi ha ragione: ci si deve lasciare tutto alle spalle e cercar di comprendersi, abbandonare le proprie posizioni e avvicinarsi. Un personaggio come Poongsan è più reale che mai, non importa di dove sia: si porta appresso il peso di decenni di storia e vicende personali, è la summa dei fantasmi di coloro che hanno tentato l'impossibile e l'incarnazione dell'unificazione stessa. 

Non ho diretto io il film per un semplice motivo: Juhn era fermo da tre anni. Realizzare film in Corea non è semplice e quando il mio copione era scritto la produzione aveva assoldato un attore famosissimo e un regista che non mi convinceva. Proposi allora il lavoro a Juhn e il risultato è sotto gli occhi di tutti: abbiamo cambiato il cast e, tengo a dirlo, i protagonisti hanno recitato gratuitamente. Così come gratuitamente hanno lavorato i tecnici, dopo un furto sul set che ci ha ridotti quasi sul lastrico: è un film fatto col sudore, con passione e con sforzi enormi, spero prima o poi di poter pagare tutti. Non ci saranno effetti speciali disarmanti né tantomeno sperpero di mezzi ma ci abbiamo messo l'anima per farlo», Kim Ki-duk.

 

 

 

All'Auditorium Santa Cecilia, alle 19:30 e Fuori Concorso si ride con la commedia A Few Best Men di Stephan Elliott, presto in sala distribuito da Lucky Red:

 

Quando il giovane David (Xavier Samuel), inglese, annuncia che sta per sposare una ragazza australiana (Laura Brent), i suoi sciagurati amici danno un significato completamente nuovo alla frase “nella buona e nella cattiva sorte”. In terra australiana l’ultra-caotico giorno delle nozze mette a dura prova sia il rapporto tra gli sposi, sia il rapporto di David con i suoi tre testimoni, rischiando di trasformare quello che dovrebbe essere il più bel giorno della vita nel peggiore di tutti. Un divertente “scontro di civiltà” tra gli amici di lui e la famiglia di lei, perché il sangue non è acqua! Un’irresistibile, sboccata, commedia dall’autore diPriscilla, la regina del deserto e del bellissimo Easy virtue – Un matrimonio all’inglese, già molto applaudito al Festival di Roma. Grande ritorno del mito Olivia Newton-John.


 

Una notte da leoni in Australia, dove un gruppo di amici sin dall'infanzia finisce con l'essere travolto da un giro di cocaina. Peccato però che la cosa migliore in scena sia una pecora e che le battute escatologiche non riescano a far sorridere per quanto volgari e disarmanti. Un film pensato per i giovani e che fondamentalmente delude: Olivia Newton John poteva aspettare ancora prima di ritornare al cinema appesa ad un lampadario.

 

 

 

Il Teatro Studio alle 20 ospita per L'Altro Cinema Extra Hollywood Bruciata di Francesco Zippel, produzione Studio Universal in onda sull'omonimo canale pay la prima settimana di novembre:

 

Hollywood bruciata - Ritratto di Nicholas Ray (2011)

di Francesco Zippel

 

 

Prima ancora di diventare il vero scopritore di James Dean (ha contribuito più di qualsiasi altro alla costruzione di quel mito epocale e ribelle), Ray è stato l’autore capace di portare nella finzione hollywoodiana la verità dei sentimenti: collera e tenerezza, solitudine e affetto disperato innervano i personaggi di noir, melodrammi, gangster film che lo renderanno forse uno dei registi più amati da critici e intellettuali europei, da Godard a Wenders. Il film è un omaggio accurato e delicato, intessuto di testimonianze esclusive, inediti e rari materiali d’archivio, che illumina il talento e il selvaggio crepuscolo di un regista relegato ai margini dalla comunità hollywoodiana. Il programma, a cura di Studio Universal prevede un incontro con Stewart Stern, lo sceneggiatore diGioventù bruciata, che ha conosciuto bene sia Ray che James Dean in un momento cruciale e irripetibile della carriera di entrambi.

