Dall’America Latina ci giungono due splendide storie di obiettivi mancati. O forse solo spostati rispetto agli iniziali propositi. Progetti deviati quel tanto che basta a rivestirli di un’importanza tanto fondamentale quanto inaspettata: di un significato che non si ferma alla realizzazione personale, ma abbraccia l’orizzonte della generosità, della incommensurabile bellezza di rendersi utili al prossimo. In una maniera non programmata, e tutt’altro che convenzionale. Questo miracoloso approdo, beninteso, non si addice alle azioni ordinarie, ai soliti sforzi di diventare qualcuno. Il punto di partenza deve essere altrettanto eccezionale, e contraddittorio, ed assumere i contorni di una vera e propria sfida contro la logica, contro il mondo, contro il pensiero della gente: come quella intrapresa dal settantenne messicano Juan Arturez, detto Chano (El estudiante), che si immatricola all’università, e dalla giovane nicaraguense Virginia Roa, detta Yuma (La Yuma), che si prepara ad una carriera da pugile. L’idea originaria è, per entrambi, diventare qualcosa di più, o qualcosa di diverso, rispetto a quello che gli altri si aspettano da loro: essere un marito, un padre ed un nonno casalingo e pacifico, oppure essere una donna sfruttata in famiglia e la chica del capo della gang del quartiere. È solo strada facendo che Chano e Yuma si accorgono di come una piccola, invisibile parte di quegli stessi altri necessiti disperatamente del loro aiuto, e in una forma che non avrebbero mai immaginato. E che fa leva proprio su quella che, apparentemente, era la debolezza della loro impresa: quella straordinarietà confinante col ridicolo che li faceva segnare a dito, e che, alla fine, risulterà capace di trasformarli in personaggi di riferimento. Ad accomunarli, e a renderli laicamente santi, è la scelta di sacrificare la propria “dignità” per diventare, in qualche misura, gli oggetti di uno show, in grado di attirare gli sguardi e di trasmettere, in mezzo alla miseria dell’anima o del corpo, una gioia insperata ed un salutare ottimismo. Il “buffone” finisce per diventare un modello, una solida base su cui costruire un futuro: quello degli studenti ventenni che sbagliano e si disperano, e quello dei bambini delle baraccopoli, che intorno a sé vedono solo crimine e degrado. Il messaggio, in entrambi i casi, passa attraverso un’amara variante dell’allegria, che va in scena in un teatro non ufficiale, su un palco in cui non si declamano versi, ma si recita una parte di se stessi, della propria esistenza, per far ridere e piangere nello stesso tempo. Chano e Yuma portano, in questa tragicommedia dilettantesca, ma profondamente vera, la sostanza esportabile della loro esperienza: che si riassume in una battaglia non violenta, beffarda e innocua, come quella di Don Chisciotte contro i mulini a vento, o quella dei pugni dati solo per fare spettacolo. Un messaggio contro l’accanimento della rabbia, della voglia di rivalsa, dell’arrivismo, e a favore di una filosofia della docilità, dell’accompagnamento paziente, in cui l’individuo si lascia lentamente educare dalla vita, e a sua volta si impegna a condurre per mano coloro che hanno perso la strada. Chano voleva imparare cose nuove e dare un senso nuovo ai suoi giorni, Yuma voleva diventare famosa e andare lontano: il destino li accontenterà entrambi, benché a suo modo, privandoli soltanto della parte “egoistica” delle loro aspirazioni. E dispensando loro, a sorpresa, un dolore di quelli che ci sconvolgono e ci costringono a cambiare, e ci fanno scoprire un motivo, sino ad allora sconosciuto, per rinunciare a noi stessi e continuare ad esistere attraverso coloro che non sapevamo d’amare. Ed è questo forse, davvero, il più dolce naufragare nel mare dell'esistenza umana.
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