Provare a parlare di Quando la notte di Cristina Comencini in questi giorni è rischioso, non si sa che piega prendere. A seguire le indicazioni della critica presente a Venezia si è di fronte a uno scatafascio totale in cui non si salva nulla, né gli attori né la splendida fotografia che restituisce Macugnaga e il Monte Rosa. A seguire, invece, le percezioni del pubblico si è di fronte a un film riuscito, degno di 8 minuti di applausi alla prima proiezione.
Tratto dall'omonimo romanzo della regista e riadattato per lo schermo trasformando i due monologhi contenuti nella storia interpretata da Claudia Pandolfi e Filippo Timi, la pellicola racconta di varie cose e non solo di maternità, come in molti si sono ostinati a sottolineare, focalizzando l'attenzione su uno degli aspetti.
Per riportare gli equilibri a un grado zero e per capire meglio di cosa si parla, ecco qui di seguito tre video: due clip tratte dal film e il backstage ufficiale in cui il cast ci racconta il film.
Ad accompagnare il tutto, le interviste ai diretti interessati.
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CRISTINA COMENCINI
Il film
Quando la notte è stato il mio film più faticoso. È stato girato in montagna ad alta quota, siamo stati lì dalla preparazione alle riprese per quasi 7 mesi e abbiamo girato in condizioni climatiche estreme, in luoghi irraggiungibili se non a piedi o con l’elicottero. È stata una grande fatica soprattutto nella parte invernale: eravamo fuori 8-9 ore al freddo (sul Monte Moro, dove è ambientato il finale del film, la temperatura ha toccato i meno 17 gradi!) senza poterci riparare e senza muoverci, perché una volta raggiunto il posto bisognava, come sempre accade nel cinema, aspettare il momento giusto per poter girare. Credo che l’interazione fortissima, quasi violenta, con la natura, sia finita in qualche modo nel film e gli ha dato una potenza che va al di là del racconto.
Macugnaga
Nessun film era stato mai girato a Macugnaga. Il Monte Rosa è una montagna bellissima, comunica con il paese e lo sovrasta. Abbiamo avuto l’aiuto delle guide, in particolare di Gianni Tagliaferri, che è stato con noi tutto il tempo; ci ha accompagnato nei sopralluoghi ed ha aiutato Filippo Timi a diventare una guida, insegnandogli a camminare in montagna. Ha aiutato anche noi a evitare cadute, in particolare in una scena complicatissima in cui Claudia doveva correre su un crinale stretto e l’operatore e lo steadycam avanzavano o indietreggiavano uno alla volta perché non potevano starci più persone insieme. Ci è stato veramente molto vicino, così come gli uomini della funivia, che poi hanno interpretato loro stessi. Anche nella scena della festa abbiamo scelto persone del paese, con il loro accento e il loro modo di parlare. C’è stata un’integrazione molto forte tra cinema e luogo. Il film è il testimone di questo legame.
I luoghi
I posti molto belli scelti insieme a Giancarlo Basili, lo scenografo, erano difficilissimi da raggiungere. Per raggiungere le location ci siamo spostati in elicottero, jeep, funivie e seggiovie… Posti eccezionali, come quelli in cui abbiamo girato, fanno avanzare la tecnica cinematografica, sei continuamente messo alla prova. Abbiamo fatto tutti un’esperienza straordinaria, nonostante i giorni di scoramento e stanchezza, quelli in cui rimpiangevamo un cinema o un’uscita la sera, e quelli in cui era difficile alzarci la mattina, quando era ancora buio e faceva un freddo insopportabile. Ma il cinema è anche questo. Anche gli attori sono rimasti molto coinvolti dal paese e dalla montagna. È come se i sentimenti difficili del film, le loro emozioni, avessero trovato il luogo migliore per essere interpretati.
