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Venezia 2011, Giorno 6 - Lunedì 05/09: Cavalli, Louise Wimmer, Pugni chiusi, Io sono Li, Girimunho, A Simple Life, Andata e ritorno, Caldo grigio caldo nero, La Talpa, Amore Carne, Questa storia qua, Edut e Dark Horse
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Giro di boa al Festival di Venezia. Dopo essere rimasti ammaliati dalla Terraferma di Crialese, maledettamente nostalgici con Pivano Blues, allarmati dalla pornografia incestuosa di Shame di Steve McQueen e incantati da Wilde Salome di Al Pacino, si arriva ad una giornata in cui è difficile stabilire cosa sia più importante o meno tra i titoli del Concorso e quelli delle altre sezioni, dove su tutti spiccano il documentario su Vasco Rossi e i senza parole di Pippo Delbono.

 

Andiamo con ordine.

 

Apertura alle ore 11 con Controcampo in Sala Grande. Per i Cortometraggi è di scena la seconda opera di questa sezione diretta da Elisabetta SgarbiProve per un naufragio della parola:

 

Prove per un naufragio della parola (2011)

di Elisabetta Sgarbi con Fabrizio Gifuni, Sonia Bergamasco

 

«Due naufraghi (Fabrizio Gifuni e Sonia Bergamasco) recitano l’impossibilità del dialogo, dialogando e provando e riprovando a farlo, e ricordando come e quando provavano a farlo. E, risospinti, ogni volta e di nuovo, sempre al punto di partenza, ricominciano di nuovo con rinnovata energia. Sulla installazione di Claudio Parmiggiani, presso la Chiesa di San Marcellino di Parma, dove una nave plana e decolla, si erge e si inabissa in un mare silenzioso di veri libri, metto in scena un dialogo magistrale dello scrittore Edoardo Nesi. Un dialogo dedicato all’amore, di un uomo e di una donna dei giorni nostri e di sempre, di una coppia che si ama o almeno tenta di farlo».

 

 

Segue l’esordio alla regia di Michele Rho con l’affresco letterario di fine Ottocento, Cavalli, ambientato nella Maremma toscana e con un’Asia Argento di cui ci si libera già all’inizio e un gigantesco Michele Alhaique, un nome che tornerà alla ribalta nei prossimi giorni e sempre nella stessa sezione:

 

«Quando ho letto per la prima volta il racconto “Cavalli” ho provato una piacevole sensazione di déjà vu, come se nella mia testa questa storia esistesse già, come se l’avessi vissuta in prima persona. “Cavalli” ha il sapore di quelle storie che ti raccontano da piccolo. Storie che ti rimangono dentro anni per poi essere raccontate di nuovo.

Questo film parla di qualcosa di ancestrale e di animalesco: è la storia di un amore fraterno, forte, violento, viscerale e indispensabile. Parla di un amore per chi c’è e per chi non esiste più. È la storia di un’amicizia che non finirà mai. È la storia di una crescita. Del camminare insieme condividendo la stessa strada per poi dividersi.

 La realizzazione di Cavalli è stato un ‘viaggio’ difficoltoso. Una montagna difficile da scalare. Per quanto il percorso fosse chiaro fin dall’inizio e il punto di arrivo forte nella mia testa spesso mi sono trovato in balia dei capricci della Natura: maltempo, animali inquieti, infortuni e quant’altro.

Fu chiaro fin da subito che per arrivare in cima alla vetta avrei dovuto essere pronto a stravolgere i miei piani, a cambiare sentiero scoprendone dei nuovi più tortuosi e accidentati.

Infatti, per quanto mi ostinassi a voler “domare” il film e a portarlo dove volevo io, questo mi sfuggiva dalle mani, mi si rivoltava contro conducendomi altrove.

Lui non si sarebbe semplicemente piegato al mio volere. Dunque ho deciso di assecondarlo dolcemente trovando un punto d’incontro e sfruttando tutti gli imprevisti che quotidianamente mi si prospettavano.

Solo così sono riuscito ad arrivare in cima, passando per luoghi che mai mi sarei immaginato.

E come tutti i viaggi quando arrivi a destinazione ti guardi indietro e ti scopri cambiato, diverso. Non sei più la stessa persona che eri prima di partire. Ti chiedi come hai fatto a fare tutta quella strada.

I miei compagni di viaggio sono stati fondamentali in questo percorso e meriterebbero di essere ringraziati uno ad uno.

Ora che Cavalli è finito lo guardo e ne sono orgoglioso perché in esso ritrovo forte l’idea del film che volevo fare».

 

 

Alle 11 in Sala Perla dà il suo buongiorno anche la sezione Orizzonti con la proiezione del mediometraggio Accidentes Gloriosos di Mauro Andrizzi e Marcus Lindeen, un percorso artistico sulla morte avvenuta in seguito ad “incidenti gloriosi” in cui anche uno scontro tra auto si trasforma in installazione visiva:

 

Accidentes Gloriosos (2011)

di Mauro Andrizzi, Marcus Lindeen con Cristina Banegas, Lorena Damonte

 

«Non ci eravamo mai incontrati prima di girare questo film. Ci ha unito un progetto del festival danese CPH:DOX che prevedeva la realizzazione di un film entro un anno e con un budget ridotto. Mentre lavoravamo alla sceneggiatura, abbiamo visto un film che menzionava il concetto di “incidente glorioso“, un incidente che non provoca soltanto vuoto e disperazione, ma in qualche modo misterioso cambia il destino della gente. Lo spunto dell’incidente glorioso ci ha portati a discutere di narrazione, casualità e attrazione per l’ignoto. Dopo dieci giorni trascorsi a guardare centinaia di spezzoni di vecchi telegionali, abbiamo concepito le basi di un film sull’oscurità, la ricerca dell’orgasmo perfetto e i buchi senza fondo».

