Conoscere l'artista attraverso le parole dell'uomo: entrambi di statura superlativa. Primo appuntamento (mi riprometto di proseguire ancora con altri "reperti" anche autografi) per ricordare la grandezza, l'umanità e la modestia (che dovrebbe essere un monito e un esempio per le nuove generazioni) di Fritz Lang, "grande fra i grandi".
Sono nato il 5 dicembre 1890 a Vienna, figlio di un architetto. Mio padre voleva che anch’io diventassi architetto, ma a me non piaceva studiare architettura e me ne andai di casa – come dovrebbe fare ogni giovanotto che si rispetti – non sapendo ancora bene di cosa avrei voluto occuparmi nella vita. Prima andai a Bruxelles, poi girai mezzo mondo, dal Nordafrica alla Turchia, dall’Asia Minore a Bali, per approdare infine a Parigi. Mi guadagnavo da vivere illustrando cartoline, vendendo disegni e di tanto in tanto vignette per qualche giornale. Avevo deciso che volevo diventare un artista. Abitavo a Montmartre e prendevo lezioni alla scuola di pittura di Maurice Denis (Maurice Denis aveva già esposto diverse volte a Londra, alla Tate Gallery). La sera facevo ritratti dal vivo all’Accadémie Julian. Come tutti i giovani artisti disegnavo dovunque mi trovassi. Ricordo in modo particolare il Moulin de la Galette, il Moulin Rouge, il Cirque Medrano e la Place du Tetre a Montmartre (quando ritornai per la prima volta dopo tanti anni in Place du Tetre, nel 1958, vidi con enorme dispiacere la piazza americanizzata e gran parte del suo fascino svanito. Al tempo in cui vissi a Parigi, prima della Grande Guerra, la città era un posto dove artisti e studenti, con le rispettive ragazze, si incontravano per un bicchiere di vino o per «un boc». Adesso è diventata luogo di appuntamenti per turisti).
Quando avevo due spiccioli in tasca, spendevo il mio tempo libero nei cinema, perché mi interessava molto da un punto di vista professionale. Quando dipingevo o disegnavo, i miei oggetti erano, per così dire, de-animati. Ci si metteva, infatti, di fronte a una modella e lei rimaneva immobile, mentre il cinema era un vero e proprio quadro in movimento. Già allora sentivo, inconsciamente, che una nuova arte – divenuta poi l’ARTE del nostro secolo – stava per nascere.
Vissi a Parigi fino all’agosto del 1914, anno della prima guerra mondiale. Ricordo che in quei giorni nessuno credeva davvero che ci sarebbe stata una guerra tra Francia e Germania. Circolava la voce, certo, ma l’Europa aveva goduto di un periodo di pace di oltre quarant’anni e nessuno poteva concepire l’eventualità di una guerra. Che velassero la statua dell’Alsace-Lorraine in Place de la Concorde, passi, ma quarant’anni di pace erano una cosa difficile da dimenticare e superare.
Poi, da un giorno all’altro, le monete incominciarono a scarseggiare. I ristoranti non accettavano banconote di grosso taglio e tuttavia nessuno voleva ancora credere a una guerra con la Germania, fino al giorno in cui – io sedevo con alcuni amici al tavolo di un caffè di Montmarte – qualcuno irruppe gridando: “Jaurès assassiné d’un camelot du roi!”. Era il preludio della fine. Adesso si udiva gridare nei boulevards: “A bas les Prussiens! A Berlin!” e “Les Autrichiens sont des autres chiens!”.
Ricordo il primo agosto, era di sabato. Era mattino presto e io ero ancora a letto quando venne la mia padrona di casa ad avvertirmi di aver sentito dire che le comunicazioni ferroviarie con la Germania erano interrotte e che erano stati fatti saltare i ponti di Avricourt. Non dimenticherò mai la solidarietà dimostratami da alcuni parigini che mi aiutarono a prendere l’ultimo treno. La mia padrona di casa mi aiutò a fare i bagagli e mi trovò un taxi. Arrivati alla Gare de l’Est il taxista non volle un soldo per la corsa. Durante il tragitto gli strilloni annunciarono le edizioni straordinarie: “Caillaux assassinato, ucciso da un figlio di Calmottes”. C’era una folla incredibile alla Gare de l’Est e Dio solo sa – io non ricordo – come avvenne, però mi ritrovai infine sull’ultimo treno in partenza da Parigi per Luettich.
