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Venezia 2011, Giorno 4 - Sabato 03/09: A Chjàna, Cose dell'altro mondo, Lung Neaw, Marécages, Quiproquo, Shock Head Soul, Toutes nos envies, Poulet aux prunes, Schuberth, Diana Vreeland, Contagion, The Orator, La folie Almayer, Alps, Inni, Sal e Historias
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Dopo le risate provocate dalla Bellucci nuda di Un été brulant e il cinema che si è mostrato grande con A Dangerous Method di David Cronenberg e Scialla! di Francesco Bruni, Venezia arriva al quarto giorno e con 17 proiezioni principali continua la sua marcia.

 

Come consuetudine, si aprono le danze alle 11, in Sala Grande con il Controcampo Italiano, un cortometraggio e un lungometraggio destinati a far riflettere per il tema attuale trattato: l’integrazione degli immigrati con la cultura italiana.

 

 

Duro è il cortometraggio A chjana dell’italoamericano Jonas Carpignano che, dopo aver affiancato Spike Lee in Miracolo a Sant’Anna e aver vinto il Premio Martin Scorsese dedicato ai giovani registi, è stato scelto tra i migliori sei giovani al mondo per entrare al Laboratorio di Regia del Toronto International:

 

A chjàna (2011)

di Jonas Carpignano con Koudous Seihun, Cheik Baily Kane

 

«Ho trascorso l’estate passata a visitare le comunità di immigrati clandestini del Sud Italia, soffermandomi soprattutto a Rosarno e nei ghetti vicino Foggia, dove ho incontrato i personaggi che popolano il film. Qui l’industria degli agrumi è sempre alla ricerca di lavoratori ma il tipo di lavoro che offrono non alletta la popolazione locale: salari bassi, orari improponibili, condizioni sfiancanti e le regole della ‘ndrangheta. Gli unici disposti ad accettare sono gli immigrati che per meno di 30 euro al giorno faticano per 12 ore ininterrotte, ridotti in condizioni di servitù o, peggio ancora, di schiavitù. A Gennaio, però, la tensione che hanno accumulato è esplosa e questo ne è il risultato. Io lo racconto dal punto di vista di chi lotta contro il razzismo e lo sfruttamento con la ribellione, la solidarietà e l’amicizia».

 

 

 

E subito dopo segue Cose dell’altro mondo di Francesco Patierno. Quasi un discorso unico con il corto che lo precede: cosa succede se gli immigrati all’improvviso se ne vanno dal Veneto? Inutile ricordare le polemiche già suscitate, gente che promette di boicottare il film, sindaci che hanno negato le riprese e un Diego Abatantuono che da terrunciello si trasforma in leghista convinto sulle note di Meno male che Silvio c’è:

 

Cose dell'altro mondo (2011)

di Francesco Patierno con Valentina Lodovini, Valerio Mastandrea, Diego Abatantuono, Sandra Collodel, Maurizio Donadoni, Vitaliano Trevisan, Grazia Schiavo, Riccardo Bergo, Sergio Bustric, Fabio Ferri, Fulvio Molena

 

«Si può vivere senza kebab? Da qui sono partito per costruire una commedia di costume che riflettesse, in un mondo ormai globalizzato, su come sarebbe oggi la nostra vita senza la presenza dello “straniero“. Di fronte a un’ipotetica sparizione degli extracomunitari la nostra prima reazione è di timore per il contraccolpo economico che subirebbe il nostro paese. Ma il film pone invece un’altra domanda: ne sentiremmo anche la mancanza dal punto di vista emotivo?

Mettiamo una bella, civile e laboriosa città del Nord Est. Mettiamo che questa città abbia una percentuale alta di lavoratori immigrati, tutti in regola e ben inseriti.

E mettiamo, per esempio, che un buontempone d’industriale si diverta a mettere quotidianamente in scena un teatrino razzista: iperbole, giochi di parole, battute sarcastiche, tutte, ma proprio tutte, così politicamente scorrette da risultare esilaranti. Mettiamo che un giorno il teatrino si faccia realtà, che gli immigrati, invitati a sloggiare, tolgano il disturbo. Per sempre.

