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Un “invisibile” assolutamente da recuperare: “Sfida a Silver City” (o per meglio dire… “Il sale della terra”)
di (spopola) 1726792
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Sfida a Silver City (1954)

di Herbert J. Biberman con Rosaura Revueltas, Will Geer, David Wolfe, Mervin Williams

 

Questo è un titolo fondamentale della cinematografia indipendente statunitense degli anni ’50 e ’60 (il titolo italiano affibbiatogli – “Sfida a Silver City” - non deve assolutamente portare fuori strada poiché non siamo di fronte ana pellicola appartenente al filone western, ma a uno straordinario esempio di “realismo sociale”) del quale purtroppo se ne sono perse le tracce e che dovrebbe invece essere assolutamente recuperato.

Io non amo ricordarlo con quell’ingombrante  denominazione italiota  che gli è rimasta purtroppo appiccicata addosso, l’ennesima “furbata” escogitata dalla distribuzione nostrana per evidenti ragioni di “appeal” commerciale: non certamente un controsenso assoluto, ma in buona misura “fuorviante” e “inattendibile”. Permettetemi quindi di parlarne chiamandolo con la più poetica traduzione dall’orignale “Il sale della terra” (“Salt of the Earth”) con cui ha  parzialmente circolato anche da noi ed è ricordato da molte guide (per esempio il Mereghetti), molto più poetico, ispirato e pertinente.

 

 Dunque “Il sale della terra”: parentesi importante e significativa del cinema “off” americano, e vera e propria “sfida” (beh, in fondo il termine non è poi del tutto fuori luogo, a quanto sembra, e nemmeno così astrusamente “estraneo” dopotutto!!!) al sistema hollywoodiano e alle imposizioni dominanti imposte dalle majors.

Dobbiamo ringraziare l’abnegazione dei suoi autori, la loro caparbia determinazione nel dare anima e corpo a un’impresa oggettivamente di difficile realizzazione già in partenza (quasi impossibile) che l’anno sostenuta moralmente (e in parte anche economicamente) con coraggioso impegno e dedizione fino alla fine. E’ interamente attribuibile a loro il merito di aver realizzato “ad ogni costo”, un’opera  problematica e conflittuale come questa, positiva sia sotto il profilo degli esiti formali che su quello dei contenuti, che è un vero e proprio messaggio di speranza significativamente “positivista”,  ma al tempo stesso anche la concreta, documentata “prova” che non sempre il “potere” e la protervia (quello delle autorità costituite e dei gruppi di “controllo” ad esse legati) riescono davvero (nonostante i mezzi che hanno a disposizione) ad avere la meglio, a prendere in mano la barrai del timone” per impedire la circolazione delle idee, se l’atteggiamento di chi si contrappone, dei “resistenti indomiti” come amo definirli io, rimane fermo, grintoso, risoluto e coerente e compatto come in questo caso.

Eravamo in pieno maccartismo, anni davvero bui e dolorosi per la “civile” America, forse il momento più basso toccato da quella nazione (molte le pellicole che ce ne parlano, anche con evidenti “metafore”,  fra le quali mi piace ricordare, ma solo perché è fra i più recenti, l’ottimo contributo fornito con il suo “Good Night, and Good Luck” che consente anche ai più giovani di verificare “de visu” il clima da inquisizione, l’aria di autentica caccia alle streghe che incombeva pesante come una cappa impenetrabile e ostile, che mozzava  il respiro e la speranza).

Biberman, il regista (che non avrebbe poi avuto in pratica altre occasioni attive per mettere in evidenza il suo talento e la sua carica eversiva) faceva appunto parte di quella famosa, tragica lista nera di epurati “eccellenti” passata alla storia come “i dieci di Hollywood” (e non era per altro l’unico fra i “sostenitori attivi” del  progetto connesso a “Il sale della terra”,  ad avere problemi al riguardo) e la storia scelta per una “narrazione” cinematografica a suo modo “epica”, si confermava scottante e attuale (la cronaca realistica e documentata di alcuni fatti effettivamente accaduti proprio in quel periodo, e quindi ancora freschi e “cocenti” per i positivi risultati che erano riusciti a conseguire). Le intimidazioni, il boicottaggio sistematico, le minacce e persino le violenze, furono di conseguenza. costanti e continuative: si tentò davvero con ogni mezzo lecito (illecito) di “tagliare le gambe” al progetto (come sempre succede in questi casi), ma non furono ugualmente capaci non solo di  “affossare” la realizzazione dell’opera, ma nemmeno di “intimidire l’ardire” di chi aveva l’audacia di “osare”), e questo perché l’avventura intrapresa (consentitemi il termine) poggiava le sue fondamenta  su una insolita forma di finanziamento produttivo: i fondi dell’Unione Minatori (indispensabili per garantire la continuità e l’indipendenza creativa nonostante le avversità) e la cooperatività del lavoro (tutti “alla pari”, dal regista al produttore, dai tecnici agli attori). Non riuscirono però nemmeno a impedirne  la successiva distribuzione mondiale (analogamente fortemente boicottata in America, dove approdò in sala solo agli inizi degli anni ’60,seppure con ritmo frammentato e  “a scoppio un tantino ritardato”). Contribuirono anzi a creare la “miticizzazione” di un’impresa davvero titanica.

