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Venezia 2011, Giorno 9 - Giovedì 08/09: Faust, Killer Joe, L'ultimo terrestre, Tutta colpa della musica, Missione di pace, Piazza Garibaldi, Kotoko, Totem, L'Hiver Dernier, Voi siete qui e Stateless Things
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Nella giornata in cui Venezia incorona i tre titoli vincitori della sezione Controcampo, scelta ardua e difficile vista la qualità dei lavori fin qui presentati, il Concorso offre due nomi di grandissimo richiamo e un esordiente atteso al varco: William FriedkinAleksandr Sokurov e GiPi, che ha sulle spalle la responsabilità di far dimenticare l’onta dei fischi al cinema italiano arrivata ieri all’incompreso Quando la notte.

 

 

Si parte alle 08:30 in Sala Volpi con la proiezione della seconda parte del documentario di Gianni Minà Cuba nell’epoca di Obama, di cui trovate info più dettagliate qui.

 

 

Alle 11 in Sala Grande sono programmati gli ultimi due titoli in gara per Controcampo nelle sezioni cortometraggi e lungometraggi. Si comincia con il cortometraggio My name is Sid di Giovanni Virgilio, rivisitazione della saga di Lou Sciortino creata dallo scrittore Ottavio Cappellani:

 

My Name is Sid (2011)

di Giovanni Virgilio con Alessio Vassallo, Liborio Di Natali, Cosimo Coltraro, Gianluca Martignetti

 

«Gli anni ’60, la renaissance hollywodiana popolata da italoamericani. Ho amato il romanzo Chi ha incastrato Lou Sciortino? di Ottavio Cappellani, che narra quelle storie. Gli ho chiesto di immaginare cosa accadeva in Sicilia. Ne è nato questo spin-off: la fotografia di una Sicilia che – dopo l’epoca dei Gattopardi – affrontava un nuovo “cambiamento“».

 

 

 

Segue Tutta colpa della musica di Ricky Tognazzi, una riflessione sugli amori e sulle seconde giovinezze, interpretata tra gli altri da Stefania Sandrelli, Elena Sofia Ricci e l’esordiente Rosalba Pippa, meglio nota come Arisa, la cantante naif che tre anni fa calcava per la prima volta le scene del Festival di Sanremo (quanti cantanti quest’anno?):

«Eh sì, siamo al fatale adagio degli amori senili, o magari no, facciamo “mezza età inoltrata”, s’il vous plaît. Però, anche a voler giocare d’astuzia col rapporto fra le parole e le cose, la sostanza resta quella: le chiome incanutiscono o nel peggiore dei casi si volatilizzano, la pelle – forse stanca degli anni di splendore – comincia a rilassarsi e perdere il suo tono, i muscoli acquistano consistenze da latticino, le pance dilagano, le ossa si decalcificano (ma come si permettono?)… e tutto in barba a ogni infaticabile e coraggioso sforzo di tenere in piedi la baracca. Il corpo, diventando un beffardo e maligno aguzzino, suggerisce che è meglio fermarsi un po’ e mettersi alla finestra a guardare. Ma fosse solo questo…

Il fatto è che qui si consuma la più assurda e maledetta delle schizofrenie: il corpo va per la sua strada, e invece il cuore… Perché il desiderio, la passione, i sentimenti non possono fare a meno di rigenerarsi come un’importuna araba fenice? Perché l’amore riesce sempre a credere a una nuova vita, un nuovo tempo, nuove sfide, nuove tentazioni, nuove possibilità? E perché, seppure cerchiamo di metterlo a freno, con quel po’ di ragione che ci resta, di fargli da grillo parlante, lui in tutta risposta ci dà una buona martellata e scappa libero con le proprie illusioni?

Già, questa è la storia di un secondo amore, anzi, di vari secondi amori, che i nostri personaggi vivono con timore e con slancio, incapaci, come forse è giusto, di non travisare quello che è un incipiente crepuscolo per una nuova alba.