Cose dell’altro mondo esplora questo paradosso, con lo stesso linguaggio politicamente scorretto del suo protagonista: ironia in luogo della drammaticità, imbarazzo al posto dell’ideologia, tenerezza dove si vorrebbe conforto sociologico.

Capita così che il buontempone nordico e con lui un cinico poliziotto romano e una “buona” e bella maestra elementare, vadano a gambe all’aria e continuino a rotolare in un mondo che ha perso il suo buon senso per trovarsi in bilico sull’orlo del precipizio e lì lanciare un’occhiatina nell’abisso dei loro cuori e nel buio del loro futuro.

Per la prima volta un film italiano affronta le tematiche dell’immigrazione e del razzismo con una robusta vena comica, per la prima volta si racconta il “loro”, mettendo in scena il “noi” per la prima volta si cerca di fare un passo avanti spintonando la coscienza a colpi di risate».

 

 

 

 

Sempre alle 11, ma in Sala Perla, si parte anche con Orizzonti: dopo lo zio Boonmee che tanto piacque a Cannes, dalla Thailandia arriva un altro zio pronto a raccontarci la sua unica vita, Lung Neaw Visits His Neighbours di Rirkrit Tiravanjia:

 

Lung Neaw Visits His Neighbours (2011)

di Rirkrit Tiravanjia con Lung Neaw

 

«L’immagine del coltivatore di riso come rappresentazione di una vita si ritrova in molti vecchi film thailandesi. È un melodramma centrato sulla figura dl povero contadino che si trasferisce in città per sbarcare il lunario e scalare i gradini di una classe sociale scarsamente visibile. I sentimenti e l’amore rappresentano un invisibile percorso di trasgressione, e i ragazzi e le ragazze della classe agiata si innamorano dell’alterità dei ragazzi e delle ragazze di campagna e della cultura rurale (spirituale). Le strutture dell’alta borghesia cittadina sembrano incapaci di accettare questa trasgressione, ma c’è sempre un vecchio saggio che scruta attraverso le difficoltà e indirizza chi sbaglia verso ciò che è giusto. Pur non vivendo in questa realtà, dobbiamo prestare attenzione all’umile, a quell’uomo che fa davvero girare il mondo e lo fa girare meglio».

 

 

 

Alle 13:45, prima e unica proiezione in Sala Darsena per la Settimana della Critica: il materico e ancestrale Marécages del canadese Guy Édoin, al suo esordio con un lungometraggio sul mondo degli allevatori in cui è cresciuto nel Quebec: 

 

 

Marécages (2011)

di Guy Édoin con Pascale Bussières, Gabriel Maillé, Luc Picard, François Papineau, Angèle Coutu, Denise Dubois

 

«Il film è stato nella mia mente per anni e anni. Nonostante sia finzione, è stato ispirato dalla mia infanzia trascorsa in una fattoria ma non ho voluto farne né un ritratto idealizzato né tanto meno un universo da ripudiare o da cui scappare. Racconto solo di una famiglia chiusa e solitaria, in lotta con il peso del proprio passato che si riflette in un presente difficile, con una madre divisa tra l’amore per il figlio e la dedizione al marito: un figlio che vorrebbe accaparrarsi le attenzioni esclusive della donna e un padre che trattiene le proprie emozioni e idealizza i tempi che furono, in cui godeva di maggior benessere. I temi vengono dalla mia storia e sono universali, vanno al di là dell’aspetto rurale: relazioni familiari, rapporti di odio e amore, crisi economica, incomunicabilità e identità sessuale».

 

 

 

 

Alle 15, in Sala Grande, altro appuntamento per Controcampo con il documentario Quiproquo della direttrice editoriale della casa editrice Bompiani Elisabetta Sgarbi:

«Chi può ancora usare, senza tradire un sorriso di scherno, la parola "avanguardia" o l'espressione "essere all'avanguardia"? Avanguardia è una parola che appartiene all'archeologia della cultura, come si parlasse dei fenici che ci hanno tramandato le lettere dell'alfabeto o degli egizi che ci hanno consegnato le proporzioni numeriche? Oppure è una parola che, vivendo, come vive, nell'uso comune del nostro linguaggio, designa qualcosa di ancora vivo e operante, fosse pure nel segno dell'aspirazione utopistica o vagamente sognante?