 

 

La Settimana della Critica alza la saracinesca alle 14 in Sala Darsena con la proiezione del film francese Louise Wimmer di Cyril Mennegun che si confronta con la nuova povertà raggiunta da una donna benestante ed altezzosa ritrovatasi da un giorno all’altro con la sola auto come tetto:

«Il benessere è una bolla destinata a scoppiare in qualsiasi momento. Lo è tanto più ai giorn nostri, segnati da una crisi economica mondiale che dopo aver travolto le classi sociali più deboli ha cominciato a lambire quella borghesia che sembrava solida e inattaccabile. Anche Louise Wimmer ha per anni vissuto un’esistenza placidamente borghese: una casa ben arredata, l’affetto del marito e della figlia, il piacere di possedere oggetti inutili eppure ugualmente ritenuti necessari. Poi, dall’oggi al domani, il baratro. Quando nella prima inquadratura la sua immagine invade lo schermo, tutto si è già compiuto. Il presente è fatto di giornate tutte uguali a lavorare come cameriera in un hotel e di notti al freddo con il solo riparo di una vecchia auto. Il passato è cancellato per sempre, intuibile però dagli oggetti simbolo di benessere che di tanto in tanto la donna porta al banco dei pegni: un servizio di posate d’argento, un foulard firmato, un set di pentole nuovo di zecca. Quel superfluo da cui stenta a separarsi e che per questo custodisce gelosamente in un garage in affitto. Ma se l’esistenza borghese si è disgregata, intatto è il senso della superiorità di classe che Louise ha trasformato in rabbia cieca contro tutto e tutti. Una rabbia coltivata con disperata caparbietà quasi a voler prendere le distanze da quanti le tendono una mano. Perché Louise, nonostante la durezza del carattere e una naturale antipatia, trova lungo il suo cammino persone disponibili ad aiutarla. Se infatti l’ex marito l’ha abbandonata, un altro uomo è ora al suo fianco. Un amante disponibile e affettuoso che pure la donna tiene a distanza relegando i loro rapporti ai meri incontri di sesso. Né diversamente si comporta con la figlia. Louise vuole farcela da sola, a rischio di sembrare dura, antipatica, testarda. Non è che una maschera chiaramente, per quanto non scalfibile. Eppure è proprio la scelta di presentare una protagonista tanto incomprensibilmente rigida da risultare irritante, l’arma vincente di un film che mira a rappresentare una tragedia dei nostri giorni senza ricattare lo spettatore attraverso un personaggio commovente. Louise non fa nulla per farsi amare, ma lo stesso a toccare nel profondo è l’idea che la sua caduta potrebbe essere la nostra. Così come la risalita, che la donna persegue con forza esemplare contando solo su se stessa. La chiave scelta è quella di un’adesione viscerale al reale dalla quale è bandita ogni edulcorazione e che anzi privilegia il pedinamento senza sosta della protagonista alle prese con i problemi quotidiani e con la fatica di vivere». 

 

 

 

Riflessione d’attualità per Controcampo alle 15 in Sala Grande con la proiezione del documentario Pugni chiusi di Fiorenza Infascelli in cui si ripercorre la triste vicenda degli operai dello stabilimento petrolchimico di Porto Torres e il loro singolare caso di protesta “carceraria”:

 

Pugni chiusi (2011)

di Fiorenza Infascelli

 



«Ero stata invitata a Gavoi per ricevere un premio. È lì che ho incontrato Pietro e gli operai della Vinyls e così ho scoperto la lotta che stavano conducendo sull’isola dell’Asinara. Parliamo, mi raccontano la loro storia, mi coinvolgono, mi emozionano. Dieci giorni dopo sono sull’isola e passo una giornata con loro nel carcere dove si sono autoreclusi. Venti giorni dopo sono di nuovo lì con una piccola troupe e comincio a girare. Torno a Roma, ma non sono soddisfatta. Ritorno sull’isola e giro ancora altro materiale. Il documentario cresce da solo. Un racconto dopo l’altro. Le immagini del carcere, i loro volti, le emozioni. E poi i sogni interrotti, l’equilibrio psicologico che vacilla, il sentirsi persi. E soprattutto, la lotta che li ha uniti. Ora riguardo il film e scopro che è anche un pezzo di me».

 

 

*****SPECIALE IO SONO LI*****

Alle 17 in Sala Darsena le Giornate degli Autori proiettano l’esordio alla regia di finzione del documentarista Andrea Segre con Io sono Li, favola d’integrazione e poesia sullo sfondo dell’incrocio di tre culture - italiana, cinese e dalmata -, pellicola di cui si dice un gran bene negli Stati Uniti tanto che qualcuno avrebbe auspicato la presenza in Concorso:

 

io sono Li (2011)

di Andrea Segre con Zhao Tao, Rade Serbedzija, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston

 

«L’idea del film nasce da due esigenze: da una parte la necessità di trovare in una storia, allo stesso tempo realistica e metaforica, il modo per parlare del rapporto tra individuo e identità culturale, in un mondo che sempre più tende a creare occasioni di contaminazione e di crisi identitaria; dall’altra la voglia di raccontare due luoghi importanti per la mia vita e molto emblematici nell’Italia di oggi: le periferie multietniche di Roma e il Veneto, una regione che ha avuto una crescita economica rapidissima, passando in pochissimo tempo da terra di emigrazione a terra di immigrazione.

In particolare, Chioggia, piccola città di laguna con una grande identità sociale e territoriale, è lo spazio perfetto per raccontare con ancora più evidenza questo processo.