E non dimentichiamoci il coro. La nostra storia è soprattutto il nostro coro: la nostra storia vorrebbe proprio essere un coro, una ronde, una catena di uomini e donne, che, sospinti dall’incanto di un’aria di Bellini, ci dicono che l’amore – per quanto sia crudele l’anagrafe − è davvero la forza che muove tutte le cose».

 

 

Per Orizzonti alle 11 in Sala Perla si assiste al film documentario Louyre – This Our Still Life dell’inglese Andrew Kötting che documenta la relazione tra la vita nel mezzo della natura e la figlia Eden, affetta dalla sindrome di Joubert:

 

Louyre - This Our Still Life (2011)

di Andrew Kötting

 

«È un home-movie. Per oltre vent’anni ho vissuto a più riprese in una zona remota dei Pirenei francesi assieme alla mia compagna Leila e a mia figlia Eden. Lì abbiamo toccato con mano l’andare e il venire delle stagioni e l’andamento altalenante dell’intenso lavoro fisico. Come antidoto alla confusione della vita londinese, abbiamo cercato rifugio e contemplazione in folte foreste e su alti monti. Louyre è il nome della casa e, quando viviamo lì, le nostre vite sono immobili come nature morte. L’isolamento dell’esistenza a Louyre è contemplativo e meditativo insieme, ma a volte la presenza animistica dei grandi spazi aperti può sopraffare e allora insorge la pazzia. Il film evoca il senso di questo luogo incentrandosi su Eden e sulla sua fantastica e peculiare esistenza».

 

 

 

Allo stesso orario, in Sala Volpi e per gli eventi della Settimana della Critica, si proietta Missione di pace di Francesco Lagi, commedia grottesca sulla guerra e sui rapporti padre/figlio. Nel cast, anche qui c’è un cantante: Bugo, che cura la colonna sonora di cui potete sentire un estratto nella clip sotto:

«C’è una coppia male assortita che si nutre di un’antica avversione. Sandro Vinciguerra è un autoritario ufficiale dell’esercito, mentre Giacomo è suo figlio, incasinato e radicalmente pacifista. Quando Giacomo arriva nel campo militare (che si trova a Grz, regione immaginaria dei Balcani) dove il padre lavora in una missione di pace, è come un virus che porta scompiglio. Distrugge tutto ciò che suo padre costruisce, ostacola la sua carriera e fa crollare la sua autorità. La confusione di Giacomo è totale: i suoi discorsi sono un guazzabuglio di suggestioni, la sua guida morale è un Che Guevara confuso e decisamente in crisi. Ma è dal suo comportamento caotico che nasce la risoluzione dell’amissione del padre.

Il criminale di guerra è ispirato a quei criminali ancora latitanti, dopo tanti anni dalla fined ella guerra, nella ex Jugoslavia. Ce lo siamo immaginato ormai stanco, costretto alla macchia da una fuga senza speranza, disposto a contrattare la sua resa con il primo che ha il buon senso di parlarci.

I personaggi sono senza direzione, tutti delle zucche vuote che hanno bisogno di un’autorità fuori di loro. La loro difficoltà è capire il  senso delle cose che fanno, perché hanno perso i sentimenti e non sanno più dove cercarli.

Giacomo finisce per trovare un gruppo di persone con le quali portare inaspettatamente a termine la sua missione. Il mondo del padre e quello del figlio si contaminano e, anche se solo per un attimo, davanti a loro si svela qualcosa di nuovo».