 

 

 

Alle 20, il Centro Elsa Morante ospita la Vetrina dei Giovani Cineasti Italiani con la proiezione di Et in terra pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, uscito in sala qualche tempo fa:

 

Et in terra pax non è un film sul disagio della periferia romana, o per lo meno lo è solo in parte. Abbiamo scelto di soffermarci sulla psicologia dei  personaggi più che sul degrado, sulla disperata ricerca di una direzione da  seguire più che sulle ragioni sociali dell’emarginazione. La borgata è il teatro di vicende in cui divengono lampanti da una parte le contraddizioni dell’essere umano e, dall’altra, i rabbiosi istinti di sopravvivenza e la volontà di riscatto.  

Nel tratteggiare questa storia abbiamo evitato di esporre giudizi o critiche: risulterebbero quanto mai inutili. Abbiamo cercato invece di rappresentare una parte di questa realtà ora mescolando semplici fatti di cronaca, ora dando un valore quasi sacro alle gesta di individui comuni. È proprio questa la ragione per la quale abbiamo utilizzato un linguaggio scarno, crudo e a volte anche volgare (seppur spesso alternato a momenti più intimi o lirici), perché queste caratteristiche non possono prescindere dal carattere di quella fetta di Roma spesso dimenticata. 

Il “Serpentone” del quartiere Nuovo Corviale ci è sembrato il luogo più adatto per raccontare un microcosmo di destini ed esistenze intrecciati fra di loro. 

L’immenso e isolato palazzo che fa da sfondo alla storia è un’ombra che opprime e che allo stesso tempo protegge, che logora e che crea nuovi fermenti vitali: è un’isola, un quartiere, un’intera città, è la metafora stessa della vita di ogni individuo. 

La ricerca di un altrove indefinibile è al centro del nostro film. Una ricerca che forse non finirà mai e che spesso costringe l’uomo a rifugiarsi nella propria solitudine. Il non agire è una via di fuga o un atto di impotenza? E se l’agire fosse comunque una sconfitta? Ogni sacrificio, sacro o profano, utile o sterile, è una disperata affermazione della propria esistenza.


 

Bisogna esserci stati a Corviale, periferia ovest della capitale, bisogna aver penetrato quegli anfratti oscuri e fatiscenti del "serpentone", l'ecomostro più lungo d'Europa (un chilometro), aver visto con i propri occhi i cumuli di immondizia, i nomi divelti dai citofoni - epitome di una realtà sociale che ti priva del primo segno dell'identità, il nome -, le inferriate posticce davanti alle porte blindate, i graffiti ovunque, per capire cosa significa nascere e crescere in un contesto del genere. È una realtà che ti schiaccia, ti stritola, che annienta ogni sforzo di emancipazione. A emanciparsi ci prova Marco (Tesei), che vorrebbe rifarsi una vita dopo gli anni della galera ma che si trova accerchiato dagli amici di un tempo. E ci prova Sonia (D'Onorascenzo), studentessa che vive con la nonna e che dedica al lavoro presso la bisca locale il poco tempo che le rimane. Finirà vittima del branco, tre vitelloni sbandati che impiegano il loro tempo nichilista tra strisce di coca e atti di bullismo. Dopo alcuni cortometraggi, i trentenni Matteo  Botrugno e Daniele  Coluccini esordiscono con un film che è un saggio di antropologia culturale, capace di guardare con impressionante verismo alle storie di questi ragazzi di strada che tanto avrebbero attirato l'attenzione di Pasolini. Alla consistenza dei contenuti e al nitore della messa in scena fa da sponda una maturità espressiva invidiabile, fatta di una sorvegliatissima direzione degli attori, tutti bravi e credibili, di un uso sapiente delle luci, della poesia di alcune scene e del ricorso spiazzante alla musica di Vivaldi.   (Opinione di Barabbovitch).

 

 

 

Per il Focus UK, il regista Terrence Davies ha scelto il "punk" Frenesia del piacere di Jack Clayton, proiettato alle 21 allo Studio 3:

 

Jo è reduce da due matrimoni dai quali ha avuto sei figli. Il suo terzo marito è lo sceneggiatore di successo Jake. La loro unione è segnata dall’incapacità di comunicare. Jo si sente infelice e sospetta che Jake la tradisca. La depressione la induce a rivolgersi a uno psichiatra, mentre Jake si dedica totalmente alla sua brillante carriera. Ottenute le prove dell’infedeltà del marito, Jo si rinchiude con i figli in una villa di campagna nel disperato tentativo di salvare la famiglia.