Ricordo ancora il mio incontro con una donna che potrebbe essere Shun Li. Era in una tipica osteria veneta, frequentata dai pescatori del luogo da generazioni. Il ricordo di questo volto di donna così estraneo e straniero a questi luoghi ricoperti dalla patina del tempo e dell’abitudine, non mi ha più lasciato. C’era qualcosa di onirico nella sua presenza. Il suo passato, la sua storia, gli spunti per il racconto nascevano guardandola.

Quale genere di rapporti avrebbe potuto instaurare in una regione come la mia, così poco abituata ai cambiamenti? Sono partito da questa domanda per cercare di immaginare la sua vita.

Io sono Li è anche un punto di sintesi del mio percorso registico nell’ambito del cinema-documentario, attraverso cui mi sono occupato negli ultimi dieci anni principalmente di due temi: le migrazioni verso l’Europa (A metàA sud di LampedusaCome un uomo sulla terraIl sangue verde) e il territorio sociale e geografico del Veneto (Marghera Canale NordPescatori a Chioggia e La mal’ombra).

Le varie esperienze di regia con il cinema documentario mi hanno permesso di apprezzare il racconto non solo del reale, ma anche nel reale, aiutandomi a capire come con esso sia possibile scoprire la dimensione intima e profondamente umana della realtà, anche di tematiche urgenti ed attuali della società odierna.

In Io sono Li ho voluto rispettare modi e stili conosciuti nel cinema-documentario, lavorando anche con attori non professionisti e scegliendo sempre location del mondo reale.

Al tempo stesso la precisione e la sottigliezza del linguaggio cinematografico orientale e di alcuni importanti esempi del cinema indipendente internazionale sono state tracce importanti per riuscire a raccontare le atmosfere e i luoghi che ho scelto per questo film».

"Sei ore cala e sei ore cresce.

La laguna cambia spesso faccia e colore.

Perché l'acqua entra e esce, la marea cala e cresce. Ogni sei ore.

E quando cambia l'acqua in laguna cambia tutto.

Tranne il silenzio. Il silenzio c'è sempre.

Sta lì.

Dolce, infinito e debole.

Ferma il tempo.

Regala alla mente lo spazio del pensiero.

Ospita storie e memorie che non sapevi di conoscere.

E non ti lascia mai solo.

Come una madre.

Come il sorriso e il pianto di una madre.

È questo Shun Li, il dolce dolore di una madre nel silenzio profondo della laguna.

Ed è per questo che Shun Li ha la forza di far tremare il vecchio mondo di un'osteria di pescatori.

Farlo innamorare. Fargli paura. Farlo cambiare.

È impossibile non ascoltare il vento di Shun Li ed è triste decidere di attaccarlo o isolarlo.

Purtroppo è ciò che il nostro mondo ha deciso di fare.

Ma è anche ciò che il cinema può raccontare".

Andrea Segre

 ***************

 

 

 

Allo stesso orario (17) ma in Sala Perla e per Orizzonti si assiste alla prima del docufilm brasiliano Girimunho di Helvécio Marins Jr. e Clarissa Campolina, con protagoniste due straordinarie donne anziane che faticano ad accettare il tempo che trascorre:

 

Swirl (2011)

di Helvécio Marins Jr, Clarissa Campolina con Maria Sebastiana, Martins Alvaro, Maria da Conceição, Gomes de Moura

 

«In Girimunho il tempo sembra fermarsi pur essendo in continuo movimento. Nel cuore del sertão brasiliano, gli avvenimenti onirici popolano l’immaginazione degli abitanti, mescolandosi agli episodi prosaici della loro vita. Abbiamo voluto ritrarre il sertão da un punto di vista soggettivo e profondo, ponendo la realtà come punto di partenza per tutto il resto. I personaggi sono persone reali che vivono a São Romão. Le storie che raccontano appartengono alla loro memoria, le loro case sono diventate il set del film, senza interferire con l’arte, perché abbiamo trovato tutto quello che ci occorreva, pronto per essere filmato, mantenendo la massima autenticità. Le persone che hanno ispirato questo film ne sono poi diventate gli interpreti».

 

 

Sempre alle 17 in Sala Grande via al primo titolo in gara in ConcorsoA Simple Life di Ann Hui, poesia che attraverso le immagini ribalta la vita di due persone che si conoscono da oltre 60 anni, una governante e un bambino che si ritrovano indivisibili a parti rovesciate:

«Mi sento molto fortunata ad aver realizzato un film con tutti gli elementi che amo di più: storia vera, approccio documentaristico, taglio lirico, umorismo, pathos e attori improvvisati accanto a divi celebri! Com’è mia abitudine, racconto una storia di vita che può appartenere a chiunque ma non dimentico lo sguardo all’attualità. In un momento in cui si discute di rapporti in bilico tra lavoratori e datori di lavoro, io indago nell’intimo e rovescio le parti, dimostrando che prima dei soldi o degli affari vengono i sentimenti e la devozione con cui ci si può legare in eterno».

 

 

 

Controcampo presenta dalle 17 un omaggio alla Sicilia con la proiezione in Sala Volpi del work in progress di Donatella Finocchiaro Andata e ritorno, una dichiarazione d’amore alla sua Catania e all’isola in generale, accompagnata dai ricordi costanti di chi quell’isola la saluta spesso:

 

Andata e ritorno (2011)

di Donatella Finocchiaro con Franco Battiato, Carmen Consoli, Ida Carraro, Lucia Sardo

 

«Andata e ritorno da Catania così come ho fatto sempre in tutti questi anni. E ogni volta che ritornavo trovavo delle differenze: le stesse strade, le stesse piazze, ma la città è diventata più triste, più cupa. Dov'è finita la mia città? mi sono chiesta. Che cos'è questa bolgia? Cos'è cambiato? E ogni volta che incontravo artisti, musicisti, attori o i vecchi amici, capivo che è un sentire e un malessere comune che appartiene a tutti. Ho cominciato quasi per scherzo, giuro, a pensare a un documentario che raccontasse quegli anni rock e quella felicità creativa e cosa ci sta succedendo adesso.