A Vienna fui chiamato sotto le armi come riserva e più tardi arruolato come ufficiale di riserva nell’esercito austriaco. Fui ferito diverse volte e decorato, ma non riuscivo a dimenticare Parigi e ancora adesso penso di non essere mai stato tanto felice in vita mia come durante il periodo in cui ero un giovane pittore a Parigi.
Durante la guerra, non mi abbandonava l’immagine dei «quadri in movimento» che avevo visto a Parigi. Non sarei mai diventato un bravo pittore, invece credo proprio di essere nato per diventare un regista di quadri in movimento, un «metteur en scène». In un letto d’ospedale, durante la guerra, incominciai a buttar giù idee per sceneggiature e poi riuscii perfino a venderne due.
Il famoso critico americano Otis Ferguson, incuriosito dal precoce interesse mio e di altri, per i quadri in movimento, ebbe a scrivere: “Ecco una cosa che né Lang né altri grandi della vecchia guardia sanno spiegare… Quando il cinema era ancora un’arte goffa, che faticava ad affermarsi, c’erano un po’ ovunque delle persone che in qualche modo sapevano che questo era il lavoro cui intendevano dedicarsi. Sicché, giunta la pace e sanate le ferite, Lang, laddove altri intellettuali perdevano tempo a farei i… bohémiens, si diresse dove avrebbe potuto trovare l’occasione per fare cinema.”.
Berlino era la capitale della cinematografia tedesca, e fu lì che andai. Ebbi la grande fortuna di lavorare con un uomo che aveva lavorato per società cinematografiche francesi e che aveva molti amici a Parigi: Eric Pommer. Durante il 1919-20 girai cinque o sei film, ma soltanto nel 1921 feci il film che per primo mi diede fama oltre i confini della Germania. Il film si intitolava Der müde Tod. Destiny in inglese; Les Trois lumières in francese. Ma forse questo film non avrebbe mai avuto risonanza mondiale senza il contributo della stampa francese.
E’ la storia di una giovane donna che lotta con la Morte in persona per salvare la vita dell’amato. Si spinge fino nel regno dei morti dove bruciano migliaia di candele le cui fiammelle rappresentano la vita degli esseri umani. Patteggia con la Morte il ritorno dell’amato citando il salmo di Salomone in cui si dice che l’amore è più forte della morte. La Morte, indicando tre mozziconi di candela che stanno quasi per esaurirsi, le offre tre opportunità per riavere l’amato se riuscirà a salvare una sola vita umana. La storia della lotta della ragazza per le tre vite, è raccontata in tre episodi, in cui lei vive rispettivamente tre vite diverse: nell’antica Bagdad, nella Venezia del XVII secolo e in una Cina fiabesca (“où il la transporte à travers les âges et lui fait chaque fois revivre son propre destin”, citazione da un giornale francese). Infine, avendo fallito per tre volte, la ragazza offre in cambio la sua stessa vita riunendosi con l’amato nella morte: l’amore non ha trionfato. La Morte è più forte dell’amore!.
Quando il film uscì in Germania, ricevette recensioni sfavorevoli. La stampa tedesca faceva della banale ironia, specialmente sul titolo Der müde Tod, storpiandolo in Der ermüdende Tod. I giornalisti tedeschi sarebbero passati sul corpo di chiunque pur di fare una battuta.
Il film rimase in programmazione a Berlino soltanto due settimane, ma quando uscì in Francia, la stampa, mi si conceda modestamente di dirlo, andò in delirio. La critica parigina – e si noti che erano trascorsi solo tre anni dalla fine della guerra – scrisse: “… lo spirito di Dürer e di Grünewald aleggia su questo film…”, e quando recensioni simili vennero diffuse in Germania, il film fu nuovamente programmato, questa volta rimanendo nelle sale per molti mesi, ed è generalmente conosciuto come “il primo film di Lang”.