«La guerra o piuttosto un’operazione militare come non l’abbiamo mai vista. Questo è in buona sostanza il proclama semiserio di Missione di pace. Come non l’abbiamo mai vista, certo, perché non c’è niente di già visto in questa performance di soldati senza arte né parte simili ad altrettanti personaggi in cerca d’autore, a metà strada tra Pirandello e Beckett, Monicelli e Altman, che si sforzano di sembrare quello che non sono né possono illudersi di essere. L’esordiente Francesco Lagi non vuole riproporre un’inoffensiva e tutt’altro che “sporca dozzina” secondo gli standard eroici tradizionali, e la sua visione ridanciana dell’universo militare trova conferma nei personaggi: l’ufficiale improbabile interpretato provocatoriamente da Silvio Orlando, che non a caso non ha la “statura” del capo o del duro, o la giovane recluta affidata, per analoghe ragioni, alla figura gentile e poco marziale di Alba Rohrwacher. Eppure, anche sul fronte opposto non è che le cose stiano tanto meglio: il giovane contestatore altri non è che l’imbranato, antipatico figlio del colonnello, che così dimostra di essere un velleitario un po’ sciocco, un figlio di papà viziato, cresciuto dispettosamente nell’ambiente delle Forze Armate, che come si è detto risultano a loro volta poco “forti” e molto “disarmate”. Il film, nella sua spigolosa leggerezza, non risparmia dunque nessuno: né i soldati, né i pacifisti, né – bisogna aggiungere – i capolavori della storia del cinema (dal tarkovskiano Andrej Rublev, evocato espressamente nella scena della piccola chiesa ortodossa in pietra appena ricostruita, cui viene restituita una campana, salvo poi essere daccapo sconquassata, al classico altmaniano M.A.S.H.) o i miti standardizzati che hanno infuocato intere generazioni di giovani militanti di sinistra (pensiamo al Che Guevara messo alla berlina da Filippo Timi con il suo roco e solenne timbro vocale contraddetto dall’attaccamento alle cose più banali, comuni e ordinarie). Insomma, un esperimento di azzeramento sferzante di un immaginario cinematografico e ideologico, civile e politico, trattato come una scampagnata appena dissimulata in una ex Jugoslavia che molto assomiglia, e probabilmente è, una location ricavata in un altrove italiano mimetico, come ai tempi dei picareschi western “spaghetti”».

 

 

 

Alle 14 in Sala Darsena per la Settimana della Critica è previsto il film Totem della tedesca Jessica Krummacher, definito già in patria come la versione occidentale di The Housemaid:

«È ispirato a una storia vera il film di diploma della talentuosa autrice tedesca Jessica Krummacher, anche produttrice, sceneggiatrice e montatrice di questo stringato e asfissiante atto d’accusa contro la famiglia borghese e le sue claustrofobiche geometrie che potrebbe far pensare a Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini se non fosse che in questo caso è lo straniero, il corpo estraneo, a soccombere, mentre l’organismo che l’ha fagocitato e smembrato si ricompone nella sua nevrotica routine dopo averlo espulso. C’è invece molto della lezione del cinema austriaco contemporaneo (più Ulrich Seidl che Michael Haneke) ma la crudeltà della visione è sempre riportata a un universo di riferimento in cui il soggetto non diventa mai puro oggetto. Dunque una rappresentazione attenta al più piccolo dettaglio ci restituisce la giovane Fiona con le sue contraddizioni e le sue fragilità: una ragazza sola, sensibile, un po’ mitomane, passiva, che vorrebbe reinventarsi un’identità lontana dalla sua famiglia (si dichiara orfana ma poi parla al telefono con la madre). Vittima di soprusi e umiliazioni che non sa o non può schivare in quanto “totem” vivente del gruppo è spinta inesorabilmente verso il suo destino nella più generale indifferenza».

 

 

Alle 14:30 in Sala GrandeControcampo chiude i battenti con il documentario in concorso Piazza Garibaldi di Davide Ferrario, un viaggio alla scoperta di ciò resta dello spirito dei Mille nell’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Al termine del film, si premiano i vincitori della sezione che tuttavia rimane aperta per la proiezione di alcuni eventi speciali di cui vi parlerò domani (vi anticipo solo che arriva un’intervista esclusiva a una regista i cui due film precedenti su FilmTv hanno ricevuto 4 stelle dalla redazione):

 

