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Le origini di un regista anomalo come Patrice Chéreau: “Un’orchidea rosso sangue” (1975) , Un altro titolo più che “invisibile”, dimenticato.
di (spopola) 1726792
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Potremo definire Carol come “la carne dell’orchidea”, un appellativo che è anche il segno distintivo che definisce perfettamente colei che è poi la figlia di un abominio, e più precisamente il frutto di quella barbarie raccontata con particolare veemenza narrativa in Niente orchidee per Miss Blandish da James Hadley Chase di Robert Aldrich.
La storia è così suggestiva, ha una carica emozionale e una potenza evocativa talmente vigorosa nelle sue implicazioni anche morali, che non poteva essere abbandonata con il suicidio della protagonista che chiudeva drammaticamente il racconto, così che lo scrittore avvertì la necessità di dedicarle un ulteriore romanzo altrettanto radicale (anche se meno significativo come risultato complessivo), costruito sulle ceneri di quella immane tragedia (La carne dell’orchidea appunto), intriso forse di una violenza ancor più estremizzata,  che nel 1975 è stato utilizzato da un poco più che trentenne Patrice Chéreau (che aveva già al suo attivo una eccezionale e folgorante carriera teatrale di “enfant prodige” delle scene che gli aveva permesso di conquistare una meritatissima notorietà internazionale) per il suo debutto sul grande schermo.
Carol, dunque, un’insolita, “dannata” eroina che porta sulle spalle il peso di quell’eredità maledetta che non può davvero lasciare spazio ad una pur minima ipotesi di salvezza, quasi una predestinazione funerea quella che l’accompagna, e che si identifica da una parte, nell’ombra avvolgente di una figura materna  prima rapita, poi narcotizzata e violentata, e infine morta  suicida per l’incapacità di accettare ciò che le è capitato, e  dall’altra, in quella ancor più torbida e devastante di un padre pazzo e pervertito, un criminale incallito e senza scrupoli chiamato a pagare il fio per le sue colpe.
In questo quadro crudele e un po’ mefitico, le speranze dunque non possono che frantumarsi, poiché è inibito ogni possibile riscatto e la mente può persino vacillare fra tanti orrori. E’ forse per questo che, complici le mire dell’avidità familiare di una zia, anche Carol sarà costretta a subire il sopruso e a scendere, suo malgrado, nei gironi più profondi dell’inferno, finendo in quella fossa dei serpenti dove tutto è buio e follia, che si chiama manicomio.

La ragazza è dunque “una detenuta psicolabile”, ma questo non è che l’antefatto, il prologo, perché lei riuscirà poi a fuggire con uno spericolato stratagemma dalla segregazione nella quale è stata costretta, ancor più assetata d’amore e di rivalsa, diventando così una specie di angelo vendicatore: di nuovo nel mondo dei vivi con i suoi furori e le sue angosce, pronta a strappare gli occhi ai sui nemici quando li incrocia, è vero, ma anche disponibile a lasciarsi andare a momenti di soffusa, straordinaria, intima dolcezza. Una personalità prismatica dunque, imprevedibile e mutevole come il suo volto (che sullo schermo è quello inquieto, minaccioso e affascinante, capriccioso e refrattario, quasi rifrangente, di una luminosa Charlotte Rampling).
Ma qualcuno continua a vedere in lei solo la ricca ereditiera portatrice di quel destino crudele e fatale che la fa identificare prima di tutto come “preda”, una donna da perseguitare, inseguire, braccare e sopraffare per annientarla definitivamente. E Carol, consapevole del suo ruolo, si difende come può, cercando sprazzi di luce nella sua mente offuscata che ogni tanto affiorano imprevedibili e improvvisi, oppure sfoderando le unghie come pericolosi artigli per attaccare e resistere, con un accanimento sagace e persistente che le fa assumere il ruolo di una instabile transfuga dalla vita e da se stessa che (metaforicamente), con un’orchidea in mano e la morte nell’altra, continua a percorrere la strada che si è prefissata di seguire - o che le è stata tracciata dal destino - una strada cosparsa di nemici e di infidi trabocchetti da combattere e superare con l’astuzia un po’ folle di chi non ha poi molto da perdere. Uccidere o morire insomma.

