È appena sbarcato in Italia in versione homevideo Il cervello che non voleva morire (The Brain that Wouldn’t Die), B-movie di fantascienza americano del 1962, mai uscito nelle nostre sale, ed avente come protagonista femminile Virginia Leith. Per la giovane attrice, che aveva esordito nel primo lungometraggio di Stanley Kubrick Paura e desiderio (1953), ed aveva raggiunto una certa notorietà con Sabato tragico (1955) di Richard Fleischer, all’età di soli trent’anni è già iniziata la parabola discendente, che si concluderà, negli anni settanta, con sporadiche apparizioni televisive.
Il film, il primo degli unici tre film diretti da un certo Joseph Green, è una formidabile perla di cinema spazzatura, che davvero non può mancare nelle collezioni degli amanti del genere. La storia narra di un giovane scienziato che, seguendo le orme del padre, un affermato chirurgo plastico, si dedica ad audaci sperimentazioni sui trapianti. Quando la sua avvenente fidanzata rimane vittima di un incidente d’auto, di lei riesce a salvare soltanto la testa, che terrà artificialmente in vita, nel suo laboratorio, mentre, tra night club e concorsi di bellezza, si affannerà a cercare una ragazza che possa fare da donatrice per il resto del corpo. La trama, inutile dirlo, fa rabbrividire, e sceneggiatura, regia ed interpretazione sono tali da suscitare ilarità, eppure la pellicola è così vivacemente articolata intorno alle proprie velleità (letterarie, scientifiche, e persino bioetiche) da risultare interessante, e finanche avvincente nella sua inarrestabile escalation di assurdità. Al centro della scena, mentre tutto intorno si fa scempio dell’arte recitativa e di ogni altra forma di estetica, campeggia il volto splendidamente cinematografico della Leith, sia pur coronato di tubicini ed elettrodi, ed emergente da una vaschetta piena di liquido. Nemmeno Ed Wood si era spinto a tanto: ma la vera anima del filone trash è forse, più che la sciatteria del formato, la presenza di paradossi ed eccessi insanabili. Sono infatti questi a contraddistinguere le allucinazioni pure, ossia quei deliri che si traducono in avventate fughe dalla verosimiglianza, senza beneficiare dell’intervento mitigante del gusto.
Da notare, comunque, che l'aberrante soggetto del film, oltre a contenere echi del precedente Occhi senza volto (1960) di Georges Franju, ispirato ad un racconto di Jean Redon, è, più recentemente, riaffiorato in una veste televisiva presentabile, e addirittura dotata di venature sentimentali: è stato infatti riproposto nel film tv Chi è Giulia? (1986), tratto dall'omonimo romanzo di Barbara S. Harris, e passato anche per i teleschermi italiani in un tranquillo pomeriggio domenicale di diversi anni fa.
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