«È un viaggio pieno di sentimenti e di pensieri, talvolta contraddittori, che muovono da un fondamentale amore per il paese e per la nostra storia, in particolare per l’avventura dei Mille. C’è un bellissimo saggio in cui Alfonso Berardinelli scrive di come si sia accorto di essere italiano solo a trent’anni. Anche la mia generazione è cresciuta sotto l’influenza di miti e suggestioni principalmente stranieri, salvo poi ritrovarsi “da grande” a scoprire quanto invece fossimo inevitabilmente italiani dentro. Essere italiano è come avere una faccia di cui non puoi disfarti: per un po’ puoi anche non guardarti allo specchio, ma arriva il momento che quella faccia non la puoi evitare. Girare  Piazza Garibaldi per me, per noi ha significato proprio questo: guardarci allo specchio, e fare i conti con quello che di noi amiamo e odiamo».

 

 

 

La Sala Darsena alle 16:30 per le Giornate degli Autori offre L’Hiver Dernier di John Shank, sulla vita di un giovane allevatore per necessità, oberato da responsabilità e debiti:

 

Last Winter (2011)

di John Shank con Vincent Rottiers, Florence Loiret Caille, Anaïs Demoustier, Carlo Brandt, Michel Subor, Aurore Clément, Théo Laborie, Carlos De Souza

 

«Molto tempo fa, c'era un mondo. Un mondo che mi è stato dato, un mondo che mi si è presentato, un mondo che ha provveduto a tutti i miei bisogni. [...] Con questo film, voglio raccontare la storia di un uomo che porta sulle sue spalle il peso di due diverse eredità, una materiale, l'altra spirituale. Questi due patrimoni sono incarnati negli stessi elementi, negli stessi gesti e negli stessi luoghi, sono profondamente radicati nella realtà della vita rurale che danno a Johann una gioia immensa ma che, al stesso tempo, lo consumano. È un western rurale meravigliosamente composto e accuratamente ritmato. L'attore francese Vincent Rottiers dà al protagonista, un giovane agricoltore, un carattere tagliente. Uomo di poche parole, il protagonista è allo stesso tempo brusco e misterioso. Si prende cura degli animali come fossero figli suoi, ma non chiedetegli di fare il manager. Ha ereditato la terra e il métier dal padre ma non sembra in grado di rendersi conto dello sgretolamento del mondo intorno a sé, e non sa cogliere l'opportunità per una vita migliore. La magnifica fotografia e l'attenzione compositiva di Hichame Alaouie sono una vera e propria ode alla natura e agli agricoltori, versione moderna dell'ultimo dei Mohicani».

 

 

 

Alle 16:30 Orizzonti in Sala Perla ci accompagna nell’estate cilena con la proiezione del film Verano di José Luis Torres Leiva:

 

Verano (2011)

di José Luis Torres Leiva con Julieta Figueroa, Francisco Ossa, Rosario Blefari, Ignacio Aguero

 

«La trama è costituita da storie molteplici, ma non si tratta di un film corale. Ha un fulcro unico, da cui si dipartono diversi rami. L’asse principale è definito proprio da quei piccoli momenti, istanti invisibili di vita quotidiana vissuti da tutti i personaggi che compaiono nel film. La storia si sviluppa lungo una linea sottile tra la bellezza e la disperazione. Vagare nella foresta, felici di perdersi e di non appartenere a nessun posto. La storia vive nell’interiorità dei personaggi, ma anche all’esterno, in tutto ciò che li circonda. Ai loro occhi il mondo è aperto, inclusi la foresta e il cielo che li protegge. Il film parla di solitudine, ma anche di amore, della natura dei sentimenti e della scoperta di ciò che vorremmo diventare o realizzare nella vita».