Ecco, questa è la sintesi del romanzo, che è poi anche la traccia da cui muove Chéreau per formare il complesso racconto in immagini ed adattarlo alla propria visione del mondo, “sempre in bilico fra populismo e decadentismo” come ha scritto a suo tempo Giorgio Polacco.
Del romanzo, Chèreau conserva il senso di incubo, la violenza, l’andamento onirico; di suo ci mette il gusto degli ambienti magici e misteriosi alla Orson Welles (vedi la lotta all’ultimo sangue con due killer ex artisti di varietà, o il teatro italiano in cui giganteggia la figura di una matronale Simone Signoret) ma non è sufficiente a rendere del tutto positivo il risultato finale di un progetto ambizioso come questo, che risulta in ultima analisi, presuntuosamente tracotante, imperfetto e non adeguatamente omogeneo, anche se “morbosamente inquietante” per più di una ragione. La mancata conoscenza del mezzo che utilizza (il cinema) lo penalizza infatti non poco (si avverte  perfettamente che non è ancora capace di mettere  totalmente a frutto il suo talento), e se l’atmosfera un po’ mortuaria che aleggia emana indubbiamente un fascino morboso che ha una sua indiscutibile attrattività avvolgente, è necessario fare i conti nella valutazione complessiva proprio con il fatto che lo schermo non è il palcoscenico, e che certe suggestioni che nobilitano la scena, riprodotte sia pure con un linguaggio diversamente mediato sul grande schermo (che ha una sintassi diversa di scrittura), non hanno purtroppo la stessa accattivante valenza - anche se al primo impatto sembrano riempire positivamente la vista - quando ad accoglierle è la più realistica dimensione della tela sulla quale si proiettano e muovono figure che definiscono un contatto più diretto e immediato anche identificativo con lo spettatore, ed hanno bisogno di ritmi, di “unità narrative” ben coordinate, di “consumato mestiere” mi verrebbe da dire, e non solo di belle intuizioni figurative.
Poi Chéreau si farà anche in questo campo (sia pure fra alterni risultati) ma a farne le spese questa volta è soprattutto la trama gialla, il lato “noir” della vicenda, perché su questo versante la storia risulta dispersiva e confusa, persino un po’ pencolante a volte, come se il regista non riuscisse a districare con adeguata lucidità il bandolo complesso della matassa.
In questo caso poi, nemmeno la sceneggiatura elaborata con il fondamentale contributo di Jean-Claude Carrière lo aiuta ad essere efficace e pregnante, poiché il tutto è appesantito da quell’impianto di derivazione teatrale a cui accennavo sopra, e da eccessive lentezze che slabbrano e dilatano oltre misura situazioni che avrebbero invece bisogno della sinteticità di uno sguardo più esplicito, oltre che da evidenti ambizioni di “conoscenza” esibite con un tantino di arrogante sicumera, che intenderebbero rimandare all’espressionismo, ma che a volte declinano semplicemente in un esasperato barocchismo di facciata laido e decadente.

Inevitabile allora che l’accattivante impianto costruito, risulti più che  annacquato, nebuloso, poiché appunto la sontuosa macchina dello spettacolo messa in piedi non trova il giusto passo per marciare a pieno regime verso mitiche (quanto questa volta improponibili) prospettive di rivoluzione formale (ovviamente più di “linguaggio” che di contenuto).

Insomma una troppo artificiosa (e un po’ melodrammatica) opera prima riuscita solo a metà, nonostante l’apporto di un cast davvero “stellare” soprattutto sul versante femminile: oltre alla già citata protagonista, Charlotte Rampling, qui nel fulgido splendore dei suoi anni migliori, e a Simone Signoret delle quali ho già parlato prima, troviamo infatti impegnate nella diversa definizione dei personaggi, interpreti del calibro di Edwige Feuillère (affascinante come al solito anche se nell’inusuale ruolo della zia cattiva - forse l’invenzione migliore del film - costantemente circondata da sicofanti trafelati che contribuiscono a renderla perfidamente odiosa), di Alida Valli e di Valentina Cortese, tutte però più decorative che davvero necessarie (fondamentali) e che riducono la loro partecipazione attiva, come scrive il Mereghetti, a poco più di “una galleria di splendide attrici sfatte”.
Il parterre maschile (a sua volta abbastanza inerte) è formato invece da Bruno Cremer e Hughes Quester.

 

Un'orchidea rosso sangue (1975)

di Patrice Chéreau con Charlotte Rampling, Bruno Cremer, Bruno Cremer, Simone Signoret

 

 

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