E le Avanguardie davvero tali, quelle che, lancia in resta, partirono all'assalto del ventesimo secolo, cosa hanno a che fare con le ultime avanguardie, le neoavanguardie, il Gruppo '63, con la Transavanguardia. E con Giotto?

E, ancor di più, cosa hanno in comune con un cardiochirurgo che brevetta un sistema, edge to edge, per operare la valvola mitralica o con una giovane che studia nuove forme di polimeri per costruire case nello spazio? 

Non intendo dare risposte, né dimostrare una tesi ma mostrare una vasta gamma di situazioni e opinioni, autorevoli e non, accreditate e non, del mondo accademico umanistico e scientifico, ma anche proprie del passante che sente questa parola, avanguardia, e ne ha una reazione. Da Umberto Eco a Rossana Rossanda, da Ludovico Corrao a Vittorio Sgarbi a Achille Bonito Oliva, da giovani artisti che si confrontano con il pulviscolare mondo dell'arte a Angelo Guglielmi a enrico ghezzi al chirurgo Ottavio Alfieri, dalle avanguardie operaie al Gruppo 63, alla neoavanguardia, all'avanguardia storica, senza trascurare chi, questa parola, riesce ancora ad usarla con un briciolo di innocenza, gli scienziati e i chimici: tutti, sollecitati dalle domande di Eugenio Lio, tentano di guidarci in questo felicemente esploso mondo dell’ avanguardia per dirimere - se è da dirimere - la bellezza del suo quiproquo.

Accompagnati dal guardare della cinepresa che tutto trasforma in quadro, in inquadratura. Così che la natura e il paesaggio urbano, industriale e postindustriale si semplificano in un'opera. D'avanguardia?».

 

 

 

La sperimentazione, l’arte e la psicanalisi ritornano in scena anche oggi grazie ad Orizzonti che in Sala Perla alle 16:30 propone Shock Head Soul di Simon Pummell sulla vita in manicomio di Daniel Paul Schreber e il suo rapporto con Freud:

 

Shock Head Soul (2011)

di Simon Pummell con Hugo Koolschijn, Anniek Pfeifer, Thom Hoffman, Jochum ten Haaf

 

«Quando ho letto per la prima volta le memorie di Daniel Paul Schreber, diario delle sue sofferenze e bibbia del codice segreto del mondo che la schizofrenia gli aveva rivelato, o forse imposto, sono rimasto affascinato, disgustato, ispirato e commosso. In Shock Head Soul gli elementi intrecciati e spesso contrastanti del documentario, del dramma e dell’animazione permettono al pubblico di tessere il proprio punto di vista in costante evoluzione, sia con la storia di Schreber che col rapporto fra tecnologia e visione psicotica. Il ricorso all’animazione computerizzata è parso particolarmente appropriato: in fondo, l’animazione computerizzata è davvero una visione fatta di codici nascosti sotto la superficie del visibile».

 

 

 

Ore 16:30Sala Darsena occupata dalle Giornate degli Autori con Toutes nos envies del francese Philippe Lioret sui desideri inaspettati che si incontrano con le difficoltà dei nuovi poveri, ispirato liberamente dal libro denuncia di Emmanuel Carrère D’autres vies que la mienne:

 

Tutti i nostri desideri (2011)

di Philippe Lioret con Marie Gillain, Vincent Lindon, Pascale Arbillot, Isabelle Renauld, Yannick Renier, Amandine Dewasmes, Laure Duthilleul, Christophe Dimitri Réveille

 

«Il film denuncia anche gli abusi del credito al consumo… Immagino così il giorno  in  cui  è  stato  inventato:  una  riunione di bancari preoccupati  di vedere  stagnare  i  loro  profitti  di fronte alla regolamentazione  severa  del  credito  e  la mancanza  di guadagno  che  ne  deriverebbe.  E  poi,  intorno  al  tavolo,  uno  di  loro esclama improvvisamente: «Ma per le piccole somme non è regolamentato il credito… Si potrebbe creare delle  filiali  che  proporrebbero  alla  gente  di  prestare  piccole somme in più rate… a tassi elevati ovviamente.» E tutti gli altri lo hanno guardato, col sorriso sulle labbra… Oggi  le  offerte  allettanti  delle  società  di  credito  spedite nelle cassette della posta su internet spingono migliaia di persone di ceto modesto nella trappola dei soldi facili. Spesso tentati dalla  follia  del  consumo  che  solletica  tutti  e  allettati  da  offerte sospette, più vulnerabili si ritrovano presto nell’ingranaggio delle insolvenze e del sovraindebitamento.

