Anthony Mann ha dato certamente il meglio di se in alcuni memorabili western, davvero fondamentali e non solo per il genere. E’ là infatti che si trovano incastonate le perle straordinarie del suo intuitivo talento, là che individuiamo gli indiscussi capolavori che gli hanno dato fama e meritata gloria, anche se nella sua lunga carriera ha saputo dare altre significative prove di versatilità, per esempio nel genere “noir”, dove è stato principalmente attivo nella fase iniziale del suo percorso con un interessante approccio soprattutto per quanto concerne l’aspetto figurativo, aiutato in questo dalle splendide intuizioni della fotografia di John Alton, un collaboratore davvero insostituibile che ha avuto l’intuitiva capacità di dare un contributo fondamentale – in perfetta sintonia con il regista - nel creare quel “particolare stile visivo” di assoluta riconoscibilità (basilare anche per la definizione del segmento, in quei tempi ancora in formazione) che rende immediatamente identificabili quelle opere lontane, esaltando con speciale efficacia proprio molti dei temi cari al regista, alcuni ancora esposti in maniera più embrionale, ma poi ripresi ed amplificati nelle sue opere western di maggior prestigio.
Mann è stato indubbiamente meno energico e inventivo quando si è trovato a dover lavorare con storie di differente genere o di minore impatto (almeno sul versante "personale") e ad esplorare territori decisamente più estranei alla sua poetica, come per esempio quando ha realizzato Il Piccolo campo (1958) tratto da Caldwell, che può essere classificato fra le non tantissime eccezioni “anomale” della sua carriera, un’opera difficilmente valutabile se rapportata al suo principale percorso di autore, così distante e difforme come è rispetto ai suoi esiti più incisivi, ma che ha un indubbio valore intrinseco che merita attenzione (viene subito dopo - realizzato per altro quasi in contemporanea - a Dove la terra scotta e le differenze anche stilistiche, giustificano ampiamente le perplessità e le riserve che suscitò quando fu presentato sugli schermi, e continua tutt’ora a tirarsi dietro) nonostante la discontinuità un po’ confusa dell’insieme, perchè le variazioni di tono fra le varie parti del racconto, risultano a volte particolarmente dissonanti, e tali da creare una disomogeneità disturbante.
Si potrebbe immaginare che non ci sia stata “sintonia assoluta” fra il romanzo e il regista (o forse più semplicemente, lo scarto è attribuibile alle convenzioni hollywoodiane del periodo, che certamente hanno influito nel richiedere e “pretendere” soluzioni tese ad edulcorare fortemente la vis polemica rintracciabile nel libro da cui trae origine, così macroscopicamente posticce, da far poi risultare più marcata questa dicotomia), perché sulla carta, Mann sembrava possedere tutte le caratteristiche necessarie per trasformare in efficaci immagini le desolate atmosfere del racconto, ed affrontare con un vigore analogo a quello che lo aveva sorretto nel rappresentare l’epopea degradata dell’Ovest, anche la irreversibile decadenza del Sud. Invece questa volta si avverte una certa inconsueta “titubanza” ad osare, come se gli avesse fatto improvvisamente difetto proprio la capacità di “pigiare il pedale fino in fondo” che invece è indispensabile quando si parla di quelle terre e di quei “conflitti” (come dimostrano tutti i grandi autori che si sono cimentati con successo con quelle sanguigne saghe familiari), in modo da potersi così fermare qualche passo prima della “catastrofe”, optando per un difficilmente proponibile riscatto finale di dubbia matrice cattolica che francamente ci sta un poco come il cavolo a merenda.