I bambini
Per il ruolo di Marco abbiamo scelto tre gemellini di due anni: Gianluca, Vincenzo e Leonardo che si sono alternati sulla scena. A quell’età è quasi impossibile dirigerli: fanno quello che vogliono e bisogna ricorrere a dei trucchi. Avevano caratteri molto diversi: c’era l’avventuroso, quello che piangeva di più e quello con il temperamento più dolce. Nei film di mio padre ci sono molti bambini, anche se più grandi del nostro, ed ho imparato da lui che bisogna rimanere il più possibile nascosti, trovare modi per coprire la macchina da presa. Abbiamo creato delle pareti con dei tessuti in modo che il bambino non ci vedesse. Poi, con il passare del tempo, ci siamo resi conto che si erano abituati alla nostra presenza, non eravamo più oggetto di curiosità e si disinteressavano completamente della macchina da presa. Una volta il bambino ha chiamato “mamma” Claudia.
La storia
Quando scrivo un libro non penso che sarà mai un film, è solo un romanzo. Uno degli aspetti che più mi preoccupava per la trasposizione cinematografica di Quando la notte era lo stile a monologhi interiori del libro: è la storia di un uomo e una donna che non si conoscono e, per capire chi è l’altro, si ascoltano e si pensano. Questo ovviamente al cinema non poteva essere fatto. Con Doriana Leondeff abbiamo paradossalmente ridato l’interiorità del libro con uno stile totalmente oggettivo. Abbiamo usato quello che il cinema può offrire al meglio e cioè la possibilità di restituire il silenzio, gli sguardi o il lento e reciproco osservarsi e desiderarsi. Un altro aspetto che il film ha permesso di potenziare è la montagna:la forza, la roccia, il freddo, il ghiaccio.
I sentimenti
Quando la notte è una storia sulle differenze profonde tra l’uomo e la donna congiunte da un bambino. Manfred, abbandonato dalla madre da piccolo, è un uomo cresciuto in un mondo di uomini (il padre e i suoi due fratelli) e prova un grande risentimento nei confronti delle donne. Marina è una giovane donna in vacanza con il suo bambino, senza un uomo in grado di capire la sua solitudine e i sentimenti ambivalenti di amore e violenza che sente per il figlio. Manfred paradossalmente sarà l’unico in grado di conoscerla perché ha sofferto l’abbandono della madre e non da per scontato l’amore materno.
Il rapporto con l’altro, con il diverso da sé è rappresentato nel film dalle due funivie che vengono da due posti opposti, e si incrociano per un attimo. Io credo che proprio dalla differenza tra gli uomini e le donne nasca il contrasto forte, la paura, l’ambivalenza, ma anche il desiderio e una possibile, miracolosa comprensione.
Gli attori
Claudia Pandolfi e Filippo Timi hanno fatto il primo provino insieme, anzi il primo provino in assoluto che ho fatto per il ruolo di Marina e Manfred. Avrei potuto anche fermarmi lì e prenderli, ma come tutti i registi ho mille dubbi, così ho fatto molti altri provini ad attrici e attori bravissimi, però per età e per carattere loro erano perfetti.
Anche gli altri attori, da Thomas Trabacchi e Denis Fasolo, che interpretano i fratelli di Manfred, a Michela Cescon, che interpreta Bianca, sono autentici nel loro ruolo.
Credo di avere messo a dura prova gli attori, in particolare i protagonisti. Li ho diretti con idee precise di movimenti e azioni, forse all’inizio si sono sentiti chiusi in questa volontà artistica. È un po’ il mio modo di lavorare con gli attori e con la macchina da presa, non credo enormemente nella spontaneità, né al cinema né nella creatività in generale.
La troupe
Uno dei compiti più importanti del regista è quello di coinvolgere le persone e fare in modo che ognuna dia il meglio di sé: tutti devono conoscere il film e devono dare il loro apporto. È stata una troupe fantastica. Ho avuto un grandissimo aiuto da tutto il reparto fotografia, sia dall’operatore Fabrizio Vicari, che è stato accanto a me continuamente, ha capito il film alla perfezione dimostrandosi molto duttile, sia, ovviamente, da Italo Petriccione. Italo è un bravissimo direttore della fotografia. La fotografia del film è piena di atmosfera: la roccia splendente, quasi ghiacciata dal sole; gli interni angoscianti e le notti illuminate dalla montagna.
