It ain’t over ’till it’s over: le estreme conseguenze
3. L’accelerazione impropria: Dollhouse, Caprica
Alcune serie non vogliono affrontare la certezza della conclusione, rimanendo inespresse e irrisolte; altre invece vogliono a tutti i costi arrivare al termine del presagito percorso narrativo, già ipotizzato in partenza, e lo raggiungono a passi accelerati. La coerenza drammaturgica, costretta dalle contingenze produttive dello scarso successo ma presagita in tempo per determinare un epilogo certo, impone un’impennata agli eventi, a volte raccontati a balzi che lasciano l’amaro della scoperta delle intenzioni e della mancanza di mezzi (e del tempo) per la loro completa realizzazione.
Così Caprica (Remi Aubuchon, Ronald D. Moore, David Eick, Syfy, 2010), nata come spin-off di Battlestar Galactica ma cronologicamente prequel determinante dell’universo narrativo già risolto, non poteva rimanere inespressa proprio nel finale, condizione sine qua non della serie di riferimento. Era pertanto necessario giungere alla enunciazione della conclusione per l’ideale avvio dell’altra serie e mostrare la nascita del mondo immaginario dei cyloni come evoluzione del virtuale umano, contaminato dall’assolutismo di una religione monoteista che si fa interpretazione rabbiosa dell’universo, in antagonismo con i politeismo lassista delle Dodici Colonie di Kobol.
Caprica si prende il tempo necessario alla disposizione di ogni ingrediente, si perde nell’ondivaga preminenza dei diversi personaggi, dissipati in diversi ambiti narrativi soltanto vagamente attinenti (l’oltretomba virtuale, la società capitalistica, il sottobosco mafioso, l’intelligenza artificiale, le guerre di religione) che denotano l’ambizione di un affresco articolato e multicolore. Ma il quadro generale stenta a coordinarsi in una forma seriale continuativa, impacciata dall’algida confezione che impone una rarefazione distanziante al melodramma in atto. Frammentata in rivoli, in funambolici ambiti di sviluppo che stentano a confluire insieme, Caprica si perde, ritrovando la strada narrativa a passi forzati nel finale, con l’artefatta enunciazione del postulato di partenza su cui si conclude.
Il presupposto determinante viene illustrato e non mostrato in progress, riassunto per brevi inquadrature non dissimili dalle introduzioni ricapitolative che aprono ogni episodio ripetendo in breve gli antefatti. Così, Caprica assolve alla sua funzione introduttiva proponendosi, nel congedo, come sintesi esplicativa di una narrazione mai avvenuta, la quale, mentre si pronuncia, trova la sua espressione compiuta nella rarefazione, proprio come quelle riprese abbreviate proposte ad ogni avvio, introducendo, da lungi, l’altra serie, diegeticamente a venire. Per sfruttare il seguito del modello iniziale è in produzione un ulteriore prequel (Blood and Chrome), cronologicamente intermedio tra i fatti di Caprica e gli eventi di Battlestar Galactica, con un’ambientazione bellica più attinente allo stile della serie originale, più apparentemente fattuale e meno esoterica.
Ultimo insuccesso produttivo di Joss Whedon, Dollhouse (Id., Joss Whedon, Fox, 2009-2010) ha subito travagliate vicissitudini produttive con l’imposizione, da parte dell’emittente, di una versione rimontata del Pilota e una nuova sequenza degli episodi. La vera conclusione della prima stagione (Epitaph One) viene girata per esclusiva volontà del creatore ma mai trasmessa da Fox e inclusa soltanto nel dvd. Confermata per una seconda stagione, la serie è andata a concludersi (Epitaph Two) con estrema rapidità secondo un percorso narrativo inaugurato dall’episodio improprio e con un salto nel tempo del tutto assente dal resto della “versione ufficiale” della cronologia degli episodi. Tutta la seconda stagione, tralasciando la struttura verticale autoconclusiva, si concentra sull’andamento narrativo prevalente, derivato e condizionato dall’inedito, e si muove rapidamente verso il finale. Il procedimento di condizionamento mentale su cui è basata la serie con l’imposizione di una personalità modellabile a piacere dopo la cancellazione dell’originale in soggetti più o meno consenzienti (le “bambole”) viene sfruttato impudicamente e limitato a pochi soggetti, usufruito da un’élite di possidenti come passatempo immorale. Durante le puntate autonome cambiano i clienti e le caratteristiche di usufrutto e soltanto in Epitaph One il meccanismo si trasforma in lucido strumento di asservimento generale e diventa minaccia globale, accompagnandosi ad un verdetto di condanna morale. La degenerazione delle intenzioni dei creatori della “Case delle Bambole” (da passatempo ad arma tecnologica) trasforma la natura stessa di Dollhouse, apparentemente classica nella iniziale volubilità settimanale, imponendole una serrata serializzazione e l’approdo ad un epilogo straziante, raggiunto in poche tappe di avvicinamento forzato.
Pur di attenersi al progetto iniziale, snaturato dalla messa in onda, Whedon ha trasformato l’apparente irrequietezza della serie in disperazione, la lucidità cinica e sarcastica in pessimismo ontologico introducendo una proiezione apocalittica di cui il giocattolo iniziale sembrava privo. Forsennatamente coerente, il creatore ripudia la stessa trasmissione originaria e rimanda al supporto aggiuntivo (il dvd con gli episodi inediti) per l’integrazione complessiva di una logica altrimenti sfuggente, per conquistare una coerenza in precedenza negata e avvicinare la serie al progetto previsto. Dollhouse rappresenta il riscatto dell’autore a dispetto di tutto, che impone e imprime la propria visione rischiando l’incomprensione, scegliendo come interlocutore di riferimento un pubblico dissidente dal semplice repertorio degli spettatori del canale di diffusione classico, una cerchia di fedeli attenti e consapevoli a cui offrire, comunque, il finale predisposto e la completezza dell’insieme, pur nell’accidentalità del percorso.
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