È un atto d'amore per la mia città. Un documentario di costume, non di denuncia, in cui si testimonia un boom artistico, musicale, di vita e anche il legame fortissimo che tutti questi artisti vivono, come il profondo legame con la Sicilia che ha Battiato o quello che ha Carmen Consoli. Non vanno mai via veramente. Questa è una terra di bellissima ispirazione, magica e tribale che esercita una grande attrazione.

Di quegli anni "e di quel fermento culturale" ci sono quasi tutti, da Francesco Virlinzi, con la sua etichetta, da dove tutto è partito, a Saro Nievsky (il primo pub aperto in centro), Emma Scialfa, Antonio Presti, Ida Carraro (ho desiderato di diventare attrice dopo aver visto lei in scena), Luca Madonia, Roy Paci, Alfio Antico, Rita Botto. Tutti raccontano che sono tornati perché si sentivano necessari per questa città. Senza troppo celebrarsi. C'è molta autoironia, con la teorizzazione della resistenza della cipollina e dell'arancino sull'hamburger avanzata da Vincenzo Gangi, ex Kunsertu ed ex Dounia (che firma la colonna sonora).

Tutte le persone che ho intervistato provano lo stesso sentimento per questa città, me compresa: amore e odio. A 20 anni la vivevo come una prigione, volevo scappare, anche se ho vissuto nella Catania migliore, sono stata fortunata. Oggi invece sento un richiamo, ho bisogno di tornare in Sicilia, di sentire il profumo di gelsomino e di casa. Questa città ci tiene tutti legati a sé».

 

 

All’amore e odio della Finocchiaro, fa eco Caldo grigio caldo nero dello scenografo Marco Dentici, sull’alluvione di Giampilieri e di cui abbiamo già parlato qui:

 

Caldo grigio, caldo nero (2011)

di Marco Dentici con Maria Grazia Cucinotta, Nino Frassica, Ninni Bruschetta, Valentina Vitale, Filippo De Luca, Domenico De Francesco

 

«Caldo grigio, caldo nero è un tentativo di ridare dignità alle comunità ferite, alle persone balzate con la loro morte all'effimera notorietà, così come i loro semisconosciuti paesi. Per il diritto delle nuove generazioni ad avere un futuro normale.

Girato nell'arco di un anno e mezzo, il film si avvale di riprese effettuate con telecamere professionali, con telefoni cellulari e videocamere amatoriali. Uno stile asciutto per una vicenda che va ben oltre la cronaca, fatta di segmenti di storie tracciati dagli occhi di un disperso senza nome. O dagli occhi di chi riavvolge il nastro della propria esistenza. E parlarne con la voce dei ricordi per non dimenticare». 

 

 

 

Ore 19:30, in Sala Grande torna il Concorso, con uno dei titoli più attesi di questa stagione cinematografica, Tinker, Taylor, Soldier, Spy dello svedese Tomas Alfredson e con interprete il fresco premio Oscar Colin Firth:

 

«Quando conobbi John le Carré, fu subito molto eloquente riguardo ai suoi desiderata relativi alla versione cinematografica tratta dal suo romanzo Tinker,Taylor, Soldier, Spy; “La prego, non realizzi il film del libro nè un remake della miniserie TV. Esistono di già. Non ho intenzione di interferire, ma può chiamarmi quando vuole se avesse dubbi o curiosità.

Credo che gli abbiamo ubbidito alla lettera.

Naturalmente non si può inserire ogni dettaglio presente in un romanzo di 349 pagine in un film. Ma si possono prendere i temi, cogliere gli elementi e delineare i momenti per cercare di descrivere quanto accade.

Con Tinker, Taylor, Soldier, Spy credo di aver realizzato un film sulla fedeltà e sugli ideali, valori che sono di grande attualità – principalmente perchè forse sono così rari di questi tempi?» (Tomas Alfredson, regista).

La Talpa (2011): Trailer Originale

«Mi sono accostato alla prospettiva di un lungometraggio tratto da Tinker,Taylor, Soldier, Spy con la stessa apprensione che avrebbe colto chiunque avesse amato la serie televisiva realizzata trentadue anni fa.

George Smiley era Alec Guinness. Alec era George: punto. Un altro attore come avrebbe potuto uguagliarlo o, figurarsi, superarlo?

E poi come poteva un regista di cinema, nonostante fosse celebre come Tomas Alfredson, raccontare la stessa storia intricata nel minimo spazio di un paio d’ore?

La serie televisiva aveva richiesto sette episodi. E comunque la si voglia girare, uno sceneggiato televisivo rimane pur sempre un programma radiofonico con le immagini, mentre oggi giorno i lungometraggi parlano a malapena.

I miei timori erano mal riposti. Alfredson ha realizzato un film che a mio parere funziona in maniera superba e che mi riporta a retroscena del romanzo e dei suoi personaggi che la serie televisiva di trentadue anni fa non ha svelato.

Il personaggio di Smiley interpretato da Oldman tributa pieni onori al genio di Guinness. Evoca la stessa solitudine, isolamento, dolore e intelligenza che il suo predecessore aveva incarnato nel ruolo – perfino la stessa eleganza.

Ma lo Smiley di Oldman, dal momento in cui appare sullo schermo, è un uomo in paziente attesa di esplodere. Il pericolo, la furia repressa e l’umanità che quasi non riesce a rimanere a galla sulla disperazione sono il marchio di fabbrica impresso da Oldman soltanto. Se dovessi incontrare lo Smiley interpretato da Alec Guinness in una notte buia, il mio istinto mi spingerebbe a cercare la sua protezione. Se incontrassi quello di Oldman, credo che scapperei a gambe levate.

