Dopo il ciclone pop Vasco, l'emozionante epopea "western" di Cavalli e la mezza delusione della Talpa, Venezia continua la sua marcia inarrestabile arrivando al suo settimo giorno di proiezioni e ritornando a focalizzare l’attenzione sui maestri italiani: oggi Fuori Concorso è la volta del film Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi. Gli occhi, nella competizione principale. Sono puntati sui possibili outsider Wuthering Heights e Himizu, due trasposizioni molto attese dagli addetti ai lavori.
Come ogni giorno, apertura alle ore 11 con Controcampo Italiano in Sala Grande, dove apre le danze il cortometraggio The Cricket di Stefano Lorenzi, ambientato nel microuniverso di un aeroporto:
The Cricket (2011)
di Stefano Lorenzi con Birol Ünel, Edoardo Gabbriellini
«A oggi non so più dire se il fatto che ha ispirato questo corto sia realmente accaduto o sia soltanto un’invenzione della mia mente. Dimentico talvolta cose importanti, vere, essenziali. Mi assale un soffocante senso di colpa per le mie mancanze. Così mi faccio coraggio e tendo l’orecchio e il cuore a qualcosa che si è dimenticato. Tutto all’improvviso mi sembra più chiaro».
Al corto fa seguito la proiezione dell’opera prima Qualche nuvola di Saverio Biagio, sguardo ipnotico e leggero su una generazione di giovani alle prese con un matrimonio messo in pericolo dall’incontro con un mondo nuovo. Protagonista è nuovamente Michele Alhaique, applauditissimo ieri mattina:
«Qualche Nuvola è una commedia sentimentale. Un gioco di racconti e bugie sulla crisi delle unioni e sul valore che gli viene attribuito. Il film è ambientato a Roma, è un progetto italiano, ma i temi trattati (il matrimonio, il lavoro, gli affetti) lo rendono “universale”. Ho provato a raccontare Roma come Robert Guédiguian (un esempio tra i tanti) è riuscito a raccontare Marsiglia, con i suoi tipi umani e i suoi mille colori. Ho pensato di riprendere i miei personaggi con un tocco agile per dar valore ai loro semplici sogni. Mi interessa sottolineare i contrasti, raccontare la vivacità di personaggi autentici e le differenze di classe che la attraversano, differenze che ormai non investono più necessariamente l’aspetto economico, ma che si lasciano percepire attraverso sfumature più sottili, gesti, gusti, letture, luoghi frequentati. Intendo mettere in risalto lo spazio in cui i personaggi si muovono, le periferie ultramoderne e un po’ inquietanti, i locali alla moda del centro e i rituali mondani della nuova borghesia.
Mi è sembrato che la via giusta passasse per sequenze sottili su dialoghi apparentemente semplici ma che svelano sempre di più di quello che dicono. Lo stile di ripresa contempla pochi primi piani per raccontare le emozioni e lunghi piani sequenza per confondersi col tempo reale. Per mantenere la fluidità delle scene contro i veloci passaggi di sceneggiatura è stato necessario un attento lavoro con gli attori che ha reso spontanee le reazioni.
Mi sono sempre piaciuti i film che riescono a introdurre toni ironici in storie di poetica umanità. Ho studiato questi film e ho provato ad usarli come modelli, spero di esserci riuscito».
Alle 11 in Sala Perla iniziano anche le proiezioni di Orizzonti. Il primo mediometraggio proposto è Hollywood Talkies degli spagnoli Oscar Perez e Maria del Mar de Ribot, un documentario che parte alla ricerca dei testimoni di un periodo che il cinema hollywoodiano sembra voler dimenticare:
Hollywood Talkies (2011)
di Oscar Perez, Maria del Mar de Ribot
«All’epoca del film muto Hollywood divenne l’epicentro del cinema mondiale, ma alla fine degli anni ’20 la comparsa del sonoro mise a repentaglio l’universalità del cinema americano. Il pubblico non anglofono rifiutava i film in inglese e il moderno sistema di doppiaggio doveva ancora essere inventato. La produzione di versioni spagnole “made in Hollywood“ fu un tentativo affrettato e disastroso di risolvere quel problema imprevisto. Il metodo consisteva nel girare lo stesso film due volte cambiando solo il cast. Qualche anno dopo, l’invenzione del doppiaggio segnò la fine della produzione di queste versioni e dei loro attori. Né gli imprenditori né il pubblico o la critica deplorarono questa perdita e il tempo cancellò le tracce di quell’episodio straordinario. Hollywood Talkies dà vita al dramma dell’uomo moderno, un uomo che ha perso la sua singolarità e cammina da solo senza meta. Persi nella serialità della celluloide e nell’effetto inesorabile del tempo e dell’oblio, i giovani attori sono evocati attraverso lo spazio e tramite l’anonima storia delle loro esperienze più personali. L’industria se ne sbarazzò e il cinema riesce a compiere il miracolo: nella natura viva del paesaggio si può ancora ritrovare una traccia della loro esistenza e della loro assenza. Un viaggio tra luoghi ordinari in cui la loro ultima aura trova rifugio prima di scomparire per sempre».