I miei film successivi furono Dr. Mabuse del Spieler, Die Nibelungen, Metropolis, Spione, Frau im Mond. Tutti questi film ricevettero un’entusiastica accoglienza presso il pubblico e la critica francese.
Fu poi la volta del mio primo film sonoro, M, la storia di uno psicopatico, assassino di bambine, interpretato da Peter Lorre. A Parigi uscì con il titolo Le Maudit e solo recentemente ne è stata pubblicata la sceneggiatura, scritta dalla mia prima moglie Thea von Harbou e da me, in “L’Avant-scène du cinéma”. A proposito di questo film un giornale francese scrisse: “… un soggetto simile rischiava di offrirsi a un approccio di facile sensazionalismo…ma proprio qui emergono il tatto e il genio di Lang, che lo ha trattato rendendolo più significativo di qualsiasi racconto dell’orrore o documento… è la tragedia classica pura.”
Anche in questo caso devo modestamente dire che, stando a quanto si legge in molti articoli e saggi che lo riguardano, M è diventato il film classico.
Feci solo più un film prima del tragico avvento di Adolf Hitler. Da molti anni i produttori tedeschi mi avevano pregato di fare un altro film sul tipo del Dr. Mabuse. Da parte mia, stavo studiando un modo per rappresentare la mia avversione per la crescente violenza nazista e il mio odio per Adolf Hitler, così feci Das Testament des Dr. Mabuse. Misi in bocca a un pazzo criminale tutti gli slogan nazisti: “Dobbiamo terrorizzare la gente dicendo che finirà col perdere ogni autorità di cui si sente investita… finchè non si solleverà distruggendo il vecchio stato… per fare con noi un nuovo mondo. Sulle rovine dello stato distrutto noi creeremo il regno del crimine…”.
Il 2 di luglio di quest’anno (1966) il London Times ha scritto: “… è stato Fritz Lang a fare del film poliziesco un’arma politica”.
Girai una versione francese di Das Testament des Dr. Mabuse. Entrambe le versioni, quella tedesca e quella francese, vennero censurate dai nazisti.
Fui chiamato a presentarmi dinanzi a Goebbels presso il Ministero della Propaganda, dove – con mia grande sorpresa – appresi che Hitler aveva visto Metropolis e Die Nibelungen e, rimastone favorevolmente impressionato, aveva detto. “L’uomo che ha diretto questi film è colui che creerà per noi il Cinema Nazista”. Allora Goebbels mi offerse il posto di capo dell’industria cinematografica tedesca. Quella notte stessa abbandonai la Germania, lasciandovi tutto quanto possedevo, e fuggii a Parigi per risparmiarmi il «bacio della morte». L’incontro con Goebbels era durato da mezzogiorno fino alle 14,30 del pomeriggio, ora in cui le banche erano ormai chiuse e non avrei potuto prelevare del denaro. Ne avevo appena a sufficienza per comprare un biglietto per Parigi (…) e arrivai infatti alla Gare d du Nord senza un centesimo in tasca.
A Parigi mi incontrai con Erich Pommer che aveva lasciato la Germania qualche settimana prima di me. Alcuni amici riuscirono a farmi avere la «carte du travail» e diressi con Pommer, che rappresentava la French Fox Film Co., Liliom, tratto dalla commedia di Ferenc Molnar, con Charles Boyer e Madeleine Ozerey.
Lilion è una commedia tragica e, in America, ne erano stati tratti diversi film con scarso successo. Un dirigente americano, credo si trattasse di Sol Wurtzel, disse una volta. “Non mi piacciono i film in cui l’eroe muore a metà”. E forse anche il pubblico è della stessa opinione. Neppure il mio Liliom fu un grande successo. Fu anzi il mio primo fiasco di incassi. Tuttavia sono convinto sia il mio film migliore e ritengo che, se venisse nuovamente proiettato, oggi avrebbe un’accoglienza ben diversa.