Il film, dal mio personalissimo punto di vista, è un trionfo. E se mi scriveranno dicendo ‘Come hai potuto permettere che questo accadesse al pover Alec Guinness,’ io replicherei che, se ‘il povero Alec’ avesse assistito alla prova attoriale di Oldman, sarebbe stato il primo ad alzarsi per tributargli una standing ovation.

Non è il film del romanzo. È il film del film, e a mio parere un’opera d’arte a pieno titolo. Sono orgoglioso di aver consegnato a Alfredson il mio materiale, ma ciò che ne ha realizzato è meravigliosamente suo». (David Cornwell, sceneggiatore).

 

 

 

 

 

*****SPECIALE AMORE CARNE*****

Per chi vi scrive, però, il vero grande evento della giornata è la proiezione alle 21 per Orizzonti in Sala Perla di Amore carne di Pippo Delbono, una confessione che mette a nudo un uomo in maniera pubblica e privata, un grido dell’anima:

 

«Un viaggio tra un'esperienza di morte e un desiderio di vita. Un viaggio che ho fatto portando con me un telefonino e una piccola camera, mezzi leggeri che mi hanno permesso di guardare e di essere guardato. Di usare la camera come un movimento degli occhi. Gli occhi che guardano camminando, si fermano, rallentano, cercano, sono insicuri, scoprono.

C’e la memoria ancora presente di una carne malata ferita ma c’e anche il mio desiderio di trasformare la ferita in una nuova linfa.

C’è il desiderio degli altri, il bisogno degli altri, c’è il mio cercare di cogliere con la camera quegli attimi irripetibili, veri. C‘è il desiderio di raccontare attraverso un cinema che non vuole documentare la realtà ma guardarla diventare sogno, poesia. Per cercare quelle linee segrete che uniscono le cose che non capiamo. Per scoprire sceneggiature nascoste, trame nascoste che stanno dietro all’apparente casualità delle cose».

 

CONVERSAZIONE CON PIPPO DELBONO

Come nasce Amore Carne?

Forse nasce da queste due parole che mi sono portato dentro mentre filmavo in questo anno e mezzo in giro per il mondo: Amore Carne.

 

Come La Paura anche Amore Carne si avvale di riprese effettuate col cellulare.

Ho usato anche una camera full-HD, molto piccola, che stava in una mano. Il telefonino e queste piccole camere ti permettono di avere grande libertà. Ma rischi anche di filmare tutto. Per questo io seguivo, cercavo e anche costruivo a volte, delle situazioni molto precise, anche se altre volte riprendevo le cose che mi venivano inaspettatamente addosso.

Ma c’era alla base sempre una necessità di riprendere “certe cose” e non altre. Una sceneggiatura scritta forse più nello stomaco che sulla carta. E poi, a volte, nelle riprese fatte con questa piccola camera, proprio per la qualità “diversa” dell’immagine, scoprivo qualcosa di speciale in un viso, in un paesaggio, in un taglio di luce. Come quando guardi un quadro impressionista, e proprio per quella scomposizione dell’immagine ne cogli l’anima più profonda.

 

É anche una questione di sguardo?

Sono le cicatrici di cui parlo nel film. Queste cicatrici nell’occhio destro, con cui convivo da trent’anni, mi hanno insegnato a guardare un po’ di più. Sono loro che mi hanno spinto a fare il regista. Pur limitandolo, hanno acuito il mio modo di vedere. Il cellulare, poi, ha la capacità di non creare imbarazzo. Tu guardi ma sei anche guardato. Le persone che filmo non guardano la macchina che li filma ma la persona che tiene quella piccola macchina. Il cellulare non ha il potere della “macchina cinema” che ti sta afferrando e portando via qualche cosa. È come lo sguardo di un bambino: non crea imbarazzi, censure, paure… è un cinema leggero, che ti da la capacità di danzare. Il cellulare permette di riprendere seguendo il ritmo degli occhi: gli occhi che cercano le cose, che indietreggiano, che prendono coraggio, che si fermano, gli occhi che aggrediscono, che guardano e che si lasciano guardareCosì le riprese svelano stati d’animo, come quando a Istanbul combattendo la mia paura per gli uccelli mi sono messo a filmarli, mettendomi quasi addosso a loro.

O come quando nell’altro film che ho girato con il telefonino, La paura, sono andato al campo rom senza sapere cosa sarebbe successo. Ma allo stesso tempo i miei occhi inseguivano la storia che sentivo l’urgenza di raccontare: la condizione orribile in cui vivono gli zingari nel nostro paese. Però in quella situazione mi sono lasciato anche la libertà di scoprire qualcosa di diverso da quello che volevo raccontare, e così ho trovato in quel luogo terribile altre storie che mi parlavano invece di accoglienza, di dolcezza...

 

Nei tuoi film e in particolare in questo si ritrova l’idea di una famiglia. Non la famiglia biologica ma quella composta da amici, presenti e assenti, conoscenze di vecchia data e nuovi incontri…