Abbiamo lavorato molto su questa doppia immagine del film: estate e inverno, passato e presente, luce e notte. Tecnicamente abbiamo usato obbiettivi più stretti per la parte estiva e grandangoli per quella invernale; e inoltre tutta la prima parte è girata con la macchina a mano, una macchina a mano che però non si sente, è morbida e ferma. I costumi di Francesca Sartori sono autentici, precisi, integrati nella natura e nel paese e danno il carattere dei personaggi.
Quanto il tempo meteorologico ha influito sulla lavorazione?
Abbiamo avuto due problemi centrali durante le riprese: uno era “Che tempo farà?” e l’altro “Potremo fare queste scene?”. Prima volevamo il sole, poi la pioggia e il grigio, e infine la neve. Sandra Bonacchi, l’organizzatrice del film, era costantemente in comunicazione con un nostro consulente meteorologico che ci dava tutte le informazioni in tempo reale. Dovevamo essere sempre pronti a girare tutto, per cui anche la scenografia doveva avere tutti i set pronti in modo da poter cambiare in un attimo. L’unità di luogo ci ha favoriti, rendendo possibili i cambiamenti e facendoci risparmiare molto tempo. La scena in cui avviene l’incidente del bambino era difficilissima da fare perché si svolgeva in continuità sempre nella stessa casa, con il passaggio del tempo e senza altre scene fuori. Dovevamo passare dal pomeriggio alla sera andando avanti con la luce esterna calante, per arrivare al buio dentro casa e un ultimo lucore fuori, il tutto accompagnato sempre da una pioggia battente ricreata grazie alla costruzione intorno alle finestre di cannule da cui cadeva l’acqua sui vetri. C’è stato un grande combattimento: pioggia vera, pioggia finta, sole e nebbia.
Un altro aspetto era il freddo: cercavamo di coprirci il più possibile, dalle scarpe agli scaldini, ma non c’è niente che ti difende completamente dal freddo, se devi stare fermo ad aspettare il ciak, dovevamo solo riuscire a sopportarlo!
La casa
La casa di Manfred è centrale nella storia: non è solo il luogo in cui avviene l’incidente, ma anche il luogo in cui due sconosciuti iniziano ad ascoltarsi e ad osservarsi.
Quando siamo andati a fare i sopralluogo, Basili ed io avevamo in mente una casa molto isolata e vecchia, anche un po’ triste. Quella che abbiamo scelto possedeva già molte delle caratteristiche necessarie, le altre le abbiamo ricreate, abbiamo piantato degli alberi perché fosse più isolata. Alla fine quello che ci ha convinti a sceglierla era il fatto che fosse tutta nostra, che potevamo girare il piano di sotto e quello di sopra in alternativa a seconda dei cambiamenti del tempo. Inoltre è una casa che ha una grandissima atmosfera; dà un senso di tristezza e di abbandono. È la casa in cui Manfred ha vissuto con la moglie che se n’è andata con i bambini e dove lui è rimasto solo. Il luogo ideale per raccontare l’incontro tra due solitudini.
Il rifugio
Il rifugio era raggiungibile solo in elicottero, lì abbiamo girato tutti gli esterni e qualche interno. Dovevamo girare una scena molto importante, quella della scazzottata notturna tra fratelli nel giorno della festa, ma gli elicotteri non viaggiano di notte. Non sapevamo come fare, alla fine abbiamo deciso di passare la notte svegli perché le camere non bastavano per tutti. Prima abbiamo girato la scazzottata, e poi ci siamo radunati tutti per vedere l’alba sul Monte Rosa, uno spettacolo pazzesco, da lontano arrivava il rumore dell’elicottero che ci veniva a riprendere.
La produzione
Questo film ha richiesto un impegno produttivo notevole e sia Riccardo Tozzi, il produttore, che Gina Gardini, la delegata alla produzione, Sandra Bonacchi e Beppe Serra si sono spesi moltissimo affinché tutto andasse per il meglio. L’ottimizzazione di un film girato in quelle condizioni ha bisogno di grandissima organizzazione e capacità ideative sia in fase di stesura che in fase di realizzazione. L’appoggio di Cattleya è stato totale.
