Piccola premessa prima di avventurarvi nella lettura. Come evidenzia già il titolo, questo è il primo di due post intervista dedicati al film Maternity Blues di Fabrizio Cattani, direttamente dalla sezione Controcampo del Festival di Venezia 2011. La scelta di suddividere il materiale in due blocchi è stata dettata da esigenze più che altro pratiche. Realizzate già le due interviste di cui si parlava anche qui, manca ancora un piccolo dettaglio a cui si sta lavorando e di conseguenza, d'accordo con chi amministra questo blog, oggi leggerete cosa ci ha raccontato Marina Pennafina del suo personaggio (Vincenza) e vedrete due trailer in versione internazionale, di cui uno in anteprima assoluta, mentre il 20 agosto (e si, la prossima settimana riposo anch'io, eh) toccherà proprio a Fabrizio Cattani raccontarci il suo film, presentandoci anche un inedito backstage (che diventerà quello ufficiale) in cui potremmo ascoltare direttamente dalla sua voce e con interventi del cast ciò che vedremo in sala a partire dalla primavera 2012. Proprio ieri, infatti, il film ha trovato anche distribuzione, grazie alla Fandango di Domenico Procacci.
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Maternity Blues (2011)
[ Italia, 2011, Drammatico, durata 93']
Regia di Fabrizio Cattani
Con Andrea Osvart, Monica Birladeanu, Chiara Martegiani, Marina Pennafina, Daniele Pecci, Pascal Zullino, Elodie Treccani, Lia Tanzi
Quattro donne, accomunate dall'aver ucciso i loro piccoli figli a causa della depressione post partum, espiano la loro colpa all'interno di un ospedale psichiatrico, devastate dal senso di colpa. Clara (Andrea Osvart) è combattuta dall'accettare che il marito (Daniele Pecci) si sia ricreato un'altra vita lontano da lei, Eloisa (Monica Birladeanu) riversa il suo dolore nel cinismo che mostra alle altre, Rina - una ragazza madre - (Chiara Martegiani) si è convinta che l'aver assassinato la sua bambina sia stato un atto d'amore mentre Vincenza (Marina Pennafina), nonostante il forte credo religioso le dia conforto, non riesce a staccarsi dall'amore per gli altri due figli rimasti in vita, a cui continua a scrivere lettere mai spedite.
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Sentire per telefono Marina Pennafina è una di quelle esperienze che ti cambiano il corso della giornata. Avendo visto il suo curriculum la sera prima, è impressionante sapere di trovarsi di fronte ad un’attrice che nel corso degli anni ha spaziato tra teatro (lavorando in opere tratte da Pirandello, Wilde, Camus, Fassbinder e Goldoni), cinema (diretta da maestri come Peter Del Monte e Liliana Cavani e facendo più volte da caratterista per Carlo Verdone) e televisione (è straconosciuta al grande pubblico per le parti in Don Matteo, Carabinieri o Ho sposato uno sbirro). Ancora più impressionante è essere accolti da una voce che sprizza energia e vitalità da tutti i lati, difficile quasi da ricollegare alla scena vista qualche giorno fa.
Marina, sei il tramite tra l’opera teatrale di Grazia Verasani (From Medea) e il film di Fabrizio Cattani. Com’è stato per te, donna, calarti nei panni di una madre infanticida?
Difficile. È stato complicato e lo è tuttora ritrovarsi addosso i panni di Vincenza. Avevo interpretato il ruolo a teatro, con la regia di Pietro Bontempo e la compagnia di Antonella Elia, Vera Gemma e Barbara Begala, ed ero rimasta imprigionata nel ruolo, rapita da una sensazione che mi ha portato a riflettere su me stessa e sul lato oscuro che caratterizza tutti noi. Si tratta di un’opera che va a toccare corde inesplorate del disagio personale, quello che difficilmente si riesce a manifestare a parole. E la difficoltà è aumentata dal momento che non sono ancora madre, così come le altre tre attrici protagoniste, Andrea Osvart, Chiara Martegiani e Monica Birladeanu. Forse questo ci ha aiutate a esplorare territori nuovi corredandoli però con le nostre esperienze più intime. Essere una Medea non è mai facile, per riconoscere che hai ucciso una parte di te stessa ci vogliono tempo e, soprattutto, cure e sostegno. Quello in cui vive Vincenza è uno stato incerto, deve prima di tutto prendere consapevolezza che l’atto commesso è un atto contro sé stessa e non contro il marito fedifrago. Solo dopo può venire la presa di distanza e la voglia di continuare a vivere. Nel suo caso, poi, scrutarsi a trecentosessanta gradi diviene ancora più complesso: dovrebbe trovare conforto nella religiosità, nella fede in Dio… ma ciò, anziché liberarla dal peso della coscienza, non fa altro che acuire il suo dolore perché accettare ciò che ha fatto è un atto di dolore. Vincenza non regge di fronte a ciò che si palesa ai suoi occhi, scrive lunghe lettere ai due figli rimasti in vita ma non le spedisce: è come se scaricasse le sue colpe sulla carta, come per esorcizzarle e allontanarle. Il problema principale per lei, la reclusa forse più “anziana” e matura, colei che dovrebbe fare da guida, arriva quando non si vede più come parte in causa ma come spettatrice della scena, quando matura in lei un distacco quasi oggettivo.