Va subito ascritto a merito del regista, la sua capacità di mantenere il controllo delle cose  nonostante il clima e le ostilità che avrebbero potuto suscitare la reattività della “rabbia incontrollata e furente” che avrebbe danneggiato il risultato. Fu infatti la prospettiva di realizzare un affresco “ragionato”  e veritiero ad avere il sopravvento, e infatti le valenze sociali del discorso qui fortemente significative, poggiano su una solida base  “artisticamente compiuta”  anche sotto il profilo dello stile, che gli permette di “volare” molto più in alto, nonostante alcune ingenuità nella definizione di alcuni passaggi (che probabilmente oggi potrebbero risultare notevolmente accentuate).

Non ci troviamo quindi di fronte  a un semplice e “datato” pamphlet di carattere politico (e in fondo il tono del “comizio” era il “rischio” maggiore, poteva rappresentare il “limite” negativo capace di annullare la temerarietà della scelta), ma più concretamente possiamo invece “ammirare” una creazione “ariosa” e coinvolgente, una vera e propria opera di “realismo poetico” capace di  “sfidare” le rughe del tempo, il che consente certamente alla pellicola di mantenere ancora inalterato, il valore del suo messaggio “documentale” in virtù dell’eccellente risultato complessivo raggiunto che va ben oltre il semplice “fatto” raccontato (per quanto importante), perché investe tematiche più profonde e universali.

Il pretesto narrante della vicenda (lo sciopero di un gruppo di minatori messicani per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro, o almeno parità di diritti con i propri compagni, i “dipendenti stanziali”) ancora attuale e – purtroppo – irrisolto (se non aggravato) dall’evoluzione non proprio in positivo del mondo che ci circonda (lo sfruttamento indecente, mal pagato e senza diritti della mano d’opera degli immigrati ne è un esempio lampante), nascondeva in effetti, al di là delle sue evidenti suggestioni, notevoli insidie e pericoli, primo fra tutti quello della eccessiva, scoperta retorica, che poteva diventare, soprattutto a posteriori, un “pesante”, insormontabile macigno. Qui invece si parla di “lotta di classe” (ovviamente), ma andando ben oltre la sterile e scontata enunciazione di concetti e parole d’ordine di circostanza, perché si riesce in qualche modo (“aggrappandosi” ai personaggi, poichè sono sempre loro più che gli eventi a “fare” la storia) a rendere “planetario” (e al tempo stesso “simbolico”) l’approccio, appassionando e coinvolgendo l’emotività dello spettatore.