Quasi un’ora dopo segue la proiezione di Nocturnos dell’argentino Edgardo Cozarinsky, che ci racconta del tortuoso viaggio di una “creatura della notte”:
Nocturnos (2011)
di Edgardo Cozarinsky con Esteban Lamothe, Marta Lugos, Esmeralda Mitre, Jimena Anganuzzi
«Ci sono persone diurne e persone notturne... Quelle notturne si riconoscono. La loro città appartiene solo a loro. Quando gli altri cercano rifugio nell’ambigua sicurezza di una casa loro escono a metterci di fronte a quella verità nascosta dalla luce e rivelata dalle tenebre».
Alle 14 in Sala Darsena promette scintille per la Settimana della Critica l’arrivo in laguna del regista Guido Lombardi con un gruppo di immigrati per presentare la Gomorra nera di Là-Bas, un film che ruota a partire dalla sanguinaria strage di Castel Volturno di qualche anno fa:
«Là-bas in francese è poco più di un intercalare.
Vuol dire “laggiù”.
Ma gli africani dicono “là-bas” anche quando parlano dell’Europa, dove sono andati, in cerca di fortuna o per disperazione, i loro cari ed amici.
Dicono “là-bas” per dire altrove, a sud o a nord non ha importanza.
Vuol dire semplicemente lontano».
«Un ragazzo di colore vende fazzoletti al semaforo. È lì da un giorno oppure da anni. Come tutti quelli come lui, si “arrangia”, come si dice a Napoli e come loro stessi amano ripetere. Magari domani qualcuno gli si avvicinerà per chiedergli: invece d’impiegare una giornata a guadagnare 10 euro, che ne dici di guadagnarne 100 in un’ora?
Al mio protagonista, Yssouf, viene posta questa domanda. E lui compie la scelta che gli appare più razionale. Ha un’ occasione per realizzare il suo sogno, quello che lo ha spinto ad intraprendere il viaggio che lo ha condotto là-bas, laggiù, come un africano chiama l’Europa immaginandola come un luogo lontano da casa propria. Per poi scoprire che qui, a Castel Volturno, è un po’ come stare in Africa: ci sono le palme, il sole picchia, la sera è pieno di zanzare e soprattutto non c’è lavoro. No, non c’è un lavoro vero per i clandestini. In questa terra un tempo meta di villeggiatura, oggi abbandonata dai turisti, ingombra di villette dall’architettura improbabile, l’unica alternativa è tra lo sfruttamento e il crimine.
È di queste persone e di questa scelta che parla il mio film. La scelta più razionale è talmente razionale che sono in molti a farla, e quando si è in molti alla stessa tavola si finisce per contendersi le briciole. Perchè nella zona di Castel Volturno non vivono solo ventimila africani, di cui almeno la metà clandestini, ma anche alcuni italiani che hanno fatto la stessa scelta. Per molti anni africani e italiani, neri e bianchi sono stati in pace. Una pace basata sulla spartizione degli affari, a volte sulla complicità, con i primi disposti a pagare ai secondi una sorta di servitù, un “equo canone”. Ma una pace esposta a terribili cortocircuiti come quello del 18 settembre 2008: con i suoi sei ragazzi innocenti ammazzati in una sartoria. Persone capitate lì per caso, la cui morte doveva servire, in un folle disegno criminale, a lanciare un messaggio, un avvertimento mafioso. Un episodio di rara violenza, una strage appunto. Che è capitata mentre scrivevo la mia storia, con tutto il suo carico di ineludibilità».
