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Il cinema degli altri (8) - Merzak Allouache (Algeria)
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Un  regista algerino, nato sotto il regime coloniale e cresciuto durante la guerra di liberazione. La sua formazione artistica, iniziata in patria e terminata in Francia, si sviluppa lungo quell’asse Algeri-Parigi che sarà l’anima della sua cinematografia: una produzione eterogenea, che spazia dal documentario alla commedia, ma è sempre e comunque carica di amarezza. A fare da sfondo, all’ironia farsesca come al tragico realismo, è un rapporto di amore/odio con la sua terra d’origine, visceralmente adorata come una madre, ed orgogliosamente detestata per il modo in cui, colpevolmente, si è lasciata andare.

 

Merzak Allouache nasce nel 1944 ad Algeri. Qui frequenta l’Institut National du Cinéma, presso il quale realizza i suoi due primi cortometraggi, Croisement e Le voleur.  Quindi prosegue gli studi alla prestigiosa scuola La Fémis di Parigi, e qui, nel 1975, inizia a lavorare, come regista, presso l’Office National pour le Commerce et l'Industrie Cinématographique. L’anno successivo dirige il suo primo lungometraggio. La sua filmografia comprende, oltre a varie produzioni televisive,  le seguenti opere per il grande schermo:

 

Omar Gatlato (1977)

Mughamarat batal (1979) (premiato al Festival di Berlino)

L’homme qui regardait les fenêtres (1986)

Un amour à Paris (1987) (premiato al Festival di Cannes)

L’après-Octobre (1989)

Bab El-Oued City (1994) (premiato al Festival di Cannes)

Salut cousin! (1996)

L’autre monde (2001)

Chouchou (2003)

Bab el web (2005)

Harragas (2009)

 

 

Protagonista assoluta del suo cinema è la città natale di Algeri, ed in particolare il quartiere popolare di Bab El-Oued, che a volte è il teatro in cui si svolge la storia, altre volte è solo un luogo virtuale, che vive nella mente dei personaggi come punto di partenza di un viaggio: un cammino iniziato con rabbia e speranza, e magari terminato nel senso di smarrimento, nella prigionia dell’esilio, nella tristezza della nostalgia. L’emigrazione verso la sponda opposta del Mediterraneo è il sogno che, in varia misura, anima tutti i suoi racconti: il desiderio di andare via è un’ossessione comune a molti personaggi di Allouache, ed assume quasi sempre la veste radicale di un bisogno impellente di tagliare le radici, di ricominciare daccapo, di sparire: c’è qualcosa di estremo e di definitivo in quell’impresa, effettivamente compiuta o soltanto immaginata. Lo dimostra il fatto che gli algerini rientrati  in patria dopo un periodo all’estero vengano considerati stranieri, e chiamati, loro malgrado, immigrés; e che il ritorno non sia mai un fatto naturale, essendo un obiettivo difficile da realizzare, oppure, al contrario, un’eventualità non voluta,  e magari forzata attraverso un provvedimento d’espulsione. In più occasioni Allouache cita la trasmissione televisiva Perdu de vue, l’equivalente francese del nostro Chi l’ha visto?:  anche questo è un chiaro riferimento ad un allontanamento che, almeno nelle intenzioni,  spezza per sempre i legami col passato. Ma la separazione, nei fatti,  non è mai totale, né irreversibile: può essere frutto di una smania un po’ frivola, oppure di una disperazione esistenziale, ma c’è sempre qualcosa, di quel paese assolato e desertico, che tutti i personaggi, partendo, portano con sé. Quella traccia indelebile può assumere la forma di un semplice tratto caricaturale (un accento, un atteggiamento) o di un profondo attaccamento affettivo (un amore perduto), ma è sempre ben presente, a sottolineare il trauma, più o meno doloroso, del distacco dal mondo al quale si appartiene.

 

 

 

 La terra algerina, che sta alla base di questo paradosso, è, sua volta, affetta da una drammatica contraddizione: la sua capitale è ritratta da Allouache come un’elegante signora col trucco sfatto e i vestiti strappati, che, memore della sua nobiltà, non ha il coraggio di stendere pubblicamente la mano. E così si arrabatta, di nascosto, vivendo di espedienti, come un essere senza iniziativa né cultura,  che non ha più lo slancio rivoluzionario della gioventù, ma non ha saputo conquistare la saggia e decorosa compostezza della maturità. La sua identità politica è un confuso calderone di tradizione religiosa ed ideali democratici, che, rimescolandosi, creano momentanee chiazze di colore, ma non arrivano mai a dare vita a una sostanza dal sapore definito. Il loro unico prodotto è una permanente incertezza, un grigiore informe  che è un’inesauribile fonte di inquietudine. Gli animi si agitano, e ciononostante non si approda a nulla: infatti le energie si disperdono, in un contesto che, per mancanza di unità ed organizzazione, non possiede i presupposti per costruirsi una storia. L’unico modo per poterne parlare, nel linguaggio narrativo del cinema, è fermarsi alla descrizione degli eventi; è per questo motivo, forse, che Allouache ama esprimersi in uno stile sobrio, che, all’occorrenza, sa valorizzare la bellezza, però rifugge l’enfasi, anteponendo alle ambizioni dell’arte l’esigenza di testimoniare la realtà: una realtà che non ride e non urla, e che invece, piange, sussurra o sta in silenzio, e che talvolta, magari, accenna un timido sorriso.

 

 

 

La precedente puntata de Il cinema degli altri:

 

(7) Apichatpong Weerasethakul

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