Mi piaceva l’idea di dare forma nel film a una rete d’incontri. Alcuni di questi amici non ci sono più, come Pina Bausch o Michael Galasso. Lui ha fatto le musiche per alcuni miei spettacoli, mi ha dato dei brani inediti che, poi ho usato in questo film, proprio poco prima che morisse. È stato un incontro importante. Poi c’è Laurie Anderson, che è diventata un’amica, e con cui si è stabilita una relazione profonda. C’è Alexander Balanescu, con il suo violino suonato come un urlo dell’anima, che qui è anche l’amico che mi racconta delle storie di altri paesi, di altri mondi… Il violino ha poi per me un significato particolare: mi riporta alla luce la storia di mio padre, mi parla di ritorni… E poi ci sono Marisa Berenson, Irène Jacob, Marie-Agnes Gillot… Sono persone che sono entrate nella mia vita. E io nella loro. Per questo sono lì, nel film. Io non sono andato a cercarle, come si scritturerebbe un attore; ci siamo incontrati e abbiamo percorso un tratto di vita insieme. È come un universo che si sta creando attorno alla mia compagnia. E poi c’è Bobò, l’attore sordomuto analfabeta che lavora con me da 15 anni e viene da una storia di 50 anni di manicomio. Questi incontri disegnano quei fili che uniscono le cose, di cui spesso nella vita non ci rendiamo neppure conto. Bergman diceva: “Ognuno traccia intorno a sé un cerchio magico e lascia fuori tutto quello che non entra nei suoi giochi segreti”. È un po’ questo forse, no? Questo cerchio si disegna anche attraverso le apparenti coincidenze, che possono essere cromatiche, ritmiche musicali, pittoriche. Mi piace pensare alla sceneggiatura di un film come a una rete che cerca di ritrovare nelle apparenti casualità della vita questi fili ‘segreti’.

 

Il film si compone anche a partire da testi preesistenti, penso ad esempio la lunga sequenza con la lirica di Rimbaud.

Quello di Rimbaud è un testo che uso in un concerto e che in parte ho riscritto. Il titolo del film viene proprio da lui.

Rimbaud parla di un’inquietudine dell’anima, di un desiderio di luce, di spiritualità – parola di cui spesso abbiamo timore.

Penso che il cinema, l’arte, deve inevitabilmente parlare di quella spiritualità che sta all’origine delle cose, del senso del vivere, del morire. Rimbaud parla di questo. Parla di una follia che diventa illuminazione. Un amore che non riesce a staccarsi dalla carne. Non a caso ci sono Rimbaud e Pasolini, due poeti di amore e di carne. Poi alla fine ci sono le parole di Eliot che parlano di quel senso profondo del vivere, e che toccano anche l’altro tema del film, la morte. Amore Carne inizia con il recupero di una mia esperienza personale di attraversamento di quella malattia di cui oggi non si parla più tanto, ma sulla quale sopravvivono ancora i pregiudizi e le discriminazioni morali.

 

La sequenza in cui ti sottoponi al test nell’ospedale ha un ritmo e un tono particolare: da un lato svela un sistema inadeguato, dall’altra sembra una scena presa da una commedia all’italiana.

È una scena per certi versi comica, assurda. Ci sono tutti quei fogli da compilare, la burocrazia… Poi ci sono io che spingo in una direzione. Mi fa venire in mente la scena del funerale in La paura dove una mia frase scatena una reazione forte. In entrambe c’è un desiderio di ricercare la verità; solo che qui a un certo punto la verità si rovescia in commedia. Andando dalla dottoressa mi sono ricreato una sceneggiatura: da attore, interpreto il personaggio del ragazzo normale che ha avuto una “caduta” e che vuol mettersi la coscienza a posto. Sono un personaggio un po’ patetico di fronte ad una persona, la dottoressa, che invece appare dolce e bella.

 

Il film accosta scene molto diverse …

In effetti faccio fatica a definirlo. In Amore Carne c’è il documentale ma anche la commedia, il film musicale, la costruzione coreografica… e poi il documentale si fa musica, la commedia si fa musica, la voce si fa musica. Mi ricordo di Pina Bausch, quando le chiedevano di spiegare i suoi spettacoli spesso diceva: “Ma… non so… non so…”. Ecco, sul mio cinema quando mi chiedono il genere potrei dire come lei “Non so, non so…”. Mi piace perdermi attraverso strade che ancora non ho esplorato, muovermi in una zona di incoscienza; anche se nello stesso tempo sono chiare per me le motivazioni che mi fanno raccontare questa storia e non un’altra. Anche la mia voce che guida la lettura del film, ad esempio, a un certo punto si fa grido, canto, urlo di un bambino... la mia voce quindi non gestisce più il film, il racconto, ma diventa una voce perduta in mezzo alle altre voci.

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*****SPECIALE QUESTA STORIA QUA*****

Evento pop invece alle 21:30 in Sala Darsena: è di scena il secondo atteso evento mediatico del Festival, il documentario Questa storia qua di Alessandro Paris e Sybille Righetti dedicato ai tren’anni di carriera di Vasco Rossi. Piccola polemica: ma i coccodrilli non si facevano dopo, alla luce degli ultimi fatti?

 

Intervista ai registi Alessandro Paris e Sybille "Bibi" Righetti

 

Come e' nata l'idea del progetto?

Sibylle Righetti:

L'idea è nata tre anni fa. Mio padre è di Zocca e conosco da sempre i luoghi e gli affetti di Vasco perché sono anche i miei. Desideravo raccontare quel mondo, quella collettività.

Tre erano le cose che avevo in mente: la voce di Vasco, quel paese e i legami. La prima volta che ho parlato a Vasco del progetto è stato via skype. Io ero a Londra e già da un po' pensavo all'idea di questo documentario. Sapevo che per lui sarebbe stato molto difficile parlare delle sue radici ma ho perseverato. Ed è proprio la conoscenza di Zocca, degli amici di Vasco, la condivisione di parte dei suoi stessi affetti e l'essere parte di quella comunità che ha reso possibile questo film. Condividevo con Vasco non solo il luogo di appartenenza ma anche il fatto di riconoscere in quel piccolo paese un elemento di grande valore e forza. Non si trattava di fare un omaggio a Vasco e al suo mito, ma di raccontarlo in un modo onesto e sincero come le sue canzoni.

 

Alessandro Paris:

Quando Sibylle mi ha raccontato l'idea alla base del film ho pensato subito fosse molto interessante. Eravamo d'accordo nell'intenzione di raccontare la rock star partendo dalla sua intimità, quasi aprendo il suo album di famiglia.