Vincenza è legata a una famiglia a prima vista normale. Tre bambini, un marito e la gestione di un ménage familiare, direi quasi ordinario. Cosa porta alla rottura di quest’equilibrio?
Vincenza è una donna che è cresciuta sin da piccola con un sistema forte di valori, in cui la famiglia tradizionale è il perno di ogni cosa, l’origine di tutte le traiettorie. Nel momento in cui scopre che il marito la tradisce, questo sistema di valori va in crisi, si incrina e causa frustrazione. Ha sempre dato amore a chi la circonda, darebbe la vita per i figli ma la mancanza di ogni gratificazione la svilisce, la fa scivolare in un vortice di depressione che causa disagio e autodistruzione. Non c’è buonismo nel voler tratteggiare il personaggio, semmai c’è una forte critica a una società incapace di gestire il proprio fallimento. Se ci riflettiamo, si punta sempre il dito sul gesto ma mai su ciò che lo ha causato. È come se la società voltasse le spalle proprio perché incurante di trovare un rimedio al suo disfacimento. Maternity Blues non è un ritratto sociologico, è un piccolo squarcio aperto nei confronti di chi non riesce a gestire la propria fragilità: uccidere un figlio equivale a un doppio suicidio e nel caso di Vincenza non si tratta solo di un modo di dire.
Come è stato condividere le scene con altre tre donne protagoniste?
Sarebbe divertente se vi raccontassi di liti per i truccatori, per le luci o per le inquadrature migliori ma sarebbe solo una colossale fandonia. Con Andrea, Chiara e Monica ci siamo ritrovate più unite che mai. Consapevoli ognuna delle sensazioni e del dolore che stava provando l’altra. Fabrizio è riuscito a creare, con le sue capacità e la sua sensibilità, un progetto in cui tutte noi credevamo, ci siamo affidate totalmente a lui e, cosa non meno importante, si respirava coesione e profondo amore ad ogni angolo. Certo, abbiamo faticato molto e il percorso di dolore che ci prestavamo a rappresentare ha tirato fuori vecchi fantasmi personali. Ognuna di noi si è messa a nudo e io stessa ho dovuto trovare la forza nella meditazione. E poi, fatemelo dire, quando ti ricapita un personaggio così forte? Per un’attrice, è una sfida anche con se stessa e le sue capacità, soprattutto quando, come nel mio caso, ti conoscono o ti chiamano solo per ruoli più leggeri o divertenti.
Hai avuto dei modelli di riferimento per il ruolo?
Ah, queste non sono domande da farsi a una romana… nutro un’ammirazione incommensurabile nei confronti di Anna Magnani, vera in ogni sua interpretazione, capace di strapparti un sorriso nelle interpretazioni più drammatiche o di farti versare una lacrima in quelle più esilaranti. Nel caso di Maternity Blues, invece, l’unico punto di riferimento è stata un’intervista che abbiamo potuto vedere: avevamo chiesto un incontro con qualcuna delle recluse e, giustamente, per preservare il loro equilibrio, ci è stata negata la possibilità. In compenso, grazie anche a un filmato di un programma di Raitre che Fabrizio ha recuperato e ci ha mostrato, abbiamo visto questa straziante testimonianza e ciò che mi ha colpita è stato lo sguardo, tra il perso e il doloroso… un’espressione che diceva tutto: scorrevano le lacrime ma era come se la storia non riguardava lei ma qualcun’altra. Ricorderò sempre quell’ossessione dell’anima, difficile da lavare via o mettere nel dimenticatoio. Il segreto, poi, è stato anche documentarsi molto sul tema, leggere e leggere fino allo sfinimento, hai bisogno di cogliere sfumature e di essere credibile in ciò che rappresenti. Non vorrei però che si pensasse che i toni del film volgano al patetico o al già visto, come nei drammi giudiziari… Tutt’altro: c’è una scena nel film che rispecchia l’atmosfera degli ospedali psichiatrici giudiziari, dove a fatica si cerca di ricreare una parvenza di normalità anche con una semplice cena di Natale.
Nel salutarti e ringraziarti, ci anticipi dove potremmo vederti presto, in attesa che il film arrivi nelle sale?
A Venezia, no? [ride]… Beh, ho appena finito di girare una fiction con Mediaset [Un amore, una vendetta, con Anna Valle]. Quindi, se non siete a Venezia, vi do appuntamento in tv!
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