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La parola fine (8): Medium, Six Feet Under, Battlestar Galactica]
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It ain’t over ’till it’s over: le estreme conseguenze

 

2. L’addio definitivo: Medium, Six Feet Under, Battlestar Galactica

 

Tra le eventualità di conclusione esiste, ovviamente, anche la possibilità di un congedo per “esaurimento” come logico compimento del progetto seriale, non solo del plot ma degli stessi personaggi.

L’ambito funesto di Six Feet Under (Id., Alan Ball, Hbo, 2001-2005), inaugurato con la morte del pater familias, non può che completarsi con l’accompagnamento all’oltretomba di tutti i protagonisti. L’accelerazione finale su cui termina la serie, con la concentrazione in pochi minuti di un ambio cronologicamente dilatato, non rappresenta una forzatura narrativa dovuta ad imperativi produttivi bensì una precisa e coerente scelta stilistica, suggellata dalla presenza del creatore stesso (Alan Ball) alla regia e alla scrittura dell’episodio terminale, come già del Pilota, ad indicare il completamento del quadro.

Mentre la più piccola della famiglia di becchini Fisher si allontana verso nuove prospettive di vita, lo spettatore assiste all’immancabile dipartita di ogni personaggio, con un progressivo allontanamento dal presente come l’auto in autostrada accelera e si distacca dalla macchina da presa mentre l’occhio della narrazione si avventura in un viaggio nel tempo. Come mostra la sigla tutti i fiori appassiscono e la serie giunge al termine per dissolvimento progressivo: una sola canzone accompagna tutte le dipartite e Claire si prepara al futuro che comprenderà quelle assenze successive con cui dovrà convivere. Pur offrendo uno tra i finali più commoventi dell’ambito seriale, Alan Ball riesce a non far prevalere la tristezza dell’abbandono sulla certezza della partecipazione, ad emozionare con la sola semplicità dell’impianto e a ribadire, in chiusura, il senso di una serie costruita sull’accettazione della morte come parte integrante della vita che è vano, e quasi ridicolo, cercare di esorcizzare sino al rifiuto.

Anche Medium (Id., Glenn Gordon Caron, Nbc-Cbs, 2005-2011) ha affrontato consapevolmente l’oltretomba per le particolari abilità medianiche della protagonista (e dei suoi familiari) di mettersi in contatto con i fantasmi. Pur costruendo un procedural classico con casi cangianti ad ogni episodio e un andamento prevalentemente giallo, la serie riesce a bilanciare la bizzarria del presupposto con la delicatezza del tratto, l’efferatezza dell’ambito poliziesco (spesso con soggettiva dell’assassino) assieme al sereno ritratto familiare. L’armonia della famiglia Dubois fa da contraltare all’impegno investigativo di Allison, medium dedita alla caccia dei criminali in virtù dei suggerimenti percepiti nei sogni. Con grazie e ironia e attraverso un surrealismo grafico volutamente ingenuo, la serie riesce a rendere plausibile l’impianto e, soprattutto, credibili i personaggi con la convincente interpretazione anodina degli interpreti. Ma la vicinanza con i trapassati non poteva non imporsi nel finale, giunto quasi a sorpresa nella soppressione di alcuni episodi, ma coerente con la narrazione.

Ed è nella distruzione dell’armonia che si inserisce la fine del mondo dei sogni di Allison, nella morte, quasi inaccettabile anche per lo spettatore, dell’anima gemella. In un episodio che mima l’andamento consueto (l’indagine, ora sulla scomparsa del marito) ma che si rivela solo un tentativo ultraterreno dell’uomo di rendere meno amara la propria dipartita, si suggella la conclusione di Medium. Non importa se in quei quarant’anni che gli sopravvive Allison si sia dedicata ancora alla giustizia e all’episodio non interessa approfondirlo; è naturale che si sia occupata della famiglia, e viene dato per scontato, ma il bilanciamento armonico di antitesi integrate (lui è un ingegnere, un fisico matematico) costituto dalla coppia è venuto meno e la serie ha perso il suo centro motore. Medium, così, si concede l’ellisse di quattro decenni soltanto per accompagnare anche Allison in quel aldilà che aveva frequentato da esterna e in cui, con un amaro lieto fine, la aspetta Joe. E con una carrellata circolare degna di uno sfrontato melò la serie si chiude, ricostruendo nel terreno dell’indecifrabile quell’unione necessaria al racconto, ormai compresa in un capitolo affatto inedito che, senza gli occhi di Alison, non ci è dato vedere.

Non poteva che esserci la morte al traguardo di Medium, evento sondato in ogni suo aspetto, anche efferato, evocato a volte con l’esagerato senso di rivalsa giustizialista della società americana (la pena capitale), ossessivamente offerto in versione onirica alla protagonista (e alle sue figlie) come enigma a chiave, a cui si frapponeva l’esorcismo della serenità quotidianità di una famiglia unita dall’affetto. Interrotto il sogno, rotto l’equilibrio, corrotto l’impianto, la serie non trova l’alimento indispensabile al suo mantenimento in vita e si spegne, come i suoi protagonisti, si congeda un sorriso triste.

Con un analogo balzo termina anche l’odissea umana e cibernetica di Battlestar Galactica (Id., Ronald D. Moore, David Eick su un’idea di Glen A. Larson, Sci-Fi, 2003-2009) un salto in avanti però di millenni, un’impennata cronologica che provoca un’accelerazione stordente e che trasforma il pianeta di approdo predetto dalle anticipazioni mistiche nella Terra nota. Rispetto alla velocizzazione imposta a Caprica dalla brevità residua, la rapidità di chiusura della serie originaria si pone a suggello di una strenua dilatazione temporale e spaziale, durata quattro stagioni e una miniserie (più alcuni telefilm da episodi dilatati e webisode). Battlestar Galactica si è data il modo di accompagnare degnamente il viaggio degli eroi, dei loro mostri e dei loro uguali artificiali, angeli e demoni mescolati. Il viaggio spaziale di uomini e cyloni si conclude nello spazio e nel tempo della civiltà umana, di cui si fanno precursori condizionati, non dissimili dalla civiltà evoluta di 2001 e dal suo monolito silente. Uomini e cyloni confusi, creatori e creature ibridati si amalgano al genere primitivo umano per condurre ancora ai ricorsi storici di una mente minacciosa che si crede onnipotente, alla insita rivalità animale e alla gara tecnologica di supremazia con le macchine.

 Tra spettri e predestinazioni, profezie e divinità, consapevolezze e rivelazioni, la serie ha trasformato dilemmi morali e politici in suspense e in azione, dibattuto questioni filosofiche con profusione di combattimenti spaziali, senza perdere di vista il referente melodrammatico su cui ha costruito un plausibile esodo planetario di pochi supersiti obbligati a trovare una nuova patria per far sopravvivere l’intera razza umana. Intellettualmente brillante e intimamente funesta, la serie ha portato a compimento il percorso dei suoi personaggi sino a farli dissolvere nel vento dei millenni, a far evaporare corpi e storie nella leggenda e ricomporli nel mito. Non c’era più spazio narrativo nel brusco salto nel presente, tanto che l’unico ambito di ulteriore sviluppo del franchise era nell’anticipazione, nel moto al luogo e al tempo dei fatti già noti. Esaurita la serie, ormai del tutto e consapevolmente conclusa con senso e costrutto infine definito, con i personaggi dissipati nel corso dei millenni, il punto finale ha sorpreso lo spettatore che si è ritrovato, come in Guerre Stellari ma senza averlo mai saputo, «tanto tempo fa in una galassia lontana lontana…».

 

(to be continued)

 

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