Alle 14:30, invece, in Sala Perla Orizzonti ci accompagna alla scoperta del cinema del regista armeno Artavazd Pelešjan grazie al documentario Il silenzio di Pelešian del giovane cineasta italiano Pietro Marcello:
Il silenzio di Pelešjan (2011)
di Pietro Marcello
«Il silenzio di Pelešian vuole tratteggiare il ritratto di una memoria: l’opera del cineasta armeno Artavazd Pelešjan. Una memoria delle opere e della sua creazione, memoria del cinema e del suo rapporto con l’uomo, la sua vita, il suo pensiero, le sue emozioni e gli incessanti, infiniti percorsi che incrociano l’uno e l’altro.
Artavazd Pelešjan è rimasto sconosciuto in occidente fino al 1983, quando il critico franceseSerge Daney riuscì ad avvicinarlo e, insieme a pochi altri conoscitori della sua opera, a farlo conoscere in Europa. Secondo il critico francese “lo scopo di Pelešjan è quello di captare la ‘cardiografia emozionale e sociale del proprio tempo “.
Questo film non vuole essere una biografia, né un saggio documentato. È il semplice resoconto di un’impresa straordinaria, ovvero, essere riusciti nell’atto di filmare – per la prima volta dopo trent’anni – uno dei maestri del cinema mondiale.
Il cinema di Pelešjan è un cinema d’intensità e nello stesso tempo il campo di sperimentazione accurata di una forma di “montaggio a distanza” che, nel derivare dalla lezione di Sergei M. Ejsenstejn e di Dziga Vertov, congiura contro gli stessi principi di montaggio dei due grandi maestri russi.
Anche il ritratto di Pelešjan si costruisce attraverso il “montaggio a distanza” – come iperbole sperimentale e messa in opera piena e intensa di un montaggio interiore – componendo una visione ispirata e lirica del suo mondo secondo due direttive:
- la narrazione costruita a partire dall’incontro con Pelešjan a Mosca, filmando la sua figura sfuggente e intensa;
- il reperimento dei frammenti delle sue opere e di materiali inediti che lo ritraggono in momenti eccezionali della sua vita, quasi uno spazio filmico costellato da sequenze tratte dall’opera di Pelešjan: cellule filmiche vibranti, che restituiscano il senso delle sue opere, pienamente espressivi in cui il movimento creativo che li ha generati non venga esaurito dal nostro intervento.
Il film porta, inoltre, alla luce alcuni repertori straordinari e inediti che riguardano la biografia del regista armeno, tra i quali alcune sequenze tratte dalle lavorazioni dei film e dall’esame di diploma al Vgik, il prestigioso Istituto Panrusso di Cinematografia di Mosca, alla presenza di una commissione di registi, tra i quali Shukshin e Medvedkin».
Alle 15 in Sala Grande Controcampo va alla riscoperta del secondo dopoguerra italiano grazie al documentario di Alessandro Piva, Pasta nera:
Pasta nera (2011)
di Alessandro Piva
«La Pasta nera era fatta con quei pochissimi chicchi di grano arso che rimanevano a terra dopo la trebbiatura, i poveri se li contendevano con gli animali, dalla gente miserabile era considerata l’ultima risorsa per nutrirsi. La scoperta di un'alimentazione non di pura sussistenza è l’aspetto che forse è più rimasto impresso nella memoria dei bambini dopo il viaggio, e il contrasto con l’impasto immacolato delle tagliatelle emiliane è diventato un po’ il simbolo di Pasta Nera, il ricordo della miseria lasciata alle spalle.