Il copione
È bello modificare un po’ i copioni quando arrivi nei posti; io l’ho fatto anche se non nelle sue linee essenziali. Ad esempio ho scoperto che a Macugnaga vive una comunità, i Valser, che ha una sua lingua e viene dalla Svizzera. Accanto alla chiesa antica c’è un grande tiglio del 1200 che per loro è sacro; attorno a questa chiesa abbiamo deciso di girare la processione. Sono venuti tutti, donne, uomini e bambini, vestiti con i loro costumi tradizionali. Ci hanno anche dato una Madonna del trecento che è portata dalle donne nella processione, a testimonianza della grande forza femminile di questa comunità.
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CLAUDIA PANDOLFI (Marina)
Cosa ti ha colpito di questo film?
Il primo impatto è stato con la storia, ovviamente, che ho conosciuto attraverso il libro. Ho capito subito che avrei avuto la possibilità di interpretare un personaggio molto crudo, senza sovrastrutture. Il libro stesso non ha sovrastrutture narrative, ma è un alternarsi di dialoghi attraverso cui si racconta la storia e il rapporto telepatico tra i suoi protagonisti: Marina e Manfred. Era difficile tradurlo in parole per cui abbiamo avuto bisogno di posti imponenti, come la montagna, che – sarà perché sono romana – mi è arrivata addosso come un macigno, un impatto fortissimo. Girare ad una temperatura così rigida non è facile. Le condizioni erano davvero estreme. Io credevo di essere agile, ma questo film è stato una specie di olimpiade, un’olimpiade emotiva e fisica; e credo che Cristina, alla quale mi sono completamente affidata, volesse proprio questo dal film.
Com’è stato lavorare con i bambini?
Per interpretare mio figlio sono stati chiamati tre fratellini ed io sono diventata subito una “tata” per loro, agevolata anche dal fatto che vivevamo nello stesso piccolo microcosmo e quindi era facile incontrarli anche fuori dal set. Tutta questa fase preparatoria, però, è stata completamente stravolta dalla personalità dei bimbi che è uscita fuori a caso nel corso delle giornate: ad esempio pensavamo che uno dei bambini fosse più tranquillo e quindi destinato a fare delle scene particolari, ma in realtà non si è rivelato così. Mentre cercavamo di esplorare le loro risorse di volta in volta, loro ci hanno regalato delle sorprese e dei momenti commoventi. Sarà che sono mamma di un bimbo di quattro anni, ma avere questi tre bambini da poter coccolare è stato fondamentale e bellissimo. In questo film siamo stati tutti un po’ esiliati, era difficile relazionarci con la vita di sempre e allora ho fatto il più classico dei transfert d’affetto: ho passato l’amore di cui avevo bisogno, quello di mio figlio, sui tre bambini del film.
Ad un certo punto ho pensato che Cristina volesse trattenere la mia vitalità, così come la vita aveva fatto con Marina, che il suo lavoro fosse finemente psicologico e questo è stato molto stimolante per me. Se c’è una cosa che mi piace è essere diretta a tutto tondo, quindi non solo la recitazione, ma anche il mio corpo, le mie parole e la mia testa erano in qualche modo instradate da Cristina.
E questo posto quanto ha influito sul tuo stato d’animo?
Questo isolamento mi ha reso malinconica più spesso di quanto io lo sia abitualmente. La montagna, come avviene nella storia del film, è diventata claustrofobica. Le fasi della ripresa sembravano corrispondere alle fasi che vivono i personaggi, al loro umore: Marina arriva in questo posto d’estate piena di buone intenzioni e poi scopre che la sua indole prende il sopravvento e questo posto non la aiuta di certo.
Per girare il film ti sei allenata?
No, non mi sono allenata e infatti la sera ero stanchissima. C’è una parte del film in cui corro sempre, in salita, con lo zaino, con l’aria rarefatta della montagna. Tutti i miei anni da ginnasta mi hanno aiutato. È stata un’esperienza completamente nuova anche dal punto di vista muscolare. Tutto questo fa parte della magia di questo lavoro, che ti permette di avere esperienze assolutamente inconsuete, compreso quella di andare la mattina sul set con l’elicottero… incredibile!
Con Filippo come ti sei trovata?
Non ci conoscevamo, e quando sono entrata nella stanza del provino, Cristina ci ha subito messi in scena entrambi, senza chiacchiere né preamboli. E questo è stato un po’ l’atteggiamento che abbiamo avuto durante tutta la lavorazione del film.