L'idea di fare di Zocca il cuore del racconto e la possibilità di “far vedere” la musica di Vasco mi ha immediatamente coinvolto. Vivo a Roma da anni ma sono nato in Abruzzo, conosco molto bene la provincia avendola vissuta da bambino. E la provincia, soprattutto quella degli Anni '70 che noi abbiamo messo al centro del film, mi affascina per la ricchezza delle sue suggestioni.

Il mio sguardo, più oggettivo e distaccato, si è integrato con quello di Sibylle. Ho imparato a conoscere quei luoghi, mi ci sono immerso e ne ho percepito la vitalità. Allo stesso modo mi sono completamente tuffato nella musica di Vasco.

 

Vasco ha accettato subito?

Sibylle Righetti:

Sì, e con nostra grande gioia, senza esitazioni.

Il simbolo di Zocca è la fenice rinascente, non a caso il motto del paese è POST FATA RESURGO. Il nostro progetto in qualche modo partiva da lì, Vasco si è stupito ed era molto contento avessimo ripreso un concetto che ben esprimeva lo spirito indomito della sua terra. Vasco è molto fiero delle sue origini. Credo si riconosca in quel piccolo paese di provincia, popolato di persone un po' anarchiche ma generose, a volte dure ma piene di gioia di vivere. Ha espresso nelle sue canzoni proprio alcuni dei tratti della sua terra: la voglia di libertà e la forza di dire sempre quello che si pensa, insomma l'essere autentici. Zocca è sempre stato un posto un po' magico, un posto in cui si può sognare.

 

La nostalgia e l'affezione ai luoghi che emerge in modo molto netto nel film ? sorprendente rispetto al sentimento di ribellione che, almeno nell'immaginario collettivo, attribuiamo a Vasco...

Alessandro Paris:

Il nostro intento era quello di raccontare Vasco Rossi uomo, non solamente la rockstar. Abbiamo cercato di raccontare le sue relazioni umane, i suoi affetti, la sua nostalgia e melanconia del passato.

 

Sibylle Righetti:

Ciò che fa la differenza nelle canzoni di Vasco, nel suo modo di vivere la musica, è l'autenticità. Non ci sono compromessi: quello che Vasco racconta nelle sue canzoni è quello che ha vissuto, provato, sentito. In questo senso nostalgia e ribellione sono la stessa cosa: è la nostalgia per la libertà che ci rende ribelli, è la nostalgia del passato che ci spinge a vedere il futuro, ad immaginarlo, sognarlo e realizzarlo. In questo senso nostalgia e ribellione sono inscindibili.

 

Le persone che appaiono nel film sono gli amici del passato di Vasco. Molti di loro sono del tutto sconosciuti…

Sibylle Righetti:

Sono sconosciuti ma sono gli amici di una vita, quelli che conoscono Vasco sin dall'infanzia. Sono quelli con cui gioca a tressette al bar, quelli con cui da ragazzo ha iniziato l'avventura della radio. Coinvolgerli è stata la cosa più difficile, lontani come sono dal mondo di “Vasco Rossi rockstar”. In un certo senso, paradossalmente, volevamo che fossero protagonisti del film più di quanto non lo sia lo stesso Vasco. Loro ci hanno raccontato il senso di quella collettività, di quel luogo.

 

Vasco è stato coinvolto nella scrittura del film?

Sibylle Righetti:

Una volta pronta la prima stesura, gliel?abbiamo portata a Zocca e chiaramente ne abbiamo parlato con lui. La prima versione era sostanzialmente il racconto di un paese, poiché questa è sempre stata l?idea di base. Abbiamo parlato con lui per giorni, ci ha regalato molto tempo. La sceneggiatura è nata da lì, dai sui racconti, dai suoi ricordi.

 

Ci sono cose che arrivano dall’archivio privato di Vasco?

Sibylle Righetti:

Sua madre, all'inizio un po' diffidente, alla fine ci ha dato un grande aiuto e con generosità e fiducia ci ha aperto gli album di famiglia e ci ha regalato i suoi ricordi.

 

Alessandro Paris:

Il materiale raccolto era tantissimo e ci ha consentito di raccontare la storia di un paese e dei nostri protagonisti seguendoli per quasi quarant'anni. Dai primi 8mm e super8 degli anni 60, sino alle riprese in digitale degli anni 80 e ai filmati del telefonino fatti dallo stesso Vasco.

Mentre passavamo in rassegna tutto quel materiale ci siamo chiesti naturalmente come far convivere supporti tanto diversi. Abbiamo cercato di trovare un equilibro anche visivo tra passato e presente, tra la Zocca degli 8mm e quella di oggi che abbiamo raccontato noi. Le immagini che affioravano da quel passato ci riportavano inevitabilmente anche ai cambiamenti intervenuti nel corso dei decenni per cui la provincia che Vasco racconta e ha nel cuore è fondamentalmente un luogo della memoria.

 

Come è nata l’idea di non far mai vedere Vasco nel film?

 Alessandro Paris:

La voce off ci ha permesso di avvicinarci al linguaggio cinematografico che avevamo in mente, un linguaggio che doveva essere fondamentalmente evocativo. In questo modo, inoltre, l'intervista si è svolta in un modo più spontaneo ed intimo,si è stabilito un rapporto di maggiore fiducia e Vasco ha potuto esprimersi in piena libertà.

 

Sibylle Righetti:

A differenza di molti altri, Vasco non ama apparire e inoltre la voce di Vasco è indubbiamente riconoscibile. Tornando indietro nella memoria, il primo ricordo che ho di lui è la proprio la sua voce. Non va poi dimenticato che in fondo la prima grande passione di Vasco è stata la radio. Era per noi quindi l'elemento più forte.