Diversi anni fa stavo girando uno speciale per La storia siamo noi a San Severo, il curatore del programma Pasquale Misuraca accettò la mia proposta di lavorare su un tema che mi stava a cuore: le rivolte bracciantili del secondo dopoguerra nelle Puglie. Una delle persone intervistate era Severino Cannelonga, figlio di Carmine, un noto bracciante sindacalista coinvolto nella rivolta del 23 marzo 1950 a San Severo. Alla conclusione dell’intervista Severino mi disse che avrei dovuto ascoltare la sua esperienza da bambino. “So che non c’entra direttamente con la tua inchiesta, ma voglio comunque che ascolti la mia storia”. Per raccontare bisogna pur sempre alimentarsi d’ascolto e dunque mi disposi di buon animo, felice di apprendere la storia di Severino. Insieme a me il ricercatore Giovanni Rinaldi, appassionato studioso della memoria orale dei braccianti, che aveva accettato la proposta di accompagnarmi nella ricostruzione di quel periodo di rivolte nel Tavoliere. Severino iniziò: “Era un martedì, il giorno finale della festa della Madonna del Soccorso. Io, le mie sorelle e tanti altri bambini eravamo qui alla stazione ad aspettare un treno…” Quell’uomo mi raccontò la storia del primo viaggio in treno della sua vita. La sua famiglia era in difficoltà per le ripercussioni delle lotte politiche e alcune famiglie di Ancona si erano offerte di ospitare i bambini di San Severo. I suoi occhi tornarono via via giovanissimi: il cambio del paesaggio, la scoperta del mare, i diversi sapori della tavola, l’importanza che veniva data allo studio… praticamente due culture che si confrontavano. Tutti elementi di fortissima potenza immaginifica che avrebbero potuto essere spunto per un film di finzione. Ma insieme a Rinaldi decidemmo di intraprendere due percorsi paralleli che documentassero quel fenomeno stranamente misconosciuto della nostra storia migliore. Nascono così Pasta nera, il mio film documentario, e I treni della felicità, il libro di Giovanni Rinaldi, due racconti che partono dallo stessa suggestione per restituire entrambi questa storia di solidarietà quasi dimenticata.
Così, con i miei collaboratori iniziammo a rintracciare da un capo all’altro del nostro Paese i testimoni diretti di questa iniziativa. Scoprimmo che non solo molti di quei bambini erano ancora in grado di ricordare lucidamente quell’esperienza, ma anche che alcune delle allora giovanissime organizzatrici erano ancora pronte a raccontarci, con una ricchezza di dettagli sorprendente, l’ambiziosa fatica di quella macchina organizzativa che permise a più di 70.000 bambini di salire su quei treni.
Ci sono voluti degli anni - la scarsezza delle risorse a disposizione ha dettato il passo - per raccogliere tutte le interviste, tasselli di un racconto condiviso che fosse il più esaustivo possibile. Ogni bambino, ogni testimone aggiungeva qualcosa. Esaurito lo slancio del primo, importante sostegno del Progetto Casa Di Vittorio, abbiamo spesso dovuto aspettare il momento giusto per coprire le spese delle trasferte. Quando eravamo in grado di organizzare un viaggio riconoscevamo, al Sud come al Nord, quello stesso identico valore dell’ospitalità che stavamo documentando: tutti ci hanno aperto le loro case, preparato i cappelletti, messo in tavola gli affettati e la pasta fritta.
Da qui scaturisce la scelta di ambientare il racconto degli intervistati cercando di restituire qualcosa del loro vissuto; così Severino è alla stazione, proprio lì da dov'era partito, Americo è nel salone di barbiere appena ceduto per andarsene in pensione, Marisa nella vetusta officina di famiglia e Derna nella casa di riposo, mentre Miriam Mafai è tra i suoi libri e la Viviani si racconta tra i souvenir delle sue battaglie in Parlamento e di tutta una vita.
E le foto, quelle pochissime fotografie tenute sempre in mano nel timore che andassero perse… Ho usato le foto dei protagonisti per certificare questo cortocircuito emozionale e visivo tra infanzia e anzianità che mi aveva colpito fin dall’inizio. La ricerca d’archivio condotta con appassionata dedizione da Vania Cauzillo ha setacciato da una parte gli archivi di Napoli e Roma, dove i fotografi non si erano lasciati sfuggire la partenza in stazione di centinaia di bambini, e dall’altra quelli delle Udi emiliane che conservano orgogliosamente molti scatti di quegli arrivi, scatti che catturano occhi ora smarriti nelle foto di gruppo sulle banchine della stazione, ora increduli e sorridenti davanti alle tazze di cioccolata e alle facce orgogliose dei loro ospiti.
Le nostre interviste andavano innestate sulle immagini di repertorio dell’epoca, così scrivemmo a Cinecittà Luce, illustrando il progetto a Luciano Sovena e chiedendogli l’uso del materiale d’archivio. La sua risposta immediata ed entusiastica andò ben oltre le mie aspettative. Beppe Attene, consulente per i documentari per Cinecittà Luce, ha messo così a disposizione la sua competenza e la sua sincera passione storiografica. Così i ricercatori del Luce hanno selezionato una quantità di materiali, e il materiale d’archivio non ha solo punteggiato i momenti salienti del racconto ma si è innervato nella struttura narrativa.