Con Filippo mi sono trovata subito complice e partecipe; dentro di noi l’abbiamo sempre saputo che ci ha scelti perché siamo un po’ due cavalli matti. Cristina avrebbe dovuto imbrigliarci, però, allo stesso tempo secondo me, era felice di tenerci così; se hai due bestioline già domate il tuo lavoro è quasi vano, invece in noi ha trovato qualcosa da dover gestire sempre. Filippo poi è una persona complessa e, quindi, bellissima; ha milioni di sfumature, riesce ad essere leggerissimo e a giocare come uno stupido, ma anche ad approfondire le cose, la vita, la conoscenza del mondo in maniera sensazionale. È una persona molto intensa e un compagno di lavoro pazzo ma rispettosissimo, insomma questo essere così istrionico mi ha subito affascinata.
Vi siete fatti parecchie risate insieme?
Abbiamo trovato lo spazio per sorridere e ridere, poi stando per più di due mesi confinati in montagna si scoprono tante cose l’uno dell’altro.
La storia
La prima parte è estate, Marina e Manfred si incontrano. Lei è una ragazza giovane, fresca, addirittura troppo spensierata agli occhi di lui. Invece quando si rincontrano, nella seconda parte del film, sono passati diversi anni e la stagione è completamente opposta, siamo in inverno. Loro sono un po’ invecchiati, però ciò che rimane assolutamente giovane è il momento in cui si sono separati: per certi versi è come se quel tempo non fosse mai passato.
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FILIPPO TIMI (Manfred)
Come ti sei preparato a girare il film?
Ho re-imparato a camminare. Sono andato a Macugnaga il 20 agosto e insieme a Gianni, la nostra vera guida, e Francesca, la nostra aiuto regista, abbiamo camminato per ore. Lì ho capito che la montagna esige un modo tutto suo di scendere, salire, mettere le braccia e appoggiare le ginocchia e il peso. Ho scoperto un mondo grazie al quale entrare in confronto con la sacralità e la potenza della montagna; di fronte ad un colosso, che è il Monte Rosa, ti senti veramente minuscolo.
I primi contatti con il luogo sono stati entusiasmanti, poi, invece, è subentrata la chiusura, nel senso che siamo stati per più di tre mesi in questo piccolo paesino concentrati solo sul film. È arrivato il freddo, ma non quello che serviva per andare avanti nelle riprese. Ci sono stati giorni di attesa in cui eravamo truccati, preparati, con le battute pronte senza sapere se avremmo girato o no. Quindi ci siamo fermati per aspettare l’arrivo dell’inverno vero, e quando è arrivato ci ha travolti! Non è stato facile. Ma il luogo è stato molto importante per tutti noi. Per il mio ruolo, in particolare, era fondamentale entrare in contatto con i suoi silenzi e le sue asperità proprio per interpretare un certo tipo di chiusura mentale, vocale e fisica tipica dei montanari. Manfred è un uomo che è nato e cresciuto lì, in quel recinto, tra quei colossi, quindi si porta dentro qualcosa della montagna. È stato molto interessante sentirsi fragili e ben protetti allo stesso tempo, essere sempre circondati da catene che ti impediscono di vedere l’orizzonte, che ti proteggono e allo stesso tempo ti strozzano.
Come ti sei trovato a lavorare con Claudia Pandolfi?
Non la conoscevo personalmente, l’avevo vista in alcuni film e mi piaceva tantissimo, perché sentivo che non era un’attrice normale, nel senso che coglievo in lei qualcosa di rock, di non convenzionale, come fosse una che non dice per forza la cosa giusta al momento giusto, ma anzi quella sbagliata al momento sbagliato. E già questo mi piaceva. Ci sono arrivato con un pregiudizio positivo e mi è stato da subito totalmente confermato. Perché è molto generosa, è bella internamente ed esternamente; è qualcosa che prescinde un po’ da lei; non recita mai davvero e però è sublime in questo. Dopo aver fatto il provino, io e Claudia, siamo andati a prendere un caffè e subito ci siamo detti: siamo noi due. Questo perché i ruoli erano davvero primordiali: un uomo “uomo”, e una donna “donna”, due energie, due antitesi, due attrazioni, due poli che innegabilmente si devono attrarre, ma che non potranno mai raggiungersi. Quindi eravamo già noi e Cristina se n’è accorta, per fortuna.