 

Dotata di grande temperamento ma anche di molte insicurezze, madre di otto figli vede avvicinarsi la fine del suo terzo matrimonio: il marito è troppo farfallone e sottaniere. Ma combatte con le unghie. Una memorabile interpretazione della Bancroft in un complesso personaggio, scrittole su misura da Harold Pinter (da un romanzo di Penelope Mortimer). Ottimi caratteristi. (Morando Morandini).

 

 

Alle 22 all'Auditorium Sinopoli per il Concorso fa la sua apparizione il primo titolo italiano in gara, Il mio domani di Marina Spada:

Monica (Claudia Gerini), donna manager dedita a grafici e nuove strategie per le risorse umane, decide di mettere in discussione il precario equilibrio costruito intorno al lavoro e agli affetti, in una Milano antonioniana . Ha una relazione con Vittorio (Paolo Pierobon), il presidente della società per cui lavora e dal quale avverte un distacco crescente, e un conflittuale rapporto che la lega alla sorellastra Simona (Claudia Coli) e al padre (Raffaele Pisu). La donna è spinta, forse da un celato desiderio di riparazione, ad aiutare il nipote Roberto (Enrico Bosco), uno schivo diciassettenne. Frequenta un seminario sull’autoritratto fotografico dove conosce Lorenzo (Lino Guanciale), con il quale vive una breve relazione, che non riesce tuttavia a distogliere Monica dalle sue inquietudini. A questo punto della sua vita, deve fare i conti con il passato. La morte del padre, malato da tempo, le offrirà la possibilità di una rinascita. Potrà così trovare il coraggio di affrontare il sentimento di abbandono e tradimento che prova per Vittorio e la disillusione per aver creduto in un lavoro che ora scopre pieno di ambiguità e inganni.

 

«Monica è una formatrice aziendale, applica la filosofia classica, che ha studiato, al lavoro. Ma, come George Clooney in Tra le nuvole, sempre più spesso le capita di dover indorare la pillola a manager e impiegati di aziende in ristrutturazione. Marina Spada, per scrivere la sceneggiatura del film (con Daniele Maggioni e Maria Grazia Perria), ha frequentato per un anno corsi di formazione aziendale. Da infiltrata: «Tra i più interessanti, quello che ho seguito in una banca. Stavano per essere acquisiti. Il corso serviva per ammorbidire le difese dei dipendenti. La frase di un formatore mi è rimasta impressa: "Non siamo più in un mondo di castelli medievali, ma di tendopoli romane. Ci sono cinque legioni? Bene, si approntano le tende che servono a quelle e si devono poter spostare ogni giorno"».

Ho voluto porre lo sguardo su una donna che vive oggi a Milano, una donna simile a molte altre che vivono nelle città del mondo e nella quale tante e tanti si possono rispecchiare. Mi interessava raccontare la vita di Monica, una donna apparentemente serena e realizzata nel momento in cui inizia la storia, ma gli accadimenti rimescolano il suo incerto equilibrio personale e professionale, faticosamente costruito. 

Il retaggio familiare è per lei un ostacolo alla costruzione della sua identità femminile. Monica non è in grado di accettare questa identità fino in fondo perché percepisce nell’essere donna una diminuzione di valore: è un sentimento che le proviene dal rancore che il padre nutre per la madre, per questo non si è mai costruita una famiglia e vive i sentimenti in modo difficoltoso. Monica infatti crede di aver trovato un equilibrio accettabile concentrandosi nel lavoro e nella relazione con il suo capo, che non la obbliga ad un vero impegno. 

Come tutti è legata alla propria storia in bilico tra odio e amore, coazioni a ripetere e desiderio di libertà, in sostanza a tutto ciò che alimenta la vita di ognuno e i suoi conflitti, ciò con cui prima o dopo ci si trova a misurare se stessi. Monica ha cercato un riscatto dalla condizione familiare studiando e allontanandosi dal paese della bassa padana dove è nata: oggi si occupa di consulenza filosofica, una pratica che, come altre, spesso può diventare uno strumento di manipolazione. Il sapere e la conoscenza sono oggi elementi decisivi nei rapporti di lavoro e nella produzione di lavoro. Non solo il sapere scientifico ma anche quello umanistico e relazionale. 

