Uno degli effetti deleteri della globalizzazione, termine troppo spesso abusato per spiegare ogni fenomeno, è la cosiddetta globalizzazione della criminalità, che facendo leva su individui e persone ha riportato in voga il fenomeno della schiavitù, favorito soprattutto dal dislivello tra Paesi economicamente avvantaggiati e Paesi sottosviluppati e/o in fase di sviluppo.
Nella maggior parte dei casi le forme contemporanee di schiavitù rientrano in tre categorie principali: la compravendita di esseri umani, la servitù da debito e il lavoro forzato, accomunati dal totale controllo di una persona su un’altra a scopo di sfruttamento economico, sia nell’ambito della sfera sessuale sia nella produzione di merci e servizi.
I dati diffusi da Amnesty International sono preoccupanti e, proprio sotto il patrocinio dell’associazione e di Articolo 21, a Venezia per Controcampo Eventi sarà presentato stasera alla stampa e domani al pubblico – in una giornata legata ai diritti di libertà in cui si programma anche This is not a film di Panahi – il nuovo lavoro della regista Barbara Cupisti, Io sono. Storie di schiavitù.
Spiegare chi è Barbara Cupisti è quasi ininfluente, molti titoli interpretati come attrice soprattutto nei noir italiani e due regie alle spalle che l’hanno imposta sullo scenario internazionale: Madri e Vietato sognare, due documentari amati da critica e pubblico. Basta consultare le schede dei due lavori presenti nel database di Film.Tv.it per rendersi conto di cosa si parli: 4 stelle e molti premi alle spalle, tra cui un David di Donatello nel 2008.
Ho avuto la possibilità di sentire telefonicamente Barbara e questo è il resoconto esclusivo di una lunga chiacchierata, riassunta per doveri di spazio.
Io sono. Storie di schiavitù (2011)
di Barbara Cupisti
Io sono. Sin dal titolo il tuo film riporta l’attenzione sul concetto di uguaglianza, sull’annullamento di ogni forma di discriminazione, come a voler ricordare che ciò che abbiamo davanti agli occhi è qualcosa di universale che pone tutti sullo stesso piano.
"Io sono" nasce proprio da quello. È la riscoperta di noi stessi, delle nostre origini. Non si tratta di guardare ai casi raccontati come “fenomeni”. Semmai, si tratta di guardare l’altro nella propria essenza, come essere umano. Ricordiamoci che, prima di loro, immigrati lo siamo stati anche noi ed è una storia che si ripete: pensiamo per un attimo, prendendo le debite distanze, che 100/150 anni lo stesso destino è toccato anche a parte di Italiani che dopo aver attraversato l’oceano si ritrovavano sfruttati dalle forze lavoro del Paese di destinazione. Mi ricordo che proprio in una città in cui mi sono soffermata (Crotone) gli anziani erano commossi dal rivedere i loro antenati, le loro storie, nei giovani immigrati: rivedevano sogni, speranze, illusioni, delusioni e sconfitte.
Avrei potuto chiamare il film “Storie di ordinaria schiavitù” per quanto sia radicato il processo: gente che lascia la propria famiglia, i propri affetti, la propria vita coltivando l’illusione di un futuro migliore, spesso allettati dalle proposte di chi gestisce questo traffico d’anime. I dati dell'osservatorio mondiale sono angoscianti: donne, uomini e bambini, senza alcuna distinzione, reclutati in massa e ridotti senza possibilità di arbitrio, senza dignità e senza speranza.
Per raccontare le immagini hai scelto di farti accompagnare dalle parole della poesia “Profezia” di Pier Paolo Pasolini.
Uso frasi “volanti” di “Profezia” perché, senza nessuna costruzione a tavolino, mi sono ritrovata totalmente nelle parole del testo. Pasolini era un genio della politica e prima di ogni altro ha avuto la straordinaria capacità di intuire che direzione avrebbero preso le cose fornendo uno sguardo lucido sulla realtà, come se avesse tracciato ante litteram una mappatura della situazione.
"Essi sempre umili essi sempre debolii
essi sempre timidi essi sempre iinfimi
essi sempre colpevollii essi sempre sudditi
essi sempre piccoli essi che non vollero mai sapere
essi che ebbero occhi solo per implorare
essi che vissero come assassini sotto terra
essi che vissero come banditi in fondo al mare
essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo
essi che si costruirono leggi fuori dalla legge
essi che si adattarono a un mondo sotto il mondo.."