 

 

 

Alle 17 Controcampo presenta due eventi metacinematografici in Sala Volpi. Dagli archivi delle Teche Rai arriva Dai nostri inviati, raccolta di reportage esclusivi realizzati in Laguna negli anni della contestazione, dal 1968-1979, in onda sabato 10 alle 21 su Rai Storia:

 

Dai nostri inviati - La RAI racconta la Mostra del cinema 1968 - 1979 (2011)

di Giuseppe Giannotti, Enrico Salvatori, Davide Savelli

 

«È un atto d’amore della Rai verso la Mostra del Cinema di Venezia, ma è anche un atto d’amore verso la Rai stessa, facendo tesoro di una delle sue più grandi ricchezze, l’archivio. È un documentario per il quale abbiamo avviato un processo innovativo di restauro e digitalizzazione in HD. Un restauro tecnico che aderisce perfettamente al compito editoriale di risistemazione della memoria. Il racconto del Festival è infatti una cartina tornasole di un decennio di società italiana, del quale evidenzia e consolida la memoria, la trasforma in storia».

 

 

Fa seguito Hollywood Invasion di Marco Spagnoli, ideale contropartita di Hollywood sul Tevere e in onda a fine mese sulla pay tv Studio Universal:

«Quando mi hanno chiesto quale fosse la mia idea, ho imprudentemente azzardato l’ipotesi di volere raccontare proprio “un altro sguardo”. Il mio desiderio era quello di potere esplorare come gli Americani avessero raccontato l’Europa degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta seguendo i loro divi nel vecchio continente, attraverso i materiali d’archivio di NBCUniversal.

Un “azzardo” perché, a differenza di quello dell’Istituto Luce, l’archivio NBCUniversal è solo parzialmente visibile on line e tutto quello che si può fare dall’Italia è visionare un’infinita serie di schede molto accurate, ma pur sempre più ispirate dalla burocrazia archivistica che dall’arte e dalla passione per il cinema.

Così, dopo una serie ulteriore di  ricerche e di richieste, verso la fine dell’inverno sono andato a New York, alla sede di NBCUniversal al Rockfeller Center, la stessa dove si realizza il Saturday Night Live e, aiutato da persone di grande professionalità e passione sono entrato in quello che è un vero e proprio tesoro di materiali filmati ancora più sorprendenti agli occhi di un europeo.

A differenza di quanto era accaduto con Hollywood sul Tevere, però, molti di questi materiali erano ancora in pellicola e, soprattutto, sembravano avere atteso proprio me per tornare ad essere visti in tutto il loro splendore, dato che le ‘pizze’ che li contenevano sembravano avere fortemente subito quelli che Shakespeare definisce “gli oltraggi del tempo”. Una situazione inaspettata e lusinghiera perché, proprio come era accaduto per il mio primo lavoro, anche questa volta sarebbero stati proprio i materiali ritrovati a determinare il percorso, la forma e il senso del documentario.

Nel cuore di New York, così come avevo già fatto a Cinecittà, mi sono messo ‘in ascolto’, lasciandomi guidare verso footage di cui non avrei, solo fino a qualche settimana prima, osato neppure sognare l’esistenza.

Il giorno di San Patrizio, mentre tutta la città era attraversata dalla tradizionale parata, la maggior parte dei newyorkesi erano vestiti di verde e io venivo inseguito in un sole primaverile da uno scoiattolo mannaro a Central Park, ho avuto la consapevolezza di trovarmi dinanzi ad una vera grande sorpresa: se da un lato, infatti, c’era il racconto della realizzazione di alcune delle grandi produzioni americane in Europa, dall’altro c’era anche l’amore e l’attenzione per alcuni talenti europei che erano diventati delle Star in America in grado di influenzare le nuove generazioni.

In questo senso, lo sguardo degli Americani su di noi Italiani ed Europei era non solo molto interessante, ma decisamente singolare per la sua accuratezza e intelligenza rispetto a quanto, in genere, oggi spesso vediamo rappresentato come dei cliché in alcune produzioni hollywoodiane.

Hollywood Invasion non è quindi un sequel di Hollywood sul Tevere, ma un progetto complementare, un ‘Controcampo Americano’ che attinge allo stesso periodo storico e che punta a raccontare, spesso attraverso il racconto degli stessi protagonisti di quegli anni, un’era indimenticabile vissuta in prima persona.

Il footage su cui è costruito è semplicemente straordinario e, a tratti, perfino commovente».

