L’arte mia nun t’a’ ‘mparà
po’ tuosseco ca po dda’
(Raffaele Viviani)
Da due giorni sono latitante su Cinerepublic: le ultime 48 ore mi hanno provocato una piccola depressione: scusatemi, ve ne prego. Tuttavia, avendo già completato questo mio breve excursus sulla recitazione qualche settimana addietro, ho pensato fosse giusto postarlo.
Ho scelto di parlare della recitazione, non me ne vogliano gli amici che meglio di me recensiscono criticamente film, perché mi sembra che alcune nozioni – che solitamente esprimiamo nelle scuole apposite – possano arricchire il bagaglio degli scrittori di questo sito.
Al termine di ciascuno di questi scritti, propongo un esercizio: prendetelo come un gioco. Potete farlo da soli o con i vostri parenti e conoscenti, mentre osservate una pellicola.
IMMANENZA e TRASCENDENZA
Agli albori, il cinema provò una strada differente da quella che è poi stata percorsa: l’astrazione. Perfino il film dei Melies, antesignano del cinema a soggetto, ipotizzava un viaggio sulla Luna. La tendenza (cui non furono estranei il primo Renoir e, incredibile a dirsi, Capra) di cercare una forma di intrattenimento diversa dal teatro, mise la settima arte in condizioni di trovare un percorso estetico che, invece di presentare storie, fornisse immagini giustapposte (cioè una di seguito all’altra) come una successione di quadri. In tal senso, lo spettatore avrebbe potuto scegliere liberamente le associazioni, fino a creare una storia propria. Ma, in tal modo, cominciò una lunga discussione su cosa era e potesse diventare il cinema: il passo che portò alla definizione d’industria fu breve. Un manipolo di autori (il termine regista in Italia fu introdotto solo nel 1940 ad opera di Bruno Migliorini), però, cercò di trovare un' alternativa alla recitazione che stava via via imponendosi: l’arte trascendente. Robert Bresson è stato, fino all’ultimo, l’ideale persecutore di tale strada. Ma, al contrario, la recitazione, con lo straripante contributo del neorealismo, ha finito per imporre l’arte immanente. Mentre i trascendenti limitavano l’attore ad esprimere ciò che sentivano importante senza muoversi, in maniera secca, gli immanenti hanno introdotto una serie di gesti, di azioni, di movimenti che accompagnano la vocalità attoriale.
ATTORE: FRAGILITA’ E SENSIBILITA’
L’attore, di per sé, è creatura fragile, ma sa quando e chi seguire: se sposa un’opera, lo fa con tutto sé stesso. Compito del regista è sapere se quell’attore ha davvero sposato quel progetto, quella vicenda. Ecco che, ad un occhio critico, allenato a distinguere la verità, può palesarsi la finzione, quando l'interprete non crede in quel progetto. In tal senso, egli appare spaesato, fuori luogo. In linea teorica, un personaggio viene costruito prima di essere affidato all'attore. Ma se questi è fuori parte (un attore siciliano che fa un milanese, una faccia da delinquente che impersona un giudice, o, più semplicemente, un comico prestato ad un ruolo drammatico e non preparato in maniera efficace), per quanti sforzi egli faccia, non troverà la giusta misura. In tal caso, l'errore è del regista. Ad interprete non adeguato, corrisponde un errore di regia. Non è infrequente nel cinema la "causa" per danno d'immagine (Renoir ne intentò una per "La regola del gioco"), quando, dopo un ruolo, un attore non si riconosce nell'interpretazione o un regista ritiene la prova errata.
Stanislavsky era un dilettante: questa battuta si deve a Mamet. Nelle sue intenzioni, il Grande Maestro Russo disponeva di tempo per mettere a frutto i suoi studi. Ma l’industria non ha tutto questo tempo: il lavoro, perciò, va valutato su ciò che è perfettibile, non perfetto. Ogni serata a teatro è – deve essere – diversa dall’altra. Un attore porta diversamente la voce, prende posizione differente, attacca un monologo poco prima o poco dopo. Insomma, se uno spettatore habitué di palcoscenici si trovasse per, mettiamo, diciotto sere consecutive a vedere la stessa rappresentazione, assisterebbe a diciotto spettacoli diversi! Certo, ne sarebbe gratificato….oppure deluso. Perché, alla fin fine, potrebbe convenire che l’aspetto istintivo della piece non c’è più: tutto è studiato a tavolino, tutto è definito in ogni dettaglio, l’armonia è solo apparente, il pathos strappato a forza…
In fin dei conti, l’atmosfera è artefatta, certo non spontanea.
Per la valutazione di un attore a teatro, si usano le diagonali, ma di questo vi parlerò la prossima volta.