Eppure si tratta di un film che Mann ha molto amato (lo ha più volte ribadito, non nascondendo il rammarico per l’esito infausto del risultato non solo sotto il profilo degli incassi, ma anche come riscontro critico). Un progetto dunque per lui molto importante e sostenuto con speciale dedizione. Cos’è allora che questa volta non ha funzionato come sarebbe stato necessario, al di là dei conosciuti limiti imposti dal sistema hollywoodiano, altre volte per altro “disinvoltamente” aggirati con la capacità istintiva di chi sa come operare per salvare “capra e cavoli”? Credo (e penso di essere nel giusto) che la responsabilità principale sia attribuibile proprio a una sceneggiatura “difettosa” (non a caso mal giudicata anche da suo autore ufficiale, Philip Yordan, che la considerava troppo teorica e non abbastanza fisica, una valutazione fortemente negativa, visto il tema e il contesto, che lui ovviamente estendeva anche al risultato del film stesso, inficiato per altro proprio da quei troppo frequenti e improvvisi cambi di marcia previsti dallo script che disarticolano il percorso). La cosa è abbastanza sorprendente, poiché anche se non accreditato, sappiamo per certo che anche Erskine Caldwell, l’autore appunto del romanzo di partenza, ha collaborato attivamente alla sua stesura, e quindi le modifiche, non avrebbero dovuto apparire così arbitrariamente contrastanti ove non fossero state originate da un cambiamento sostanziale del pensiero del suo autore. E’ particolarmente significativa infatti (quasi impressionante, direi) la modalità con la quale viene inserita, in un percorso così fisicamente carnale, la presenza prevaricante della Chiesa (o meglio della religione, intesa come elemento pietrificato e inamovibile di "pensiero dominante") che è una posizione abbastanza frequente e diffusa in molto del cinema americano “impegnato” di quegli anni, ma assolutamente estranea non solo alla visione generale del regista, ma anche a quella dello scrittore, almeno riferendosi a ciò che sapevamo di lui anche attraverso i suoi scritti in quel momento (le successive modificazioni intervenute avrebbero fatto cambiare notevolmente – almeno per quel che mi riguarda – la considerazione positivista rispetto al suo lavoro innovativo che, se rimane in ogni caso importante, si ridimensiona poi con gli esiti meno felici della decadenza che, come spesso è accaduto in America, finiscono per radicalizzate concezioni opposte e probabilmente molto più reazionarie di quanto poteva emergere da quegli esordi sorretti da un crudo realismo pervaso di pessimismo, e vivificati da una prosa “irriverente” con forti venature orientate verso il grottesco graffiante e caustico).
Confesso che io ho vissuto sempre Caldwell come un sopravvalutato autore, aiutato qui in Italia proprio dalla straordinaria opera dei suoi traduttori che mi sembra lo abbiano fortemente “rigenerato” rendendolo più importante e profondo di quanto non fosse davvero la sua scrittura “originaria”, grazie alla mediazione del loro stile, e di ciò che immaginavano di “intravederci” dietro. Non va dimenticato che Caldwell è stato proprio una delle più “eclatanti” scoperte che hanno reso particolarmente qualificata ai nostri occhi praticamente tutta la letteratura americana del periodo, all’indomani della fine dell’embargo fascista, quando finalmente si è potuto davvero recuperare la conoscenza di quello che ci era stato negato per i troppi, lunghi anni di autarchica nostrana, e si è fatto così di molte erbe di differente valore e portata, un solo fascio da esaltare… Vittorini, per esempio che quella narrativa, leggendo Caldwell, la definiva proprio come l‘alba del neorealismo (di un determinato realismo, naturalmente, che poi, cinematograficamente parlando, sarebbe esploso per dare i suoi migliori frutti, proprio qui da noi) anche se in seguito fi poi costretto a ridimensionare un poco il suo posizionamento critico, confrontandosi con ciò che era venuto dopo, cosa che lo portò a scrivere con un po’ di amaro in bocca nel suo “Diario pubblico”: Contavo molto su Erskine Caldwell, ma Caldwell si è ritirato così indietro da quanto prometteva di neo leggendario in God’s little acre e Journeymen, che oggi si confonde coi più estemporanei produttori di letteratura industrializzata.
E per molti, questo tirarsi indietro del romanziere, il suo “arretrare” anche ideologicamente, coincide proprio con il momento in cui si realizza - grazie anche al suo contributo diretto - questa versione cinematografica del suo Il piccolo campo, che segna appunto l’inizio della “decadenza”.