Bisogna sapere che la percentuale dell’insolvenza non supera il 3% (che rappresenta già, solo in Francia,  circa  8  milioni  di  persone)  e  che  è  abbondantemente compensato dai tassi d’interesse proibitivi che applicano le società di credito. Eppure queste società non possono permettersi di lasciare impuniti questi pagatori insolventi, per evitare di incitare altri a fare lo stesso. Allora per queste persone principalmente dei disoccupati la lotta legale è persa in anticipo e si ritrovano in situazioni terribili, tranne se un giudice d’istanza osa opporsi e trova un mezzo per ostacolare questa legge del più forte e questo meccanismo perverso di arricchimento delle banche.

La relazione platonica tra i miei protagonisti è fatta di complicità professionale, di una forma d’amore filiale e probabilmente anche di desiderio. È una storia sulla pluralità dell’amore. Nonostante non ci sia ambiguità nella loro relazione, ce n’è pertanto nello sguardo altrui… e ce ne sarà forse in quello dello spettatore che vivrà questo incontro rispetto alla propria vita e alle proprie domande».

 

 

Il Concorso offre la prima proiezione in Sala Grande alle 17 con il primo film con attori in carne e ossa della fumettista Marjane Satrapi che, con il compagno Vincent Paronnaud, riadatta e porta sullo schermo una sua graphic novelPoulet aux Prunes, con un cast che conta la presenza anche della sempre splendida Isabella Rossellini:

 

Pollo alle prugne (2011)

di Vincent Paronnaud, Marjane Satrapi con Mathieu Amalric, Isabella Rossellini, Maria De Medeiros, Golshifteh Farahani, Jamel Debbouze, Chiara Mastroianni, Edouard Baer, Eric Caravaca, Frédéric Saurel, Dustin Graf

 

«Sotto la sua aura romantica, il film è concepito come un thriller con flashback e flash-forward che fanno luce sulla personalità di Nasser e i motivi della sua disperazione. La morte è usata come un pretesto per parlare della vita. I temi centrali del nostro film sono le complessità del mondo e i misteri dell’animo umano. È grazie a ciò che il film può muoversi tra registri diversi, dal drammatico, al comico, allo straziante, perché la vita è proprio così. Quello che ci interessa non è se Nasser morirà né come, ma perché. Persepolis racconta la storia di una famiglia intrappolata nelle avversità della guerra e della rivoluzione tra il 1974 e il 1994. Poulet aux prunes copre la storia della stessa famiglia tra il 1930 e il 1990.

Il punto di partenza sono stati i racconti di mia madre su un fratello musicista morto in maniera misteriosa e inspiegabile. Mi diceva che era un uomo straordinario e avendo visto le sue foto in cui risaltava la bellezza del suo volto da uomo romantico mi è venuta voglia, sensibile come sono, di raccontare la storia di un amore spezzato. Ci sono molte libertà nel racconto ma alcuni elementi sono veri, come ad esempio la noiosa moglie del musicista.

È una storia nichilista, non c’è redenzione nel finale. C’è solo la morte, un momento da cui sono ossessionata e che mi terrorizza».