Il racconto si snoda mantenendo sempre in primo piano le vicende personali di una coppia fra le tante che animano il disperato manipolo di “diseredati” – quella di Ramon ed Esperanza – ed è spesso analizzando questa realtà circoscritta che vengono filtrate le ansie, le aspirazioni, le amarezze e le contraddizioni di tutto il contesto, esasperate (ma non elementarizzate) dalle conseguenze vessative della impari lotta intrapresa dai minatori contro il sopruso e la prevaricazione. Non è quindi un semplice susseguirsi di slogan e picchetti o di cariche della polizia, ma un evolutivo viaggio anche di “crescita” individuale reso palpabile dalle modificazioni progressive che cambiano persino le percezioni e i rapporti dei due protagonisti principali (e non tutto sarà ovviamente rose e fiori, perché le avversità, le problematiche di coppia, persino il maschilismo imperante di Ramon, determineranno “crisi profonde”, apriranno ferite dolorose ma necessarie per la crescita e la ricomposizione dei rapporti, consentendo di passare dall’incomprensione anche aggressiva a una ragionata presa di coscienza più matura e produttiva). Ed è proprio attraverso l’analisi di questa complessità di affetti contrapposti, che prende corpo e sostanza la vicenda e che la violenza oratoria si trasforma in afflato poetico. Ramon è infatti un minatore molto istintivo, che ha uno spirito rivoluzionario profondamente radicato dentro di se, ma non sufficientemente metabolizzato, e la sua rivolta di fronte alle lusinghe di un fin troppo scoperto paternalismo o alle minacce brutali di una polizia scopertamente al servizio dei potenti, non è una contrapposizione “critica”, ma solo istintiva, esplicata con irruenza e coraggio perché avvertita come necessaria e imprescindibile, ma non ancora scaturita da una precisa coerenza di presa di coscienza ideologica. E’ inevitabile quindi che si “fidi” di più del suo istinto di classe, e che sia per questo  restio e “diffidente”, assolutamente incapace di lasciarsi tentare dai condizionamenti più burocraticizzati che i dirigenti sindacali tenterebbero di imporre. La sua formazione evidenzia per altro una supremazia sessista molto radicata (a sua volta “classista” e come tale “negativa” ed avversabile) che lo porterà ad assumere e mantenere spesso atteggiamenti di ingiustificata sfiducia nei confronti delle donne – moglie compresa – considerate - ancora e sempre - come esseri non paritari, magari da proteggere e difendere, ma non certo da stimare e “valorizzare” o da coinvolgere. Per questo osteggerà fermamente la costituzione dei picchetti al femminile (unica valida alternativa per poter proseguire la lotta) dopo l’ordinanza governativa che vieta agli scioperanti di essere attivamente operativi di fronte alla miniera, perché in qualche modo sente compromessa la sua concezione del mondo e inficiata la sua autorità di uomo, di marito e di padre. E il comportamento della moglie (le donne hanno sempre una maggiore capacità “di crescita” e di coerenza)  che intende unirsi alla lotta attiva in prima persona prima espresso un po’ timidamente, ma poi in progressione sempre più deciso e determinato (finiranno persino in carcere per questo), lo addolorerà profondamente, gli arriverà impropriamente non come la prova amorosa del sostegno, ma al contrario, lo percepirà come “un’intrusione innaturale” (e anche una prova evidente di mancanza di fiducia nei suoi confronti, quasi una “declassificazione” del suo ruolo), che lo offenderà rendendolo persino incapace di comprendere.

Anche il “viaggio” della moglie verso la consapevolezza, sarà duro e non privo di ostacoli (tutt’altro che scevro da profondi conflitti interiori) ma sarà proprio grazie alle avversità e alle sofferenze che riuscirà a sconfiggere gli ultimi pregiudizi arrivando ad acquisire piena coscienza di sé e dei suoi diritti e doveri. C’è al riguardo una scena particolarmente significativa che mi è rimasta indelebilmente impressa nella memoria, e che ritengo che possa risultare per questo, davvero “illuminate” e capace di indicare meglio di altre il “progetto” creativo dell’operazione: Ramon (esasperato e furente per non essere più in grado di tenere a bada le “intemperanze” della moglie e incapace di utilizzare ancora l’arma della “convinzione” dialettica) che alza la mano minacciosa e “prepotente” su di lei quasi a volerla picchiare, ma con una Esmeralda che per la prima volta non si ritrae terrorizzata e passiva, come era solita fare, ma anzi lo affronta con fierezza e dignità, fermandolo così nel gesto. E  sarà proprio da qui che rinascerà in entrambi una consapevolezza diversa più sodale  e partecipata. Sono quindi proprio le incertezze e le debolezze dei due personaggi (emblematicizzati e universalizzati) a fornire lo spessore umano alla storia e a riempire di significati il percorso “accidentato” di un viaggio di crescita dove la loro vittoria (perché lo sciopero dopo inaudite vicissitudini sarà coronato dal successo) non ci viene mai presentata come ineluttabile e sicura, ma al contrario risulterà più volte in costante pericolo, spesso in procinto di trasformarsi in una cocente e definitiva sconfitta.

Quello che invece risulta sempre in primo piano, è la consapevole certezza che se risultato positivo ci sarà, potrà essere raggiunto soltanto grazie a una costante tensione, ad uno slancio senza riserve che tenga alti e al di sopra di tutto, proprio gli ideali e impedisca di conseguenza la mercificazione delle idee, ma che in ogni caso si tratterà sempre e comunque di un risultato parziale e non definitivo, perché la lotta continuerà ad essere lunga e cruenta (e i “tempi” ci hanno insegnato… purtroppo… persino involutiva… ma così va la storia degli uomini).

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