Ciò che non è racconto dell’iniziativa specifica è ricostruzione dell'epoca: questi i due piani narrativi e visivi che si intrecciano. Il materiale d'archivio ci restituisce il clima dell'Italia postbellica: i bombardamenti e le città sventrate, la faticosa opera di ricostruzione, la fame, il ruolo delle organizzazioni femminili e la condizione infantile nelle grandi città. È proprio dall’avvicendarsi tra lo speaker dei cinegiornali e la voce dei protagonisti che è derivata la scelta di non ricorrere alla voce fuori campo. Il compositore Riccardo Giagni ha creato un mondo musicale mai troppo invasivo, come rispettoso dei silenzi del repertorio e delle emozioni di questi bimbi anziani. A impreziosire la colonna sonora, Giagni ha sapientemente gestito un coro di voci bianche, che oltre a scandire con le filastrocche alcune sequenze, punteggia la visione con certi curiosi bisbiglii di bambini, che ondeggiano fascinosi tra le immagini di repertorio. Con il prezioso aiuto dei montatori Andrea Nobile e Marco Rizzo, abbiamo deciso infine di fare ampio ricorso al materiale dei filmati di famiglia dell’archivio Home Movies, per una narrazione per certi versi libera come l’infanzia: una citazione del gioco e della spensieratezza dei bambini, un’epoca rievocata con la suggestione dei filmini 8mm.
Molte delle persone che abbiamo intervistato già non ci sono più, di loro mi rimane impressa la gioia con la quale hanno ricordato questa storia un po’ ricoperta di polvere. La sensazione è quella, nel mio piccolo, di aver fatto qualcosa di utile al mio Paese, fermando una memoria intimamente custodita nelle case italiane, “perché questo è un paese che ogni tanto ha bisogno di ricordarsi che ha fatto delle cose bellissime”, come ci fa notare nel finale del documentario Luciana Viviani.
E finalmente ho imparato a non vergognarmi della commozione che mi trascina via ogni volta che penso a questa storia».
Orizzonti alle 16:30 in Sala Perla ci restituisce il sempre eterno conflitto tra ebrei e arabi nel documentario Would You Have Sex with an Arab? di Yolande Zauberman:
Would You Have Sex with an Arab? (2011)
di Yolande Zauberman
«Mi hanno sempre affascinata le frontiere che solcano l’intimo, gli amori tra nemici che non si arrendono, le coppie che nascono per questo. Quando si conoscono, si conoscono come nessun altro. Illuminano il mondo di una luce diversa. Sono precursori, moderni e quindi sempre fuori luogo. Adoro il mondo della notte, danzare con la telecamera; credo molto nella danza, nella danza di coppia. Quando fa buio, non riesci a mettere a fuoco, vedi solo i contorni, come gli animali. “Faresti sesso con un arabo?“. Domanda spaventosa – eppure banalissima. La telecamera registra. Devono rispondere senza preavviso. Alcuni dicono sì, altri no, sono perplessi. Ridono. La domanda li scuote. Si vede che ci stanno pensando con tutto il corpo. Sono disarmati (e per gli israeliani non è cosa da poco). Quel divieto così perentorio affiora d’istinto. Devono ammettere in diretta (o scoprire per la prima volta) la percezione che hanno dell’altro, del nemico. “Faresti sesso con un ebreo israeliano?“. La domanda sveglia anche gli arabi israeliani. La maggior parte risponde di sì, anziché no, trascinandoci in un insospettabile mondo notturno. Il film parla di questo. È un’esperienza geografica di stampo amoroso, direi quasi da pancia a pancia. Un viaggio sensuale nella notte promiscua delle città israeliane che non dormono mai».
Alle 16:30 le Giornate degli Autori tornano in Sala Darsena a parlare di pedofilia con Présumé coupable di Vincent Garenq, sull’ingiusta accusa mossa contro un rispettabile ufficiale giudiziario, un’incredibile pagina di cronaca che ha riempito i giornali di Francia fino all’altro ieri:
Guilty (2011)
di Vincent Garenq con Philippe Torreton, Wladimir Yordanoff, Noémie Lvovsky, Raphaël Ferret, Michelle Goddet, Farida Ouchani, Olivier Claverie, Jean-Pierre Bagot, Sarah Lecarpentier, Vincent Nemeth
«La vera storia di Alain Marécaux e di sua moglie, distrutti da uno degli errori più gravi del sistema giudiziario francese, la vicenda Outreau.