 

 

 

 

Il Concorso si presenta alle 17:15 in Sala Grande con la proiezione del film L’ultimo terrestre, esordio alla regia del fumettista GiPi con interprete un giovane portiere trasformato in attore per l’occasione:

«Ho sempre pensato che per raccontare la realtà in modo fedele la si dovesse tradire profondamente. Sono pure convinto che sia quasi inutile tentare di descrivere la contemporaneità raccontando la contemporaneità, visto che i tempi di mutazione sono talmente rapidi che qualunque “oggi“ diviene “ieri“ nel tempo necessario a scriverne la parola. Per ovviare a questa trappola la nostra storia è ambientata nel futuro. Solo qualche anno in avanti. Diciamo tre. Non di più. Un’Italia dopo l’Italia, insomma, che ci permetta di giocare a immaginare la deriva estrema che una condizione sociale potrebbe raggiungere. Questo è l’intento».

 

 

 

Si continua con uno dei titoli più attesi e a lungo desiderati alle 19:30. Per il Concorso arriva, in Sala GrandeKiller Joe di William Friedkin, maestro del cinema statunitense che ritorna con una storia di cupa violenza e sesso, un Pretty Woman quasi noir:

«Killer Joe è un po’ come la storia di Cenerentola, ma il Principe azzurro è un killer a pagamento – ed è anche sceriffo del dipartimento di polizia di Dallas. Anche se il titolo e l’intreccio fanno pensare a risvolti sinistri, trovo che il film sia molto divertente».

 

 

Altro evento atteso, questa volta per Orizzonti e in Sala Perla, è alle 21 la proiezione di Kotoko di Shinya Tsukamoto, versione sanguinaria e violenta di un manga giapponese interpretata da una famosa cantante giapponese, idolo dei teenager, Cocco:

 

Kotoko (2011)

di Shinya Tsukamoto con Cocco, Shinya Tsukamoto

 

«Cocco è una cantautrice per la quale provo immenso rispetto. Canta con una passione che scaturisce direttamente dall’anima: intensa e allo stesso tempo molto dolce. La sua voce mi commuove profondamente e totalmente. È da un po’ di tempo che speravo di fare un film con lei. Il sogno si è avverato poco dopo la morte di mia madre, che avevo accudito per sette anni. Proprio in quel periodo Cocco mi ha dato l’opportunità di lavorare insieme a lei al mio nuovo film! Prima di iniziare le riprese, ho fatto qualche ricerca sul suo repertorio. Attraverso le sue canzoni, gli scritti e le nostre conversazioni, sono entrato direttamente nel suo mondo interiore. In questo modo ho elaborato il tema che volevo approfondire e rappresentare con il mio film… un mondo sempre meno sicuro per via di una violenza dilagante che può arrivare a portarci via all’improvviso e tragicamente la vita di una persona cara. Qualunque madre si preoccuperebbe, diventando perfino paranoica, nel crescere i propri figli in un mondo così. La maternità è il tema che ho voluto ritrarre nel mio nuovo film. Tutte le madri del mondo sono state bambine. Kotoko, che Cocco interpreta brillantemente, non è una donna diversa dalle altre. Potrebbe essere tua madre o magari anche tu stessa. Vivere nel mondo di oggi non è facile. È una lunga serie di sfide che richiede battaglie e sforzi infiniti per navigare lungo il fiume della vita con successo. Le canzoni di Cocco me lo ricordano di continuo».

 

 

 

L’ultimo grande nome della giornata in Concorso è Aleksandr Sokurov. Alle 22 la Sala Grande ospita la proiezione di Faust, di cui il regista russo parlava anche qui:

 

«Faust è l’ultima parte di una tetralogia cinematografica sulla natura del potere. I personaggi principali dei primi tre film erano tutti figure storiche reali: Adolf Hitler (Molokh, 1999), Vladimir Lenin (Telec, 2000) e l’Imperatore Hirohito (Solnzte, 2005). L’immagine simbolica di Faust completa questa serie di grandi giocatori d’azzardo che hanno perso le più importanti scommesse della loro vita. Faust sembra non appartenere a questa galleria di ritratti, un personaggio letterario quasi da museo incorniciato in una trama semplice. Che cos’ha in comune con queste figure reali che sono ascese all’apice del potere? Un amore per parole cui è facile credere e una patologica infelicità nella vita quotidiana. Il Male è riproducibile, e Goethe ne ha formulato l’essenza: “Gli infelici sono pericolosi“».

