Per una volta parliamo del cinema piccolo e sincero, che, alla ricerca del successo e alle ambizioni dell’arte, antepone un entusiasmo radicato nella vita dell’autore, nella sua terra, nelle storie che ha sentito, visto o vissuto di persona. Firenze e Manfredonia sono i luoghi di due film sgorgati dal cuore, con tutte le pecche tipiche di chi si butta in una nuova impresa con un misto di ingenuo timore ed amorosa incoscienza. Gli autori sono due registi esordienti, Andrea Mugnaini e Stefano Simone, che affrontano, in maniera indipendente, ma casualmente parallela, le opposte estremità dell’esistenza umana. I protagonisti, Vieri Del Cielo e Angelo Sormani, sono uno studente e un pensionato; due uomini accomunati dalla passione per la fotografia, e le cui vicende ruotano, simbolicamente, intorno allo stesso gesto: l’atto, semplice ma cruciale, di regalare un fiore a quella donna che credono perduta, ma che ritrovano, e che poi nuovamente scompare. Entrambi vivono in maniera esasperata i ritmi tipici della loro età, e ne abitano in maniera altrettanto perfetta gli scenari: la caotica frenesia del capoluogo, e la vuota lentezza della provincia fanno di Vieri e Angelo, rispettivamente, un temerario paladino dell’andare al massimo ed un tranquillo cultore della meditazione religiosa. Ugualmente emblematici, e contrapposti, sono i loro modi di percorrere le strade della loro città: il primo di corsa, alternando, a tempo di record, uno scooter ed una fiammante auto sportiva, il secondo camminando con il ritmo posato dell’osservatore, che lascia decantare dentro l’anima le suggestioni raccolte per la via. Ed è attraversando il mondo che i due uomini incontrano le incarnazioni dei loro demoni e le immagini allucinatorie dei loro paradisi. Vieri è perseguitato dai creditori e, in generale, dai guai, mentre Angelo è ossessionato dallo spettro della morte; e le visioni artificiali che il ragazzo si procura con l’alcol e la droga si specchiano in quelle fantasiose, e a sfondo religioso, che l’anziano scorge nei profili delle nuvole, delle stoffe ammucchiate, del pane spezzato. Due diverse forme di miracoli popolano i loro sogni di liberazione da una realtà che sembra prospettare loro soltanto una condanna inappellabile: quella di dover cessare la menzogna dietro cui si cela la loro effettiva situazione e dover affrontare il dolore di veder svanire tutto ciò per cui vivono. Il contrasto è tra la verità con cui devono fare i conti fuori casa e quella che devono dichiarare in famiglia (rispettivamente, ai genitori e alla moglie): per non turbare gli animi e conservare l’illusione di normalità bisogna a tutti i costi negare l’esistenza di qualcosa di tremendo che, tragicamente, incombe.
Non c’è tempo per gli eroi è un film lieve e scanzonato come una commedia giovanilistica, Una vita nel mistero è invece, un’opera avvolta nella drammaticità soffusa, e pacatamente didascalica, tipica delle romanze televisive. Anche il linguaggio è dunque parte integrante del ritratto generazionale, poiché si adegua ai gusti e alle esigenze di coloro che sono oggetto del discorso. Chiasso e silenzio, compagnia e solitudine, frivolezza e serietà fanno da sfondo a due racconti completamente differenti nella forma, ma uniti da un intimo legame fatto di fragilità ed insicurezza: le vicende di Vieri e di Angelo si risolvono solo in apparenza, con la definitiva certezza di un addio e la gioia di un nuovo, felice approdo. In realtà rimangono, per entrambi, l’ansia provata di fronte ad un futuro ignoto e l’angoscia causata dall’assenza di risposte sul proprio destino: una condizione che frena i loro passi e li spinge, infine, a rimanere fermi, a guardare davanti a sé e a riflettere su ciò che è stato, per cercare di capire il senso di ciò che li aspetta.
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