In medias res: la sospensione
1. Il flusso: E.R.
A volte è un finale imprecisato a decretare il commiato. Dopo 15 anni il lavoro al pronto soccorso del Cook County non si interrompe, continua, anzi, lasciando nel fuori campo e oltre lo schermo il susseguirsi di medici e di vicende, di dolori e di lutti, di gioie e di speranze che l’ambiente ospedaliero quotidianamente offre e, settimanalmente, si mostrato in televisione. Solo un carrello indietro denota l’allontanamento da quel reparto d’urgenza che è stato il set di E.R. (Id., Michael Crichton, Nbc, 1994-2009) per tre lustri, confermando l’impianto della serie e lasciando che il suo stesso formato scivoli delicatamente nella memoria.
Il ritratto di vite imbrigliate nel luogo comune del pronto soccorso è stato l’impianto costante di una narrazione che ha ospitato (e a volte bruciato) volti e carriere, ha lanciato interpreti di primo piano o, semplicemente, offerto una vasta platea ad attori meno noti. Ma il set è sempre rimasto immutato, sia nel senso letterale di ambientazione che in quello metaforico di impianto narrativo, indifferente al trapianto di personaggi o al rimpianto degli spettatori. Con medica freddezza, la serie ha inanellato vite e vicende senza perdere interesse, con gusto della quotidianità e sagacia spettacolare per rifondare il medical-drama che, da E.R. in poi, ha dovuto scegliere incarnazioni differenti per riproporsi in tv a fianco o in antagonismo alla longeva serie creata da Michael Crichton (e che gli è sopravvissuta). Così House M.D. è un procedural investigativo modellato (nelle prime stagioni) sulle arguzie logiche di Sherlock Holmes e su stilemi visivi di C.S.I. (ingrandimenti improvvisi, salti all’interno del corpo), Grey’s Anatomy (e il suo spin-off Private Practice) non è che una soap con sfondo medico, Nip/Tuck un’allegoria sardonica della vanità. Nessuna serie ha voluto (o potuto) rivaleggiare con la capostipite del genere ospedaliero moderno, che ha inaugurato una inedita veridicità clinica, associata ad una velocità di montaggio e ad un uso intensivo della steady-cam che ha creato uno stile immediatamente riconoscibile.
L’avvicinamento alla fine ha attraversato l’intera stagione finale con un dilatato saluto agli spettatori che, secondo la tradizione americana, ha visto sfilare i diversi protagonisti per un estremo omaggio e un ultimo inchino al pubblico. Parallelamente, la serie ha ripercorso i propri passi anche nel finale che richiamava intenzionalmente il primo episodio. E.R. era iniziata con il pretesto dell’entrata in servizio di John Carter, medico novizio, nel pronto soccorso ed è terminata con l’arrivo di una nuova generazione di dottori (tra cui la figlia del Dott. Greene), pronti a prendere il posto degli anziani. Lo scorrere dei pazienti o la prestazione delle cure non è mai stato interrotto, soltanto intercettato dalle cineprese e tradotto, nella mimesi della veridicità dell’impianto estetico, in flusso narrativo, che adesso si interrompe discostandosi dall’ospedale, allontanandosi da ciò che era il fulcro stesso della serie. Ma quella vita, la finzione della sua riproduzione che ha tali stimmate di verità da confondersi con essa, è destinato a continuare, altrove dallo schermo, precipita nella memoria mentre il capitolo delle sue registrazioni si chiude, come uno sguardo che si distrae o una panoramica che lascia il suo soggetto iniziale.
Anche al suo termine l’impianto seriale rimane stabile e inattaccabile, modellato sulla realtà e come tale inconfutabile, lasciato sospeso nel pretesto della cesura narrativa e libero di mantenersi attivo nel fuoricampo. L’impianto di E.R. decreta il proprio trionfo, oltre il narrato, al di là del mero passaggio dei personaggi e della fine della serie stessa (finanche del trapasso del suo creatore), implicitamente sostenendo che potrebbe procedere all’infinito, cambiando attori e spettatori, scrittori e produttori senza perdere coerenza e coesione, inserendosi in quella continuità riconoscibile che ne ha fatto la forza e garantito la tenuta.
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