 

 

Contemporaneamente, in Sala Volpi, vanno in scena due omaggi al mondo della moda. Per Controcampo Eventi si assiste al documentario del giornalista Mediaset Antonello Sarno dedicato allo stilista della Dolce Vita Schuberth:

 

Schuberth – L’atelier della dolce vita (2011)

di Antonello Sarno

 

«L’interesse per Schuberth nasce dalla visione di centinaia di cinegiornali per la realizzazione del documentario Dolce Vita Mambo! – Il backstage ritrovato (2010). In quel contesto, ci siamo imbattuti continuamente in una interminabile serie di servizi aventi per protagonista Schuberth, sommo stilista di quell’epoca e fornitore di real case italiane e internazionali oltreché delle massime dive di casa nostra. Insomma, negli anni in cui a via Veneto Fellini prendeva appunti per il suo film, la capitale della dolce vita non ancora filmata era proprio l’atelier di Emilio Schuberth. Eccessi, trasgressioni, la straordinarietà dello stile, l’evidenza ostentata della sua eccentrica “diversità“ hanno trasfigurato Emilio Schuberth in una carezza, ma anche in un dito nell’occhio di cui qualsiasi regista di documentari non poteva, prima o poi, non occuparsi».

 

 

Per Fuori Concorso, invece, si presenta Diana Vreeland: The Eye Has to Travel un ritratto che Lisa Immondino dedica alla cinica regina di Vogue Diana Vreeland:

 

Diana Vreeland - L'imperatrice della moda (2011)

di Lisa Immordino Vreeland

 

«L’anno scorso, mentre ero impegnata nelle ricerche per un libro su Diana Vreeland, mi sono resa conto che la sua vera forza e sottigliezza richiedevano una piattaforma tridimensionale per tornare alla luce. Il cinema è il mezzo più ovvio ed efficace per rappresentare lo straordinario viaggio visuale della Vreeland. Diana Vreeland: The Eye Has to Travel è molto più che un ritratto intimo di una leggendaria icona fashion. Cattura infatti visivamente la vita del personaggio attraverso una moltitudine di mezzi mediatici. La sua vera voce e la sua personalità – forte, eloquente e spesso sopra le righe – guideranno lo spettatore attraverso la vita, le avventure, i successi e le passioni della protagonista».

 

 

I fotografi sono invece già piazzati davanti alla Sala Grande che alle 19:30 accoglie Fuori Concorso il cast stellare di Contagion di Steven Soderbergh, terza e ultima passerella dell’attrice simbolo di questo Festival, Kate Winslet:

 

Contagion (2011)

di Steven Soderbergh con Matt Damon, Marion Cotillard, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet, Jude Law, Bryan Cranston, Jennifer Ehle, Laurence Fishburne, John Hawkes, Sanaa Lathan

 

(Sibillina la citazione del regista Joseph Losey che accompagna le note di regia)

«Credo che il bisogno di spiegare abbia un effetto negativo su ciò che si fa. Se avessi potuto girare un film dopo l’altro inframmezzato da un breve, adeguato periodo di riposo senza mai rispondere a domande su ciò che avevo fatto o che avrei fatto dopo, credo che il mio lavoro sarebbe stato un po’ migliore. Ma è una necessità, e quando si lavora in un medium che dipende dai soldi, non farlo è assurdo. Persino Antonioni ora vi è stato costretto».

 

 

 

Alle 21:15 in Sala Perla e per Orizzonti arriva il primo film samoano proiettato nella storia del Festival The Orator di Tusi Tamasese, un film quasi di antropologia culturale sul coraggio, sull’amore e soprattutto sull’arma della parola, essenziale per un intero popolo che su quella basa il potere:

 

The Orator (2011)

di Tusi Tamasese con Fiaula Sanote, Tausili Pushparaj, Salamasina Mataia, Ioata Tanielu

 

 

«Dal primo momento del film ci imbarchiamo in un viaggio a fianco di Saili e Vaaiga, scoprendo il loro amore reciproco in un mondo sempre più ostile. Volevo portare il pubblico in un mondo che evidenziasse la semplicità, la tenerezza e l’amore. Un mondo buffo nel suo umorismo nero; brutale e violento nella sua tragedia umana. Ritengo ci sia un “nano“ in ognuno di noi, sia esso la nostra cultura, il nostro lavoro, la mancanza di fiducia in noi stessi. Queste cose possono frenarci e limitare le nostre aspettative e ambizioni. Ci sono momenti che ci costringono ad andare al di là dei nostri limiti fisici e mentali, quando non ci rimane altro che la volontà di farcela».

