In medias res: la sospensione
3. La cesura: I Soprano
L’evento forse più violento dell’intera saga della famiglia Soprano (The Sopranos, David Chase, Hbo, 1999-2007 per un totale di sei stagioni) è da identificarsi nel finale, in quella brusca interruzione che sancisce il definitivo addio ai personaggi. Colto nel mezzo di una scena anodina (una cena in famiglia al ristorante) in un frangente di alta tensione (una rappresaglia contro il capo-famiglia e i suoi accoliti per il potere mafioso), la serie bruscamente si interrompe a metà di un gesto e di una canzone (che si ferma su “Don’t stop”). Con sapiente miscela di suspense hitchcockiana, dosata dall’attesa di un evento drammaticamente evidente (un attentato?) e cadenzata dalla progressiva entrata in scena dei personaggi principali nel locale alternata all’arrivo di sospetti brutti ceffi, la scena finale crea una forte tensione nell’aspettativa che deflagra proprio nella sua vanifica. È il finale, così beffardamente brusco, a sancire la vera fine dei giochi per la famiglia Soprano perché ne recide il racconto, quella cronaca che, puntata dopo puntata, era proseguita per quasi un decennio in un susseguirsi di ammazzatine e sgarri, di violenze fisiche e verbali, di soprusi alla giustizia e delitti d’onore. Ma nulla raggiunge la violenza della soppressione della narrazione, nel suo momento culminante attentamente preparato. È proprio perché interrotto allo zenit della tensione che il finale dei Soprano sorprende e colpisce, imponendo la sua risoluta violenza allo spettatore costretto alla frustrazione dell’irrisolto. Il racconto si sospende lasciando perplessi in una sardonica imitazione di un gancio, di un cliffhanger destinato a non essere mai sciolto.
Usando un pretesto di confezionamento dell’attesa nel procrastinamento della risoluzione per sempre negata, David Chase conclude una serie che aveva fatto dell’indeterminatezza la sua cifra usando, simbolicamente e con perversa ironia, tutti gli ingredienti in precedenza miscelati: la quotidianità (la riunione di famiglia al ristorante) e l’angoscia (l’attesa densa), la normalità contraddetta dalla violenza (la mafia) e la costruzione classica (il palese riferimento ad Hitchcock), con i tempi necessari alla costruzione di un effetto (la durata dell’attesa) e la ripetitività necessaria alla serializzazione (le numerose entrate in scena). Costruita per episodi conclusivi, stilisticamente differenti e eminentemente cinematografici (inquadrature lunghe, tempi dilatati, narrazione autoconclusiva), I Soprano aveva costituito un’anomalia seriale (ereditata poi da Mad Men, nata da una sua costola) basata sull’attesa, sul crescendo di tensione e di irrisione. Nel seguire le vicissitudini malavitose di un capomafia protervo ma afflitto da un’inconfessabile debolezza psicologica (tanto da portarlo dall’analista), la serie aveva creato un personaggio con cui era facile simpatizzare ma impossibile identificarsi, costruendo per lo spettatore un distanziamento partecipato, una versione televisiva dello straniamento brechtiano a cui la fedeltà seriale aggiungeva l’affetto dell’abitudine. Privato dell’immedesimazione, lo spettatore necessitava di un’attenzione particolare, mai bilanciata dalla simpatia verso i protagonisti e rimaneva legato all’esiguità della trama orizzontale, pur attentamente preparata puntata per puntata, che procedeva per sospensioni aggiuntive, paratatticamente.
Quel finale imprecisato, che lascia ogni eventualità nel campo del possibile, distanzia definitivamente lo spettatore, lo abbandona quando sembrava volerlo coinvolgere per attenzione e affetto, frustrandolo un’ennesima volta. La suspense, però, era un necessario pretesto per convogliare l’attenzione, un irrevocabile macguffin per distrarre dal vero cardine della scena: la fine. E, così, questa può imporsi con la valenza di un’esplosione, con la violenza di una proposta che non è possibile rifiutare perché non vi sono alternative. Rimane solo da spegnere il televisore e sorridere per l’ennesimo trabocchetto in cui si è caduti, tornati all’improvviso al ruolo di semplici spettatori quando avevamo dimenticato di essere tali e ritrovare, di colpo, le coordinate di quel rapporto di reciproca fiducia con la serie che si era momentaneamente smarrito per troppa partecipazione.
Con quel finale, la famiglia mafiosa torna nel campo della narrazione ipotetica senza abbandonare il contesto fittizio in cui era evoluta. Non c’è esibizione di verità apparente nei Soprano ma solo di convenzione, più o meno divertita, che è pretesto per una cronaca dell’America contemporanea, delle sue debolezze intrinseche a dispetto delle apparenze. La metafora finisce con l’esaurimento del pretesto. Il resto, la finzione nell’universo della fantasia o la verità del mondo, può proseguire da sé. Ed è su una convenzione che l’impianto termina, con un brevissimo sguardo in macchina di Tony Soprano a sganciare la finzione dalla narrazione per denunciarla come semplice patto con lo spettatore. Dopo la cesura improvvisa e un “nero” interminabile iniziano i titoli di coda, in silenzio e per l’ultima volta.
I Soprano ha sempre avuto un andamento vagamente onirico, una costante componente surreale legata al mondo dei sogni e alla sua interpretazione psicanalitica (si è aperta con l’incubo delle oche di Tony Soprano), aiutata dallo stile cinematografico della regia. Grazie a quella cesura finale, che imita la violenza del risveglio, il ritorno alla realtà frattura le precedenti illusioni, obbliga a cercare i parametri di riconoscimento del mondo circostante dopo la confusione del distacco perché lo straniamento dal mondo dei sogni narrativi si è concluso.
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