Inserisco qui, di seguito, un breve estratto di un lavoro che mi appartiene (chiedo scusa a tutti: non è per immodestia, solo anticipatorio del futuro post, tra una settimana) per meglio chiarire il concetto di "costruzione teatrale":
PRIME VALUTAZIONI
Il Primo Piano
Con tale espressione, diffusa in tutto il mondo, l’inquadratura – che, in fondo, è l’unica, vera cosa che compete al regista , ma questo sarà oggetto di prossimo post – si intende la ripresa di una faccia e delle spalle di un attore (pp). Chiaramente, escludendo la ripresa delle spalle, l’inquadratura si trasforma in primissimo piano (ppp). Come si dirige un attore in Primo Piano? E’ essenziale che quell’attore regga il primo piano: non deve mai battere le ciglia, evitare di muoversi, non articolare la bocca (altrimenti gli si vedrebbero i denti….). Se l’attore è bravo, saprà lasciarsi dirigere, e l’inquadratura sarà esaurita in una sola ripresa. Altrimenti….bè, meglio cambiare l’attore!
A Stanley Kubrick non piacevano gli attori hollywoodiani: “si muovono troppo”, sosteneva. La sua totale disavventura con Douglas padre in “Spartacus”, lo indusse a scegliere interpreti più duttili, anche se apparentemente rigidi (Cruise, O’Neal, Mc Dowell). Il modello di riferimento per Kubrick era Albert Finney : a tutti i suoi attori protagonisti (pure a Nicholson, che invece gigioneggiò in lungo e largo, fino a schiavizzarlo) mostrava, per esprimersi riguardo la “non recitazione”, il film “Sabato sera, domenica mattina”, dove Finney, senza parlare quasi mai, si muove, prende gli oggetti, si sposta. Erano primi piani dell’anima, come si dice in gergo. Ma sir Stanley finì per abdicare al primo piano, insoddisfatto dei risultati (nessun attore è stato all’altezza di Finney?...), mentre, all’opposto, Bresson usò il Primo Piano delle mani, degli oggetti, dei piedi contrapponendolo a quello dei visi.
La "non recitazione" (per ora, passatemi questo termine), si ottiene con innumerevoli prove, arrivando (ed è una tecnica) a sfiancare l'attore. In Italia, tra i registi che più usano questa linea, si può citare Giorgio Dritti mentre, all'opposto, Carlo Mazzacurati, che, non amando le prove, lascia i suoi interpreti liberi di improvvisare. A metà si colloca Nanni Moretti: la sua ipotesi di regia (essendo quasi sempre fissa la macchina da presa) è "scavare" nelle parole più volte, sino a limare la battuta giusta. Ciò, in verità, vale un pò per tutti, perchè in un modo o nell'altro, le battute al cinema funzionano solo nel momento di girare, quasi mai sulla carta.
La differenza sostanziale tra il cinema e la televisione (e parliamo di tecnica) è proprio questa: il primo piano in tv non è giustificato, dunque non coincesso al regista (libertà di espressione condizionata alla produzione), mentre al cinema serve per "creare" il personaggio. In tal senso, un attore di fiction raramente funziona bene sul grande schermo (nonostante molti attori provino a passare da una parte all'altra). Un esempio: Rosario Fiorello "è" protagonista in televisione, mentre ha sempre ruoli di secondo piano in film lungometraggi. Si badi bene, ciò non è condizionante per il talento.
All’amico lettore, adesso, suggerisco di guardare un film in maniera critica: quanti primi piani contate ?
Il regista scafato, ma povero d’idee, ci mostrerà, in percentuale, circa il 60% dell’opera divisa tra facce e “controfacce”. Invece, in un film, a meno che non sia assolutamente necessario, i primi piani devono coprire, al massimo, il 20% del girato.
Adesso, soffermandovi sui primi piani, verificate quante volte il regista passa dal PP al PPP: se non c’è giustificazione, confrontate le luci tra l’inquadratura precedente e quella successiva. In tal caso, se i coni d’ombra sono diversi, potrete capire che quell’attore non ha “retto” il primo piano e si è dovuto necessariamente cambiare l’inquadratura.
E ora, tornate indietro: verificate se l’attore sbatte le palpebre, e se l’inquadratura cambia prontamente: in tal caso, si parla di “rinaccio” (parola gergale per definire un errore di ripresa). Va da sé che un film pieno di strafalcioni del genere (ah, Tarantino…) non sarà mai un capolavoro. Al di là della storia, conta anche la tecnica, purtroppo.
Infine, rivedete la stessa scena, valutando solo le persone che stanno alle spalle dei protagonisti: non vi fate distrarre dalle loro battute. Cosa fanno? Sono fissi nelle loro pose? Ripetono gli stessi gesti? Girano sempre il cucchiaino da caffè? Ecco “cosa non fa” un grande regista…
Ed ora buona visione!
Ps: quanti primi piani campo / controcampo contate nei film di Mike Leigh?
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