 

Vasco ha regalato al film un suo inedito. Come siete riusciti in questa conquista straordinaria?

Alessandro Paris:

L'inedito è per noi una sorta di chiusura ellittica. Se Zocca è il luogo da cui Vasco si allontana ma verso cui poi torna sempre, lo splendido inedito che ci ha regalato è il simbolo di questo ritorno, di questo ritrovarsi, di questo riconoscersi.

I soliti chiude il viaggio, il percorso umano e musicale che volevamo raccontare, ritraendo così, in una sorta di secondo maturo manifesto generazionale dopo Siamo solo noi, un gruppo di amici e un'intera generazione.

 

Non potendo essere presente all’evento, Vasco Rossi ha mandato questo messaggio dalla sua pagina Facebook:

Il film documentario "Questa Storia Qua",  di Bibi Righetti e Alessandro Paris, mi ha riportato a casa.

Bibi è la figlia di un caro amico di infanzia. Angelo Righetti. Oggi psichiatra. Una vera testa di Zocca.  È venuta chiedendomi di darle fiducia. Aveva in mente un Progetto. Una storia. Raccontare la terra dove sono cresciuto e dove è nata  la rockstar Vasco Rossi. I motivi, gli umori, gli odori e la gente che popolava quello che noi chiamiamo:

“il paesello natio” .

Bibi è di terza generazione, non è vissuta a Zocca ma la conosce molto bene. È intelligente e vivace e non avevo dubbi potesse raccontare in modo originale e inedito  la storia e l’ambiente.

Ne è uscita un’opera molto poetica.

V.R.

 

Mentre questo è il testo del messaggio che ha accompagnato il film alla prima proiezione:

Eccoci qua. Le Teste di Zocca. Un universo in un bicchiere di vino. Tutto il mondo paese. Il film documentario è molto poetico. Io l'ho già visto e mi sono commosso. In bocca al lupo a tutti. 

 Eccomi qua, sul tappeto rosso del festival del cinema di Venezia per assistere con voi alla visione di questo film documentario, che racconta la terra dove sono cresciuto, la sua influenza su di me e sulla rockstar Vasco Rossi".

Post fata resurgo: il simbolo della fondazione di Zocca (e quante volte io proprio dai fallimenti ho preso la forza che ho avuto). Zocca, questo piccolo microcosmo, popolato da un pugno di anime uscite dalla feroce e terribile esperienza della guerra e che ha ricominciato a vivere una vita normale felice soltanto di essere viva. Noi siamo una generazione cresciuta nel periodo più bello della storia dell'umanità. In un crescendo di benessere e di esplosione sociale. Personalmente, in una famiglia che non possedeva niente, non ho mai avuto la sensazione mi mancasse qualcosa. Credo sia stato l'amore che respiravo a pieni polmoni in una casa di 100 metri quadri. Ho avuto un'infanzia felice e un'adolescenza fantastica. Poi, con la patente e la macchina a 18 anni, finalmente la libertà.

 

Siamo la generazione degli anni '50. Quella che ha avuto tutta la strada spianata, quando non c'era problema a trovare lavoro e occupare posti importanti resi vacanti dal massacro della guerra. Quella arrivata al momento giusto per beneficiare di tutte le rivoluzioni sociali. Dalla liberazione sessuale al divorzio, che in una Italia bigotta e cattolica come la nostra non sarebbe mai passato senza l'assenso delle nostre mamme che ci vedevano incastrati e legati in matrimoni riparatori con le nostre compagne di scuola (da: Voglio una vita come la mia di Marco Santagata). Dalla pillola al rock'n'roll, da Elvis ai Rolling Stones, dai segnali di fumo al telefonino, dalla radio alla televisione a colori, dalle chiacchiere al bar a Facebook.

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Alle ore 22 in Sala Volpi per le Giornate degli Autori arriva Edut di Shlomi Elkabetz, raccolta di monologhi sulla Seconda Intifada che all’anteprima di qualche mese fa generarono sgomento e vergogna nelle cariche pubbliche israeliane:

 

Testimony (2011)

di Shlomi Elkabetz con Ronit Elkabetz, Albert Illouz, Zohar Liba, Keren Mor, Menashe Noy, Ofer Hayun

 

«Le testimonianze palestinesi raccolte dopo la seconda Intifada rivelano una dura realtà quotidiana, che per gli israeliani, è sempre appartenuta agli "altri" – ai palestinesi, e come tale, è sempre stata negata. Qualche anno dopo, superando quello che è stato un vero e proprio taboo, alcuni ufficiali israeliani che hanno prestato servizio durante l'Intifada, raccontano i propri ricordi e così fanno anche i civili palestinesi. Una memoria collettiva di violenza piena di sofferenze e umiliazioni. «Non cerco perdono o redenzione raccontando queste storie... Voglio solo assumere la responsabilità per atti che ho commesso, a cui ho assistito e di cui ho sentito parlare. Voglio raccogliere e preservare queste testimonianze in un archivio congiunto israelo-palestinese, per il futuro, per le generazioni che verranno, per gettare le basi per una riconciliazione».

 

 

Chiude la giornata il secondo titolo in Concorso: alle 22:15 in Sala Grande spazio a Dark Horse di Todd Solondz, lontano per una volta dai personaggi e dalle tematiche dei suoi film precedenti, nonostante la grande presenza di personaggi esplicitamente caustici. Impossibile scucire di più al regista:

 

Dark Horse (2011)

di Todd Solondz con Justin Bartha, Donna Murphy, Christopher Walken, Selma Blair, Mia Farrow, Di Quon, Aasif Mandvi, Zachary Booth, Ron Maestri, Lee Wilkof

 

«Volevo solo vedere se ero capace di fare un film che non parlasse di stupri, pedofilia o masturbazione. Credo sia importante mettersi sempre alla prova»

 

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