E non è la sola coincidenza. Nel girare il mio lavoro ho fatto tappa soprattutto al Sud Italia, soffermandomi a Crotone, Napoli e Roma, dove ho raccolto le storie. Sono stata anche a Lecce ma ciò che ho documentato lì mi ha portato su un’altra strada che spero di percorrere e approfondire presto… Chi conosce l’intero testo di “Profezia” ricorda sicuramente che si dice “Da Crotone o Palmi saliranno/a Napoli […]”: un chiaro segno del destino. Da lì la scelta di inframmezzare il racconto con i versi.
A lavoro ultimato è, poi, arrivato il sostegno di Amnesty International.
Quello con Amnesty è un rapporto d’amore che ormai va avanti da tempo. Ciò che maggiormente li ha colpiti e che spiazzerà anche lo spettatore è che ho dato la stessa importanza e lo stesso valore ad ogni storia. Ho messo sullo stesso piano anche situazione opposte, in un montaggio che definirei “folle”: accanto al minore egiziano che lavora tutto il giorno per aiutare il padre, ho inserito ad esempio la storia della trans brasiliana, che vive rinchiusa nel proprio appartamento, sulla strada di sera e drogata dai suoi aguzzini con gocce di psicofarmaci per non tentare di scappare. E, a proposito, ho incontrato una realtà disarmante: la scelta di inserire anche il racconto della trans non è stata fatta per fini “scandalistici”. Consultando le varie associazioni che aiutano i nuovi “schiavi”, mi sono resa conto che esistono discriminazioni anche tra i discriminati. Mi sono sentita dire che le trans non rientrano nelle categorie da aiutare perché sono uomini e sono consapevoli di quello che dovranno andare a fare nei Paesi in cui arriveranno. La realtà, invece, è molto diversa: sono sì consapevoli di dover prostituirsi ma non delle condizioni disumane che le aspettano.
Quindi, immagino che tu non ti sia fermata ad intervistare gente che veniva solo dai Paesi africani.
Esatto. Il mio è uno sguardo a 360°, anche perché quando inizio un lavoro non ho mai uno schema da seguire. Non capisco, infatti, quelli che nel preparare un documentario si presentano dai produttori con una sinossi in mano. Il documentario è qualcosa sempre in fieri, hai l’idea di partenza ma non sai mai dove ti porterà, cosa incontrerai o chi attirerà la tua attenzione. Gli unici Paesi di provenienza che ho escluso a priori, per scelta, sono i Paesi dell’est. Ma non per discriminazione, sarei caduta nell’errore di certe associazioni. L’esclusione è stata dettata dal fatto che diventava difficile capire cosa ci fosse di vero o cosa ci fosse di romanzato, di fiction. E, inoltre, mi sono soffermata solo su storie in essere: sono le uniche che fotografano lo status quo, un mondo parallelo che vediamo e non osserviamo mai a fondo. Le storie e le esperienze concluse sono viste poi da un’altra prospettiva differente da chi le ha vissute: sono state maturate e assorbite, hanno assunto nuovi significati e non rispecchierebbero la realtà.
Quanto è difficile realizzare un documentario del genere?
Ti rispondo citando una frase contenuta proprio nel film di Panahi, This is not a film: non esistono limitazioni ma le limitazioni fanno il film. La difficoltà maggiore è stata entrare nei centri di accoglienza. Ad esempio, il ministro Maroni ci aveva dato inizialmente la possibilità di girare all’interno del centro Sant’Anna, a Crotone. Prima che iniziassero le riprese, le autorizzazioni sono state revocate senza alcuna spiegazione. Chi vedrà il film, assisterà a qualcosa di unico al riguardo: abbiamo una documentazione vera, il cui unico filtro è lo sguardo di chi lì dentro vive. Non vi posso raccontare come ci sono riuscita ma ciò che si vedrà sono immagini mai viste prima e non potrebbe esistere niente di più reale e attinente al vero.