 

 

 

Alle 21:30Fuori Concorso in Sala Darsena, arriva La Folie Almayer di Chantal Akerman, coraggioso e seduttivo adattamento del romanzo di Joseph Conrad:

«Leggendo il romanzo di Conrad fui colpita dalla sua modernità e universalità. Ci sono un padre, una madre, una figlia e un ragazzo. Mi piacerebbe riuscire a trattare la loro storia con semplicità e sensualità, grazie all’ambientazione particolare e ai corpi dei giovani amanti nella loro infinita grazia adolescenziale. Gli eventi si svolgono in un luogo in cui la serena convivenza tra persone diverse si basa esclusivamente sugli affari in comune. Malesi, indiani, cinesi… Nei luoghi delle riprese, tra la vegetazione rigogliosa e il caldo e l’umidità opprimenti, la terra e il cielo sono carichi di colore. La pioggia laggiù è di breve durata, ma torrenziale. L’umidità pervade ogni cosa, corrodendo il legno delle case e i sentieri. Poi c’è il fiume, ampio e mutevole, a volte calmo altre violento. E quella nebbiolina che lo avvolge, facendo apparire le piroghe come magicamente sospese sopra le sue acque. Qualcosa in questa storia vi farà pensare a Tabù di Murnau, e l’incipit sicuramente La morte corre sul fiume. Mi piace fantasticare su come Murnau avrebbe concepito questo film se fosse nato negli anni ’50 come me. Qualunque padre nutre dei sogni per i propri figli e spesso soffre quando questi se ne vanno di casa. Qui si va ben oltre. È come se l’amore di Almayer – in quel paese e in quel contesto – lo denudasse completamente, lasciando esposta la carne viva. La ferita è così profonda da fargli perdere la ragione. Ma, soprattutto, quella ferita distrugge il suo sogno, il sogno della bella vita occidentale. Un sogno accarezzato lungo le sponde del fiume, lontano da tutto. È una storia tragica, come le antiche tragedie che non invecchiano mai. Vecchissima, e allo stesso tempo attuale. È una storia d’amore e follia. Una storia di sogni impossibili».

 

 

Alle 22 in Sala Grande il Concorso presenta Alps di Yorgos Lanthimos, il più criptico dei film in programma presentato da un pressbook artistico corredato da 15 ferree regole che i 4 membri di una squadra speciale, con i nomi dei monti delle Alpi, devono rispettare:

 

Alps (2011)

di Giorgos Lanthimos con Aggeliki Papoulia, Ariane Labed, Aris Servetalis, Johnny Vekris

 

«Le 15 regole degli Alps 

I membri di Alps:

1. Devono dichiarare preventivamente le cose che non vogliono fare compilando il modulo (ad esempio baciare, fare pesi, viaggiare, ecc.)

2. Devono dichiarare preventivamente le cose che sanno fare bene compilando il modulo (ad esempio ballare, fare sci nautico, conversare, ecc.)

3. Devono avere una conoscenza di base di psicologia e sociologia.

4. Sono obbligati a supportare, sotto ogni circostanza, gli interessi del gruppo Alps.

5. Devono rispettarsi l’un l’altro.

6. Hanno il diritto a cambiare il loro soprannome solo due volte. Non possono scegliere il soprannome di un altro membro di Alps. Il soprannome dev’essere soltanto quello di un monte delle Alpi, e nulla di generico o irrilevante (ad esempio Biondo, Maestro, Dragone, ecc.)

7. Non possono parlare delle attività di Alps con dei non membri di Alps.

8. Sono obbligati a sostenere il Test del Club di Ginnastica, se necessario.

9. Devono avere più di 14 anni.

10. Dovrebbero essere sempre svegli, puliti, puntuali, e sempre sotto controllo.

11. Non devono mai essere emozionalmente coinvolti con i clienti, o avere relazioni intime con loro.

12. Non possono cambiare il loro aspetto fisico senza il permesso del Capo (ad esempio tingersi i capelli, dimagrire o ingrassare, indossare lenti colorate, ecc.)

13. Devono essere capaci di fare delle espressioni facciali convincenti (tristi, felici, disperate, ecc.)

14. Devono onorare il titolo della loro appartenza al gruppo, ed essere pronti ad uccidere o morire per esso.

15. Non devono mai attaccarsi l’un l’altro, e credere nel lavoro di squadra.

Mont Blanc, Capo del Gruppo Alps».