Le sue lezioni sono un momento di formazione, e spesso di mistificazione, usato dalle aziende per giustificare scelte a volte poco etiche. La risoluzione di alcuni suoi rapporti e lo smarrimento che ne consegue le pongono domande a cui si trova obbligata a dare una risposta. Questa risposta la porterà al superamento del rancore e alla costruzione del cambiamento e di una identità consapevole. La narrazione procede per sottrazione, ho voluto che le immagini lasciassero aperta la lettura dei piani molteplici di significato insiti negli accadimenti, stimolando lo spettatore ad una osservazione non inerte. Lo spazio della messa in scena vuole essere anche spazio emotivo di rispecchiamento e ripensamento della realtà rappresentata. Non è una questione di stile: vorrei mettere lo spettatore nella condizione di cogliere in modo più intenso la vita rappresentata dalla materia cinematografica.

 

 

 

 

Alle 22:30 la Vetrina dei giovani registi italiani propone al Centro Elsa Morante La strada verso casa di Samuele Rossi, vincitore del Siena Film Festival 2011:

 

La strada verso casa (2011)

di Samuele Rossi con Giorgio Colangeli, Alessandro Marverti, Cecilia Albertini, Roberta Caronia, Maria Teresa Bax, Rita Montes, Massimo Triggiani

 

 

Tre vite in bilico, bloccate in una difficile quotidianità, i cui destini si intrecciano in modo inaspettato alla ricerca di un nuovo equilibrio e del modo di ricostruire il proprio futuro.

Per Michelangelo, giovane, orgoglioso aspirante scrittore tutto si arresta con la morte del padre che lo mette di fronte alla necessità di una scelta. Antonio, ricco industriale, si trova imprigionato nell’eterno presente della moglie Marta, incapace di elaborare il lutto della figlia morta tempo prima. Giulia, infine, è una giovane madre che, dopo l’incidente del marito avvenuto pochi giorni prima del parto, ha deciso di vivere in ospedale aspettando che il marito, Massimo, si risvegli dal coma.  Le tre storie di Michelangelo, Antonio e Giulia apparentemente così distanti  s’intrecciano invece in modo inaspettato. La consapevolezza del dolore dà loro la possibilità di tornare a vivere in modo nuovo e, se pur nella sofferenza, di tornare a casa.

Il film nasce da una precisa esigenza emotiva.
La vita che prende direzioni crudelmente inaspettate, violente, imprevedibili. L’impossibilità di opporsi all’invasione del dolore, poiché parte integrante del vivere, di esso presenza ineliminabile.
Domandarsi allora. Che vita dopo il dolore, se di vita si tratta? E come ad esso reagire o come con esso vivere, convivere? Perché se vero è che non esiste altro modo di non vivere il dolore, che non sia rinunciare a vivere (la vita come le emozioni), vero è anche che si può forse in qualche modo resistere ad esso, porvi una cura, cercare ostinatamente una dolcezza che possa delicatamente lenire le sofferte ferite. Non volevo quindi parlare della morte nella istantanea violenza in cui questa dilaga ed accade. Ma volevo provare a raccontare il tempo del dopo, l’eterno presente in cui sembra che tutto si ripeta uguale a se stesso, senza possibilità di un cambiamento, di una deviazione in un altrove nuovamente possibile.
Iniziando a scrivere la prima storia a nascere, poiché più strettamente legata ad un passato a me riconoscibile, a scelte e dolori da me conosciuti, è stata quella del giovane scrittore che si trova ad affrontare la morte del padre. In essa ho sentito forte la mancanza che nel mio presente sento della mia famiglia. Il desiderio di voler condizionare la propria vita al di là delle scelte che questa inevitabilmente ci costringe a fare, e rendersi conto che quasi mai è possibile, se non rinunciando a pezzi di vita, a momenti di un tempo che non può mai perdurare uguale a come era.
Su questa storia ho incontrato una ricca famiglia, due anziani signori costretti ad un presente di non-vita, dove nella ossessiva perfezione del benessere e della ricchezza il dolore non era mai entrato. E forse però non era mai entrata neanche la capacità piena di sentire la vita.
Ecco improvvisa la morte della figlia, il dispiegarsi violento e crudo del dolore – l’imperfezione che scombina gli equilibri, ad alterarli forse definitivamente. L’incapacità così di porvi resistenza e di costruire rimedi adeguati, se non a prezzo di farsi prendere dalla vita, in tutta la sua disperata e meravigliosa verità.
Infine la figura di una giovane donna decisa a vivere in ospedale accanto al marito in coma. Il coraggio e la fermezza, piena e vitale, di resistere al dolore, senza mai farsi derubare della capacità di guardare alla vita, di pensare che forse solo tenendola stretta si possa in qualche modo sperare di ritrovarla, altrove. La forza tutta materna, esclusivamente femminile, di non fuggire, di non arrendersi, di non deviare dal dolore, schermandosi di indifferenza o paura, ma accettandone in toto la violenza, opponendone candore, semplicità, delicatezza, coraggio.
Ora è arrivato il momento di lasciarli in qualche modo. Sono incollati a quelle immagini, abitano quei luoghi, sono passati prima da un emozione ad un pensiero, poi ad una storia, infine da una immagine alla realtà. Perchè ora stanno un pò negli occhi di chi vedrà, ascolterà, sentirà.
Ho sofferto di loro e con loro.