Altre limitazioni poi arrivano dalle storie raccontate. Ci sono persone di cui non posso mostrare i volti ma, poiché non mi piace ricorrere a soluzioni visive usate e abusate mille volte, sono ricorsa ai particolari. Niente bui, ad esempio, né tantomeno voci camuffate: in quei casi, mostro solo particolari fisici: bocche, mani, spalle. Non posso permettermi di mettere a repentaglio la vita di chi, come nel caso delle trans brasiliane, ha denunciato i propri sfruttatori e vive sotto protezione grazie all’intercessione e al supporto di Articolo 21. Di necessità, virtù: non saranno però immagini spoglie, è difficile da raccontare a parole. Lavoro molto di montaggio e devo ringraziare la mia montatrice Erika Manoni: quanti giorni e notte passate in sala montaggio, a discutere, litigare, trovare punti di contatto…
Mi riallaccio alle tue ultime parole per chiederti che tipo di rapporto hai con i tuoi collaboratori?
Bisognerebbe rivolgere la domanda a loro. Vedi, ho sempre pensato che il mio lavoro dovesse coinvolgere a pieno tutti coloro che vi sono impegnati. Accetto soluzioni e punti di vista, ridiscuto con loro le mie idee. Una specie di brain storming continuo da cui nascono nuovi percorsi e nuove alternative. Mai avuto un atteggiamento di chiusura o da despota. Come ti dicevo, lavoro soprattutto in sala di montaggio: potrei trascorrere una vita intera a rimontare il girato e di conseguenza il rapporto con chi mi è accanto deve essere solido. E la stessa cosa dicasi con i musicisti che lavorano all’accompagnamento musicale. Oltre alla citata Erika Manoni per il montaggio, per Io sono ho avuto la fortuna di avere a fianco anche due giovani musicisti che hanno colto al volo le mie esigenze. Ad esempio, avevo l’esigenza di utilizzare come suono qualcosa che ricordasse le vecchie milonghe per ricordare il tango dei poveri, creando un invisibile fil rouge con i nostri antenati, e Rudy Gnutti, un italiano che vive a Barcellona, è riuscito a creare qualcosa di raro che va al di là dell’ispirazione etnica. Così come l’altro musicista, Vittorio Giannelli, un ricercatore di suoni, è riuscito a creare un “paddone” di suoni che non ha eguali e che spiazza anche me.
Dopo Venezia, quale sarà il percorso di “Io sono”. Non è facile per un documentario uscire fuori dai circuiti dei festival e trovare distribuzione in sala, nell’home video o in televisione.
“Io sono” ha la fortuna di essere stato prodotto da Rai Cinema e questo dovrebbe consentire una marcia in più per la visibilità. Venezia, ad esempio, è una grande vetrina per il genere, dà a critica – il cui parere è fondamentale per capire dove si sbaglia o meno e poter in futuro correggere il tiro - e pubblico – altrettanto fondamentale perché senza l’apprezzamento del pubblico il mio lavoro non avrebbe senso - la possibilità di vedere qualcosa che spesso rimane invisibile o che viene maltrattato. Un documentario non ha il percorso degli altri film, questo perché nel nostro Paese manca l’approccio giusto al genere. Sarebbe meglio dire che è venuto a mancare l’approccio giusto a tutto il mondo del cinema. Si tende a guardare al profitto, all’incasso e la ricerca dei pochi fondi che servono non è una passeggiata. Potevo essere in Concorso, Marco [Muller, il direttore del Festival] me lo ha proposto, ma ho rifiutato l’idea: con quali criteri si può giudicare un documentario su storie vere con film di finzione?
Come ti dicevo, "Io sono" rientra in una serie di tre progetti che porterò avanti con la Rai e presto dovrebbe andare in onda su Raitre, con la speranza di non vederlo mortificato in orario notturno o tagliato di venti minuti come accaduto di recente con “Madri”: ho spento la tv per il senso di sconforto che ne è conseguito. Nessuna polemica con chi lo ha trasmesso: ognuno ha il diritto di fare le scelte che ritiene più giuste. Solo sconforto per vedere fino a che punto è arrivato il Paese che con i suoi maestri ha fatto grande il cinema.
Aggiungo anche che, grazie al circuito Ichnos, il film ha la possibilità di raggiungere in questi giorni anche le sale, soprattutto del Sud Italia e questo mi permette casualmente di aprire un’altra parentesi. A volte, penso di essere una leghista del Sud: mi rendo conto che il risveglio culturale dell’Italia sta ripartendo proprio dal Sud Italia. Mi riconosco nei sapori del Mediterraneo, è la culla delle nostre origini e se guardiamo quello che è successo nei Paesi nordafricani, le varie rivoluzioni e il fermento attivista, ci rendiamo conto che è già ripartita la scoperta delle origini, della riappropriazione delle ricchezze difficilmente ricopiabili. È come se ci stesse risvegliando da anni di torpore, di laissez-fairismo.