Con Cristina com’è andata?
Inizialmente c’è stata una fase di studio: secondo me lei credeva che io fossi ancora più matto di quanto sia realmente, invece poi ha capito che sul set riconosco chiaramente il potere del regista. È lei/lui che ha il potere assoluto su di me. Certo è capitato che con registi che non mi convincevano a pieno non riuscissi a fare una data scena e gli rendessi la vita impossibile, ma con Cristina non è stato così. Quello che lei s’immaginava del mio personaggio era esattamente ciò che anch’io immaginavo, quindi in tre mesi non c’è mai stato un “non sono d’accordo”, ma anzi un “ah sì, è questo”. Avevamo proprio la stessa idea di chi fosse Manfred.
Cosa ricordi di questo set?
È stato faticosissimo, più che fisicamente, psicologicamente, perché interpretare un uomo che trattiene tutto, che è tutto rivolto all’interno, ti logora: stai lì otto, dieci ore a provare ad esprimere qualcos’altro rispetto a ciò che provi, quindi torni a casa e ti senti sfinito.
Però il fatto di essere in un posto così piccolo, così concentrato, è stato bellissimo proprio per l’unione che si è stabilita tra le persone: eravamo parte di un tutto, dai macchinisti agli aiuti, dai runner ai costumi, alle scenografie. Certi giorni dovevamo prendere le cose in spalla e superare, prima con le seggiovie poi a piedi, le rocce e il ghiacciaio roccioso per andare a girare una scena: una carovana di matti. E questo è stato davvero molto bello!
Un’altra cosa che mi ha entusiasmato sono state le scene d’amore, e non solo per lo sguardo femminile di Cristina, sempre molto attento e teso a rinnovare la visione della donna. Ma proprio perché ho scoperto qualcosa di nuovo, è stata una mia piccola emancipazione personale.
Cosa ti ha spinto ad interpretare questo ruolo?
Quando ho letto il libro mi sono detto: io sono Manfred, punto. Sono umbro e quindi un po’ cinghiale, e vengo da una famiglia in cui il padre parla pochissimo, per cui già mi portavo addosso molti aspetti di quel ruolo, da alcune chiusure caratteriali alle ombrosità. Ho un po’ di Manfred in me, geneticamente e fisicamente, una certa rocciosità fisica e vocale. Per me è fondamentale avvicinarsi al ruolo senza alcun pregiudizio, senza odiarlo perché altrimenti ti vieti delle sfumature espressive, ma al contrario amandolo in tutto, fino alle unghie. C’era una parte del mio personaggio che non mi piaceva, anche se sapevo che è stato costruito così ed è giusto che sia così: è che quando è in difficoltà, invece di dichiarare la sua fragilità, attacca. Questo lo ritrovo anche in me stesso: ecco perché non mi piace. Anche io in alcuni momenti (come per la fine di una tournée) creo un muro tra me e gli altri, mi chiudo per superare un distacco che in realtà dentro mi fa soffrire e disperare. Poi come Manfred anch’io vivo la sindrome di abbandono: certo non sono stato abbandonato dalla madre come lui però ho sempre paura che le persone a me care non siano presenti nei momenti in cui io ho più bisogno di loro.
Quindi il mio è un ruolo che non si concede, che preferisce trattenersi, uccidere un sentimento, abbandonare piuttosto che subire un abbandono.
Cosa rappresenta il film per te?
Pensando anche ad alcune scene in montagna, ho capito che questo è un film epico; contemporaneo ma al tempo stesso epico, in cui si racconta una storia primordiale, proprio la genesi, Adamo ed Eva, ma senza il retaggio cattolico. Ed è lì che diventa entusiasmante, appunto perché vai a incarnare, senza doverlo esprimere chiaramente, una storia esemplare. Ho anche chiamato Cristina, a mezzanotte, per dirglielo: “Ho capito, ho capito, noi stiamo raccontando una storia esemplare, epica” le ho detto, e lei “buonanotte”.
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