Sempre convinto che la vita muti continuamente. Che il corpo e i pensieri siano spesso attraversati da misteriose cicatrici, segni indelebili degli incontri con il dolore, ma sicuro che al tempo stesso siano anche meravigliose prove che si stava vivendo, in toto, la vita.(Samuele Rossi).

 

 

 

Alle 22 L'Altro Cinema al Teatro Studio propone in concorso il documentario Dragonslayer di Tristan Patterson:

 

Dragonslayer (2011)

di Tristan Patterson con Josh 'Skreech' Sandoval

 

 

Galleria stilizzata e diario pop di uno skater di talento, diviso tra le piscine vuote delle case sfitte per la crisi, un bambino remoto di cui è padre, una ragazza secchiona e addicted di crack come lui. Incapace di trovare un’occupazione, tenta ancora una volta di farcela nel mondo dello skate. I riflessi però sono arrugginiti, le nuove generazioni aggressive. Poco più che ventenne, Josh è ormai considerato un dinosauro. Prodotto da Christine Vachon e commentato da alcune delle punk band più interessanti del momento come i Bipolar Bear e i Children, il film di Tristan Patterson è il ritratto di un ribelle senza causa nell’era della grande crisi. Con un occhio a Gus Van Sant (e l’altro pure).

 

 

 

 

La giornata si chiude alle 22 all'Auditorium Santa Cecilia con la proiezione del film Hysteria di Tanya Wexler, in Concorso con Rupert Everett e Maggie Gyllenhaal sul red carpet:

 

1880. Nella pudica Londra vittoriana, il brillante giovane dottore Mortimer Granville (Hugh Dancy) è in cerca di un nuovo lavoro. Lo trova presso il Dottor Dalrymple (Jonathan Pryce), specializzato nel trattamento dei casi di isteria, i cui angoscianti sintomi nelle donne includono pianto, malinconia, irritabilità, rabbia. Dalrymple è convinto che la causa del malanno sia anche la repressione sessuale imperante in quell’epoca, e cura le “isteriche” con una terapia scandalosamente efficace: il “massaggio manuale” sotto le gonne delle sue pazienti. Il dottore, però, deve lottare contro la fiera disapprovazione della figlia Charlotte (Maggie Gyllenhaal), sostenitrice dei diritti delle donne più deboli. Mortimer decide di affinare il metodo terapeutico: quando il suo lungimirante amico Edmund (Rupert Everett) gli rivela il progetto del suo nuovo spolverino elettrico, gli viene in mente un’idea irresistibile. L’effetto sarà dare nuova linfa alla sua pratica medica, provocando nelle sue pazienti sensazioni forti. Storia vera e commedia romantica sulla creazione del vibratore.


 

Una commedia semplice eppure storica. Si racconta il progresso della scienza e della medicina affiancandolo alla lotta per l'emancipazione dei diritti femminili in piena epoca vittoriana. Quello che succede sotto le gonne delle donne diviene il pretesto per mostrare quello che accade intorno. Poco importa se qua e là Tanya Wixler commetta qualche ingenuità, si sorride e si sorvola. Non ci è dato sapere quanto ci sia di vero e quanto di romanzato in questa storia d'amore, sappiamo solo che ci coinvolge per il modo in cui è raccontata: sembra quasi che qualcuno di oggi sia tornato nel passato per rivivere tutto con gli occhi del presente.

 

 

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Roma 2011Giorno 1

 

 

 

 

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