Appena si inizia un nuovo progetto cinematografico, la questione della necessità deve essere sempre posta. Quando ho scoperto il diario dal carcere di Alain Marécaux, la risposta è stata immediata. Leggendo il suo resoconto, ero costantemente indignato, in lacrime e arrabbiato. Non avrei mai immaginato che una cosa del genere potesse accadere in Francia. È questo sentimento di rabbia e indignazione che ho voluto trasmettere.
L’attenzione del film per i dettagli proietta lo spettatore in una realtà sommamente ordinaria, con un uomo onesto e non eroico che è stato strappato a tutte le persone che ama e a tutto ciò in cui crede. La lista dei torti si allunga e diventiamo non solo simpatetici ma terribilmente ansiosi di vedere il protagonista mettersi in salvo. Il che come conseguenza produce un impatto emotivo sconvolgente».
Alle 17 in Sala Grande l’appuntamento è con il primo titolo in Concorso:Wuthering Heights di Andrea Arnold. Le Cime tempestose di Emily Bronte rivivono in una versione meno melodrammatica e molto più violenta nello stile e nelle ambientazioni:
«Il romanzo di Emily Brontë è pieno di violenza, morte e crudeltà. Conviverci durante gli ultimi diciotto mesi è stato duro. Le brughiere, gli uccelli, le falene, i cani e il cielo mi hanno aiutata molto. Ma è stato doloroso, e forse non mi riappacificherò mai con questa storia. Non so nemmeno se sia giusto che ciò succeda. Per nessuno di noi».
Alle 19:30 in Sala Volpi le Giornate degli Autori offrono un evento speciale: la proiezione del primo western prodotto dalla Germania nazista e girato in parte negli Stati Uniti, L’imperatore della California di Luis Trenker, Coppa Mussolini alla Mostra di Venezia nel 1936.
L'imperatore della California (1936)
di Luis Trenker con Luis Trenker, Viktoria von Ballasko, Werner Kunig, Karli Zwingmann, Elise Aulinger, Bernhard Minetti, Hans Zesch-Ballot, Marcella Albani, Walter Franck, Reinhold Pasch
«Storia romanzesca della leggendaria impresa di Giovanni Augusto Sutter. Nativo del Baden e trasmigrato in Svizzera, Sutter deve precipitosamente fuggire, lasciando moglie e figli, per i suoi atteggiamenti politici che hanno suscitato le ire della polizia. Giunto in America si dirige a ovest. Dopo una marcia epica, affrontata con due soli compagni, tocca il sospirato suolo delle rive del Sacramento. Ottiene in concessione vastissime zone di terreno e dopo alcuni anni di fatica intensa riesce a trasformarle nel più perfetto e redditizio paese. Ma ecco che improvvisamente si scopre l'oro. Sutter tenta invano di opporsi alla cupidigia che sconvolge l'animo dei suoi coloni. Avventurieri accorrono da ogni parte del mondo, devastando la proprieta di Sutter. Nonostante ogni suo appello alla giustizia, deve rinunciare al suo sogno e muore povero e solo sulla scala del Campidoglio di Washington».
Alle 19:15 in Sala Grande il maestro Ermanno Olmi presenta Fuori Concorso il delicato Il villaggio di cartone, presentato con le note di regia e due clip in anteprima qui:
«È inutile opporsi: nulla potrà fermare il corso degli eventi che l'incalzare delle nuove realtà impongono alla storia.
Quando tutto sarà concluso, il 'saccheggio' avrà lasciato un vuoto doloroso, con le pareti nude e l’altare maggiore spoglio come un sepolcro.
Lo sguardo del vecchio Parroco si leva verso il culmine del presbiterio dove la sparizione del Grande crocefisso è il compimento ultimo dell’atto sacrilego.
Tuttavia, di fronte allo scempio della sua chiesa, il vecchio Prete avverte l'insorgere di una percezione nuova che lo sostiene. Gli pare che solo ora, quei muri messi a nudo rivelino una sacralità che prima non appariva.
Da questo momento di sconforto dove tutto pare inesorabilmente e miseramente avviato alla dissoluzione, avrà invece inizio una resurrezione in spirito nuovo della missione sacerdotale.
Non più la chiesa delle cerimonie liturgiche, degli altari dorati, bensì Casa di Dio dove trovano rifugio e conforto i miseri e derelitti. Saranno costoro i veri ornamenti del Tempio di Dio.