Al di là delle riserve, comunque, i personaggi dello scrittore, per lo meno quelli della sua “prima maniera”, appartengono alla razza dei “giganti” perdenti che muoiono lentamente, si disintegrano loro malgrado schiacciati dal mondo e dalle ferree regole di una società classista che non è mai dalla parte dei perdenti, e per questo (e Il piccolo campo è un esempio a suo modo fondamentale ed eclatante) sono comunque liberati - esenti direi - da tutte le convenzioni cristiane, poiché la loro epopea è in fondo quella brutale della fame e del desiderio sessuale, per cui l’erotismo esplode con una esuberanza selvaggia, quasi bestiale. E’ indubbio che in questo associare l’erotismo alla fame, nel descrivere la cronaca giornaliera dei poveri bianchi emarginati, ci si rifà non solo a Budda (La fame e l’amore costituiscono il germe di tutta la storia umana), ma soprattutto a Schiller (La fame e l’amore dirigono il mondo), e questa prerogativa o convinzione, è avvertibilissima non solo in Caldwell, ma anche in altri importanti romanzieri della sua epoca e della sua tendenza, poiché esplicitano chiaramente come proprio la violenza e la brutalità eversiva di una tendenza naturale e incontrollata contrapposta all’amore fisico inteso come manifestazione di un mito sacro, di una religione riconosciuta e assecondata, rappresentino per loro l’equivalente letterario del disordine del loro comportamento, ne mettano in primo piano le contraddizioni evidenti. Non si può di conseguenza trarre un film da un romanzo di siffatta natura, senza rispettarne l’etica. E’ quindi singolarmente disturbante, proprio in questa ottica, che il finale del film, così impropriamente diverso da quello del libro, abbia un andamento in fondo fortemente edificante, trasformandosi in una specie di sincretismo pagano-cattolico la cui natura è tanto lontana dal vero folklore, quanto prossima ai compromessi, proponendoci una chiusura dolciastra, posticcia, quasi lieta, che non ha alcuna soluzione di continuità con il contesto, e che lascia per questo sconcertati, proprio perchè si “modificano “ all’improvviso - e pesantemente - le carte, fino a renderle del tutto estranee dal resto del racconto, con quel risolvere il tutto con una differente e chiaramente falsa, ritrovata “moralità”, che corrisponde a una concezione “filosofica” quasi meccanica, che c’entra poco o niente con il testo di partenza.
Contrariamente alle intenzioni del romanzo, il film vorrebbe forse che fosse lo spettatore a concludere, a risolvere le situazioni, a non lasciarle sospese, a darsi le risposte, ma questo non cambia la visione delle cose, perché in ogni caso vengono a mancare importanti elementi di supporto per una eventuale “revisione” critica, e le tracce che lascia – ampiamente insufficienti a causa di quelle soluzioni troppo accomodanti - finiscono per cozzare pesantemente con la necessità che si avverte profonda di portare avanti fino in fondo, il “grido di protesta” dell’enunciato: tutt’al più, e sarebbe già stata una concessione molto forte, il film poteva eventualmente terminare con una comunque retorica invocazione del protagonista del tipo Domani, forse, sarà un giorno migliore e sarebbe forse già stato un danno irreparabile, ma qui invece si va ben oltre, optando per una improvvisa e abbastanza “ridicola” invocazione al Signore e alla Grazia (Dio, dammi la forza!) che ha davvero ben poco a che spartire con tutto quello che è venuto prima, e sopratutto con la religione primitiva, con il cristianesimo degli evangelisti ambulanti, fondamenti portanti dei libri di Caldwell.
Severamente giudicato all’epoca, può essere adesso in parte rivalutato, non solo per una ben orchestrata caratterizzazione del contesto iniziale abbastanza coinvolgente e una appropriata definizione dei rapporti, ma anche e soprattutto per la straordinaria forza con la quale viene rappresentato il protagonista, un Robert Ryan, attore sempre di prim’ordine, che qui ci offre una raffigurazione davvero superlativa e di straordinaria pregnanza – di “statura biblica”, qualcuno l’ha definita – del cocciuto, roccioso, capofamiglia inarrendibile e inaffondabile. Sufficientemente carnale e sensuale, la prosperosa Tina Louise, rossa “maggiorata fisica” dell’epoca, e ben caratterizzati tutti gli altri, soprattutto i due figli, ai quali danno appropriato volto e adeguata fisicità, Vic Morrow e Jack Lord.
Sulla trama:
Convinto che il nonno vi abbia nascosto dell’oro (siamo in piena depressione) un povero contadino della Georgia crivella il suo terreno di buche, aiutato dai suoi due figli, alla ricerca del tesoro, cercando nel contempo di tenere unita la rissosa famiglia che sta andando a catafascio. Finalmente però comprende l’inutilità di seguire false illusioni e che il vero tesoro è la terra stessa, che ricomincia a coltivare.
Il piccolo campo (1958)
di Anthony Mann con Robert Ryan, Aldo Ray, Buddy Hackett, Jack Lord, Fay Spain, Vic Morrow, Helen Westcott, Lance Fuller, Rex Ingram, Michael Landon
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