E’ inutile dire che Erich Pommer e Charles Boyer ne furono delusi tanto quanto lo fui io. Pommer andò in Inghilterra e Boyer accettò l’offerta di andare in America. Quanto a me, non ricevetti altre offerte di fare film in Francia, cosa più che comprensibile dopo il fallimento di Liliom. Mi venne tuttavia proposto un contratto con la Metro Goldwyn Mayer e, a malincuore, lasciai la Francia per Hollywood.
Arrivai a Hollywood nel 1934. Divenni cittadino americano nel 1939.
Credendo, già allora, che il cinema non debba essere mero intrattenimento, diressi diversi film a sfondo sociologico (Fury, You Only Live Once. You and my Hunt, Hangmen Also Die, Ministry of Fear e nel 1945 Cloak and Dagger.
Allo scoppiare della Guerra in Europa, io avevo cinquant’anni ed ero troppo vecchio per essere richiamato, sicché con un gruppo di amici – la maggior parte dei quali sono già morti – lavorai per i movimenti clandestini tedeschi e, con l’aiuto di altri amici dell’OSS, per i partigiani della resistenza francese.
Continuai a fere film a Hollywood fino al 1957, quando mi venne offerto di fare un film in India. Era la prima volta che lasciavo gli Stati Uniti dal mio arrivo nel 1934.
Nel frattempo, credo fosse nel 1953, era stata fondata a Parigi una magnifica rivista di cinema, “Les Cahiers du cinéma”. Vi apparvero molti articoli favorevoli che riguardavano me e i miei film. Ciononostante non contemplavo ancora la possibilità di ritornare a Parigi. Me lo impediva una certa forma di insicurezza… Forse temevo che la Parigi del 1958-59 non fosse la stessa che avevo conosciuto e amato… O forse avevo paura che la Parigi che amavo esistesse soltanto nei miei sogni e nei miei ricordi.
E c’era anche qualcos’altro. Dopo aver lavorato per quarant’anni nell’industria cinematografica, avevo la sensazione che quanto avevo fatto fosse stato invano. Poteva trattarsi di amor proprio, ma anche della paura di un nuovo mezzo: la televisione aveva infatti costretto l’industria cinematografica hollywoodiana a cercare nuove vie al successo, per me inaccettabili.
Prima vennero i film tridimensionali, la cui maggior attrazione consisteva nel fatto che qualcuno scaraventava qualcosa verso il pubblico e il pubblico sobbalzava sulle poltrone. Poi l’industria tentò con una nuova dimensione dello schermo, il Cinemascope, di cui una volta dissi che non era fatto per gli esseri umani, ma per i serpenti, per i cortei funebri e per le marce militari: ma io non voglio mai più vedere militari marciare su nessun tipo di schermo.
L’unica via che i registi di Hollywood non tentarono fu quella di fare film migliori, di trattare temi che, nel frattempo, con la fine della guerra, si imponevano e che riguardavano un po’ tutti, ma specialmente le nuove generazioni. Io ricevevo ancora molte lettere di ammiratori come probabilmente accade a tutti coloro che lavorano nel cinema, e tuttavia, come dicevo prima, avevo la sensazione che quarant’anni di duro lavoro e di dedizione a un mezzo che sentivo tanto consono non mi avesse avvicinato alle persone che intendevo avvicinare, vale a dire alle nuove generazioni. Mi lasciai trascinare dalle circostanze e, disilluso, andai a fare film in Europa e in India finchè, un giorno, mentre mi trovavo a lavorare a Roma, ricevetti l’invito a recarmi a Parigi da parte di un’istituzione di cui avevo udito parlare e di cui sapevo ben poco, ovvero la Cinémathèque Française.
Avrei declinato l’invito, se non mi fosse stato rinnovato da un giovanotto francese che aveva acquistato uno dei miei film con l’intenzione di proiettarlo durante la serata inaugurale di una nuova sala.