Leggo su Imdb che, dopo anni di assenza dall’altro lato della macchina da presa, tornerai nuovamente a far l’attrice per un film inglese. È l’unico progetto all’orizzonte?
È vero. Dopo un po’ di tempo, ritorno a recitare in un thriller inglese del regista Darren Ward, il cui titolo provvisorio è Beyond Fury e il merito è della riscoperta internazionale di un certo tipo di cinema spesso poco considerato in Italia. Dopo avermi visto nei film di Lenzi, Soavi e Argento, il regista mi ha voluto come attrice protagonista e non ho saputo dire di no, causa anche l’amicizia con Giovanni Lombardo Radice, che sarà il mio compagno di set. La cosa mi ha sorpreso, così come mi ha sorpreso sapere che Quentin Tarantino è uno dei miei più grandi estimatori, anche se ciò non è una novità, considerando la passione che ha per il nostro cinema degli Anni Settanta e Ottanta, quello guardato dall’alto verso in basso.
Ritornare da attrice sul set è stata una scelta consapevole: dopo anni di esilio volontario, sentivo l’esigenza di ridarmi al pubblico e di indossare un’altra vita che non fosse la mia. Credo che il lavoro di attore in Italia abbia bisogno di una scossa: ci si sta adagiando troppo sul personaggio, con gente che ripete all’infinito il ruolo che ha meglio interpretato, negandosi la possibilità più grande che offre questo mestiere: entrare in infinite psicologie, adottare punti di vista inesplorati, vivere altre vite per aprirsi anche mentalmente. Penso ad esempio ad attori che, secondo me, vivono in maniera frustrante la professione e penso invece ad altri che potrebbero avere infinite possibilità che i produttori, causa lo spauracchio dell’incasso, non usano al meglio. Due nomi che mi vengono in mente sono quelli di Sergio Castellitto e di Ennio Fantastichini: due attori straordinari ma spesso sottoutilizzati.
Di chi è la colpa? Nostra, intendendo con “noi” l’Italia intera, incapace di uscir fuori da una depressione serpeggiante. Se in Francia si riproponesse lo stesso personaggio in mille salse differenti, il pubblico insorgerebbe. Da noi, invece, ci si adagia e nessuno sente l’esigenza di dire “basta”. I giovani stessi, che dovrebbero essere il motore del cambiamento, sono assopiti culturalmente, non hanno stimoli e necessitano di una guida che dia loro una scossa. E non credo si tratti solo di una conseguenza dell’attuale situazione politica.
Poi, ritorno presto dietro la macchina da presa: ti dicevo che ho altri due progetti con la Rai. Il prossimo, ad esempio, sarà incentrato sulla cultura Rom per esplorare qualcosa in cui convivono mille luoghi comuni. Girerò vicino Skopje, in una località cara a Emir Kusturica, dove esiste un’intera amministrazione Rom in bilico tra tradizione e modernità per dimostrare che non tutto quello che diciamo “noi” è “giusto”. Forse mi ricollegherò anche alla situazione spagnola, dove grazie alla grande elasticità mentale convivono iberici e gitani.
Per concludere, hai un modello di riferimento o un regista preferito?
Possiamo lasciare il finale come quello di "Io sono"? Non chiudiamo nessun cerchio, lasciamo tutto sospeso!
In verità, non so risponderti: sono onnivora, guardo di tutto e cerco di non farmi influenzare dal giudizio imperante degli altri. Mi piace certa contemporaneità americana, i nostri grandi maestri ma anche i film fantasy, per esempio.
Se proprio vuoi un nome, dico Iñárritu: per il modo di raccontare le storie, per la secchezza delle immagini, per la mancanza di orpelli e l’assenza di compiacimento. E, soprattutto, per il modo di fotografare la realtà, quasi documentaristico.
E a quando un lungometraggio narrativo?
Mai dire mai. Ci penso da tempo ma non ho voglia di scrivere una sceneggiatura! Mi guida sempre l'istinto, parto da una cosa e ne filmo poi un'altra. Non so stare molto legata a degli schemi prefissati!
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