 

 

 

Alle 22 torna anche Orizzonti in Sala Darsena con la proiezione del misterioso Tae Peang Phu Deaw di Kongdej Jaturanrasmee, la storia di due amici che per rubar cose, amori e vite altrui finiscono nei guai:

 

Tae Peang Phu Deaw (P-047) (2011)

di Kongdej Jaturanrasmee con Apichai Tragoolpadetgrai, Parinya Kwamwongwan

 

 

 

 

Alle 22 la Sala Volpi ospita un titolo evento in collaborazione con la Settimana della Critica e le Giornate degli AutoriVoi siete qui di Francesco Matera, un viaggio per Roma e sui luoghi usati come set cinematografici, condotto dal critico Alberto Crespi:

 

Voi siete qui (2011)

di Francesco Matera con Alberto Crespi, Angelina Chavez

 

«È un road movie metropolitano nel corso del quale si attraversa la città di Roma alla ricerca di molti suoi luoghi resi famosi da grandi film del cinema italiano.  Per rivedere le immagini di quei film, e magari parlarne con qualcuno dei protagonisti.  Per verificare quanto e come la città sia cambiata (e continui a cambiare). Per testimoniare come il cinema - che ha raccontato la città occupata negli anni del nazi-fascismo, la sua rinascita dopo la guerra, la ricostruzione, il boomeconomico, la speculazione edilizia... - abbia finito col diventare il vero grande cronista della vita di Roma. Voi siete qui è la scritta che compare sulle mappe, nei centri commerciali e negli itinerari turistici, per far capire alla gente dove si trova. Noi l’abbiamo idealmente portata in giro per Roma, rintracciando i luoghi della città dove sono state girate sequenze di film celeberrimi. Abbiamo fatto un lavoro sulla memoria, ma non sulla nostalgia. Perché i classici della storia del cinema che incontrerete in questo film sono nostri contemporanei, a condizione di riuscire a vederli e ricordarli. A condizione di “usarli”, farli entrare nelle nostre vite. È grazie ai film che vi sono stati girati, alla loro “memoria”, che Roma, da antica diventa viva e contemporanea. Ritrovare i luoghi della città, ricreare le inquadrature dei grandi film del passato, è stata per tutti noi una grande lezione e un grande onore. Grazie davvero a quei cineasti – registi, attori, sceneggiatori, direttori della fotografia – che si sono lasciati coinvolgere in questo viaggio. Sono loro i garanti della memoria, e i custodi della sua modernità».

 

 

 

Chiude le proiezioni della giornata Orizzonti che in Sala Perla alle 23 offre Stateless Things di Kyungmook Kim sull’amicizia di due giovani adolescenti sul punto di suicidarsi ma salvati da un amore “diverso”:

 

Stateless Things (2011)

di Kyungmook Kim con Paul Lee, Saebyuk Kim, Hyungkook Lim, Hyunjoon Yeom

 

«Quella che vorrei porre è una domanda di fondamentale importanza: “Come possono due ragazzi sottrarsi alla chiusura del tempo e dello spazio che li circondano?“. Alla fine, la loro morte è uguale e superiore alla prospettiva di una vita eterna. La morte si trasforma in un momento misterioso di nascita di una nuova vita. Jultak dongshi significa “una gallina e un pulcino becchettano il guscio dell’uovo dall’esterno e dall’interno allo stesso tempo per farlo schiudere“. Allo stesso modo, quando affrontiamo il dolore del suicidio possiamo salutare la speranza di una nascita».

 

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