Volai a Parigi e il pomeriggio di quello stesso giorno camminavo già per le vie di Montmartre. C’erano stati dei cambiamenti, naturalmente. Poi la prima sorpresa. Mi ricordavo di un negozio di antiquariato in una di quelle incantevoli strade, di fronte al quale c’era una volpe che, seduta sulle zampe posteriori, reggeva un vassoio su quelle anteriori: ed era ancora lì, col suo vassoio sulle zampe. Arrivai alla Place Cloche, scesi per i boulevards. Il Cirque Medrano non c’era più, ma c’era sempre il cabaret L’Enfer e il caffè dove sedevo con i miei amici quando era giunta la notizia dell’assassinio di Jaurès. Infine arrivai al ponte che attraversa il cimitero di Montmartre – dove è sepolto il poeta tedesco Heinrich Heine – nelle cui vicinanze c’era anche l’albergo dove vivevo nel 1914. Così, vidi molte cose cambiate, ma anche altrettanti luoghi sopravvissuti agli anni.
La sera venne proiettato il mio film e con mio grande stupore, una volta terminato, il pubblico mi chiamò a salire sul palcoscenico con grandi ovazioni. Ne ero sbalordito e lusingato, certo, ma non capii il motivo reale di quell’applauso fino al giorno seguente, quando la Cinémathèque Française diede un cocktail in mio onore all’Istituto pedagogico nazionale, in Rue d’Ulm. Lì incontrai molti amici con i quali avevo lavorato, fra i quali Madeleine Ozerey, identica ad allora, e fu come se gli ultimi venticinque anni non fossero trascorsi. Dopo il cocktail, la Cinémathèque Française proiettò il mio primo film americano, il mio film anti-linciaggio, Fury. Henri Langlois mi presentò al pubblico che gremiva la sala dicendo che io avevo contribuito più di qualunque altro regista al riconoscimento internazionale della cinematografia. Fury fu accolto con enorme entusiasmo, e sembrava che l’applauso non dovesse finire mai. Dopo la proiezione, i tre responsabili della Cinémathèque, Henri Langlois, Mary Merson, Lotte Eisner, e io, sedemmo a parlare fino all’alba. Mi dissero della nuova generazione di registi e dissero molte cose su di me e suoi miei film, che all’inizio stentavo a credere ma che nei giorni seguenti si rivelarono vere. Era nato, a Parigi, un movimento di giovani cineasti, la Nouvelle Vague, i cui esponenti dicevano di aver visto più volte i miei film, di averli studiati e di averne tratto molti insegnamenti.
Nei giorni seguenti la Cinémathèque proiettò ancora due o tre dei miei film americani e la sala era gremita di giovani.
Allora scoprii l’infondatezza del mio timore di aver lavorato invano e mi accorsi di avere ottenuto quello che avevo sempre sognato: vale a dire che i miei film mi sopravvivessero e che avessero presa sulle nuove generazioni, stimolando i giovani registi a continuare il lavoro da me iniziato. Ne fui profondamente commosso e felice.
Da allora in avanti, venni tutti gli anni, quando non due volte l’anno, a Parigi, trascorrendo le giornate con i miei amici della Cinémathèque Française e le sere con i giovani che venivano a vedere i miei film, prima proiettati nella sede originale della Cinémathèque, poi in quella nuova, il Palais Chaillot.
Quale piccolo segno della mia gratitudine, diedi alla Cinémathèque – per i suoi archivi e per eventuali manifestazioni – tutti i manoscritti dei miei film americani, dalla prima bozza fino alla sceneggiatura definitiva, tutti gli schizzi, la documentazione relativa, le copie dei miei film e così via.
Nel 1963, mentre stavo lavorando a Monaco, venne a trovarmi Jean-Luc Godard, il giovane cineasta più promettente della Nouvelle Vague. Voleva che interpretassi me stesso, il regista Fritz Lang, in un film con Brigitte Bardot, tratto dal romanzo Il disprezzo di Moravia. Accettai l’offerta e girammo il film a Roma e a Capri. Jean-Luc Godard interpretava nel film il ruolo del mio assistente, a dimostrazione della stima che aveva per me…
Due volte, nel 1964 e nel 1966, venni invitato a far parte della giuria del Festival internazionale del cinema di Cannes. Nel 1964 mi fu concesso l’onore di essere eletto all’unanimità presidente della giuria.
Dopo tutto questo, potete ancor dubitare che io ami Parigi profondamente?.
(biografia autografa di Fritz Lang scritta nella seconda metà degli anni ’60)
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