 

 

 

 

Alle 22, in Sala Volpi per Autori si può assistere al film brasiliano Historias di Julia Murat basato sull’incontro di un’anziana panettiera di un piccolo villaggio sospeso nel tempo che desidera morire e l’arrivo dalla città di una fotografa, di due culture differenti e della scoperta del proprio posto in un mondo in cui le cose esistono solo se vengono ricordate:

 

Histórias... que só existem quando são lembradas (2011)

di Julia Murat con Sônia Guedes, Lisa Fávero, Luis Serra, Ricardo Merkin, Antônio dos Santos, Nelson Justiniano, Maria Aparecida Campos

 

«Per due mesi ho viaggiato attraverso la Valle del Paraíba facendo brevi interviste e, soprattutto, seguendo la vita quotidiana dei villaggi che nel diciannovesimo secolo erano parte della regione più ricca del Brasile, e che ora sono in una fase di decadenza totale. Anche se il film ha qualità documentario, la sua storia può essere vista come una favola. E una favola può essere cancellata in qualsiasi momento, essere dimenticata, se non viene raccontata di generazione in generazione. Una descrizione contemplativa, quasi priva di parole, su una cosa tanto delicata e paradossale come l'accettazione della morte. La fotografia riesce dove la religione aveva fallito. È l'atto di fotografare stesso a insegnarci ciò che la regista fa. Come afferma Roland Barthes, ogni foto rivela: questo ora è passato, questo morirà. E mostra, al tempo stesso, una vita vissuta e completa. L’idea mi è venuta qualche anno fa mentre facevo da assistente alla regia ad un film diretto da mia madre e ci siamo imbattuti in un villaggio il cui cimitero era chiuso per ristrutturazione e chi moriva veniva sepolto in un posto lontano in cui si arrivava dopo 7 ore di viaggio in macchina. La storia, poi, procede sotto direzioni di realismo fantastico, riconducibile a Bunuel o Gabriel Garcia Marquez».

 

 

 

Sempre per Autori, alle 23:30 in Sala Perla, è di scena la musica degli islandesi Sigur Ros nel documentario Inni di Vincent Morisset:

 

Inni (2011)

di Vincent Morisset con Jon Thor Birgisson, Orri P. Dyrason, Georg Holm, Kjartan Sveinsson

 

«Inni è l'intimo al centro di un grande palcoscenico. È l'astrazione dei gesti e l'ingrandimento di dettagli incantevoli. Si tratta di un omaggio all'energia unica di Sigur Rós. INNI lascia spazio a tutte le belle immagini che vengono alla mente quando si ascolta la loro musica».

 

 

 

 

mezzanotte chiude la giornata, in Sala Grande e per Orizzonti, Sal diretto dal giovane attore James Franco, che nei giorni successivi sarà al centro dell’omaggio dedicato a Nicholas Ray:

«Quando fu assassinato, Sal Mineo aveva 37 anni ed era sul punto di rilanciare la sua carriera. Aveva iniziato come bambino prodigio, e a 15 anni recitava a fianco di James Dean in Gioventù bruciata, film che valse a entrambi una candidatura agli Oscar. Da giovane Sal ebbe un successo incredibile, sia come attore, sia come cantante; ma dai vent’anni in poi, per motivi in parte indipendenti da lui, perse la stima di cui aveva goduto all’inizio della carriera. Da ventenne e trentenne stentò a trovare lavoro, senza raggiungere mai il successo di cui aveva goduto in precedenza. Visse cioè la tragedia comune a tanti artisti, totalmente dedicati al proprio lavoro ma senza sbocchi. Ma fino all’ultimo Sal si batté per la libertà d’espressione, sforzandosi di trovare il modo per creare opere innovative e interessanti. I giornali scandalistici riportarono la sua uccisione lasciando intendere, senza alcuna prova, che si fosse trattato di una faccenda di droga, o che l’assassino fosse un amante. Da allora il ricordo di Sal è stato macchiato da queste congetture in malafede. Questo film è il ritratto di un artista gentile e sensibile nelle sue ultime ore di vita».

 

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