E pure la vita del vecchio Prete troverà nuove vie della carità, della fratellanza, e persino del coraggio di compiere quegli atti d'amore che chiedono anche il sacrificio estremo, quale alto significato della consacrazione sacerdotale.
Ha inizio un tempo in cui il mondo ha bisogno di uomini nuovi e giusti per smascherare l’ambiguità di tanto spreco di parole con l’oggettività degli atti e dei comportamenti.
La narrazione non evidenzierà solamente il più appariscente, e talvolta scontato, Problema Razziale ma soprattutto il dialogo tra religioni che, quando si liberano dal gravame delle chiese come rigide istituzioni che separano, allora rendono non solo possibile l’incontrarsi e il riconoscersi ma suscitano anche condivise solidarietà. Niente realismo, vi mostro un apologo ambientato nell’arco di due giorni e la scelta degli immigrati africani è solo un modo per ritornare alle origini della storia dell’uomo, nella propria terra natale per ottenere una completa guarigione».
Orizzonti torna anche alle 21 con la proiezione in Sala Perla di Cisne di Teresa Villaverde, il canto del cigno di una donna che salva a tutti i costi un bambino omicida:
Cisne (2011)
di Teresa Villaverde con Beatriz Batarda, Miguel Nunes, Israel Pimenta, Sérgio Fernandes, Rita Loureiro, Marcello Urgeghe, Tânia Paiva, Carlos Guímaro, Jaime Freitas
«“Così canta il cigno con le sue ali“, scriveva il poeta greco Alcmane nel VII sec. a.C. Dell’intero poema è giunto fino a noi solo quel verso, non rimane nient’altro. Non sapremo mai cosa cantava il cigno, ma sappiamo che cantava. Mi piacciono l’elusività e l’incertezza delle cose. Sono sempre più convinta che tutto accada negli intervalli. È triste infatti che il cinema oggi sia quasi del tutto digitale e che le pause nere tra una scena e l’altra siano andate perdute. Io prediligo la libertà, sia nel cinema che nella vita. Volevo girare un film i cui protagonisti fossero liberi e non avessero paura di lanciarsi dalla cima di una montagna».
Alle 21:30 per il Fuori Concorso in Sala Darsena spazio ai vampiri, all’horror, all’anoressia, alle inquietudini giovanili e agli amori omosessuali di The Moth Diaries di Mary Harron, su cui poco è dato sapere, a parte il senso di angoscia che emerge da certe immagini fotografiche diffuse per promuovere il film e dall’ambientazione che mischia una storia moderna con tematiche gotiche, condite da buia perversione:
Il Concorso offre il secondo titolo in gara della giornata alle ore 22. La Sala Grande ospita la proiezione di Himizu di Sion Sono, un’altra talpa pronta a sconvolgere il Festival:
«Sono onorato che quest’anno il mio film sia stato selezionato alla Mostra di Venezia. Prima dell’inizio della produzione si sono verificati il terremoto e gli incidenti alle centrali nucleari e ho dovuto cambiare la sceneggiatura che stavo scrivendo proprio in quel periodo. Mi sono sentito in dovere di riprodurre in qualche modo questa realtà nel film. Per me è stata un’esperienza molto intensa e dura dirigere un film e collegarlo al mondo reale che avevo sotto gli occhi in quel momento. Questa è la storia di un ragazzo e di una ragazza che si confrontano con la loro orrenda realtà».
Chiude la giornata alle 23 per Orizzonti in Sala Perla il film cappe e spade The Sword Identity di Haofeng Xu:
The Sword Identity (2011)
di Haofeng Xu con Yu Chenghui, Song Yang, Zhao Yuanyuan, Ma Jun
«Questo è un film di arti marziali in costume. La storia principale consiste nel discutere “quanto possa durare una nobiltà momentanea“. Il tema non è presentato in modo diretto, ma piuttosto in forma di metafora, di sfida in sfida. Queste sfide di arti marziali non sono solo degli eventi, ma anche dei modi per forgiare una mentalità e confermare dei valori. Donde una serie di “arti marziali interiori“ presentate attraverso suggestioni visive e uditive. Le armi e il loro uso sono presentati come ornamenti, ma adottati per far avanzare lo sviluppo della trama con l’uso della suspense. Le immagini sono presentate in uno stile semplice. Ciò minimizza il montaggio per mantenere il fascino delle azioni, usando riprese semplici per presentare scene complesse».
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