“A New York, dopo la proiezione,un giornalista mi chiese quale fosse il mio paese,la Francia o Israele? Risposi d’istinto: la mia patria é il mio film”
Claude Lanzmann
L’azione comincia a 80 km a nord ovest i Lodz, nel cuore di una regione un tempo a forte popolazione ebraica.Chelmno fu in Polonia la località del primo stermino di ebrei col gas.Ebbe inizio il 7 dicembre 1941. 400.000 ebrei furono assassinati a Chelmno in due periodi distinti:
dicembre 1941-primavera 1943
giugno 1944- gennaio 1945
Il modo di somministare la morte rimase fino alla fine identico: i camion a gas. Dei 400.000 uomini, donne e bambini che giunsero in quel luogo si contano due superstiti: Michaël Podchlebnik e Simon Srebnik.Simon Srebnik era allora un ragazzino di tredici anni e mezzo…
Simon Srebnik
Simon cantava, aveva una voce melodiosa, cantava arie del folklore polacco mentre la barca a fondo piatto risaliva la Ner.L’avevano messo fra i Sonderkommando, gli “Ebrei da lavoro”, quelli con le catene ai piedi e i guardiani al seguito, e venivano usati per ogni tipo di fatica.Padre, madre, tutti morti, la sua voce lo salvò, il guardiano gli insegnò ritornelli prussiani e lui riuscì ad arrivare al 18 gennaio 1945, quando i Tedeschi distribuirono un colpo alla nuca ciascuno a tutti gli “Ebrei da lavoro”, prima che sul campo piombassero i Sovietici.Ne toccò uno anche a lui, ma la sua sorte era di testimoniare l’indicibile e far parte, trent’anni dopo, della schiera quieta e dolente di voci che Lanzmann ha rincorso dappertutto nel mondo, scovate ovunque, segugio inflessibile, con le sue brevi domande semplici, che chiedevano risposte difficili, sepolte e immemorabili.
Ma Lanzmann non ha mollato nessuno.
Non penso di averli maltrattati. Shoah è anche una dissacrazione. Di solito si adotta un pessimo atteggiamento pietoso di fronte al dolore dei sopravvissuti. Se un superstite si mette a piangere si pensa - Silenzio, non spingiamoci oltre, rispettiamo la sua sofferenza - Io no, io continuo. Soprattutto non volevo il silenzio. Shoah é un film che restituisce la parola, che dissacra ma risacralizza ad un altro livello, molto più profondo: un livello di verità.
Il ragazzino cantore é tornato a Chelmno da Israele con Lanzmann, ha quarantasette anni e canta ancora quella filastrocca orecchiabile.Cammina fra quei boschi, é difficile per lui riconoscere,sussurra: …ma era qui, qui bruciavano la gente - dice - molta gente…
Le fiamme arrivavano fino al cielo…
Fino al cielo?
Sì, e nessuno può capirlo quello che é successo qui, io stesso ora non posso capirlo. Era silenzioso, calmo, com’é adesso…”
Lanzmann riprende luoghi solitari, radure incolte, un corso d’acqua verde, filari di alberi, sullo sfondo il campanile di un paese.
E’ la normalità di un mondo in cui si é aperta una voragine per l’inferno e poi si é richiusa.
I volti non sono quelli di “sopravvissuti”, sono molto altro, …sono individui tornati dall’aldilà della soglia del crematorio.Erano tutti destinati a morire e sono sopravvissuti per un miracoloso concorso di coraggio e di fortuna. Ne sono coscienti al punto di non dire mai “io”. Sono i portavoce dei morti.
Michaël Podchlebnik
La foresta di Sobibór, verdeggiante e folta zona di caccia.In quegli anni si poteva trovare un capriolo, dopo un colpo di fucile, o un povero Ebreo che tentava di scappare. Lanzmann, Eva l’interprete e Michaël Podchlebnik avanzano lenti nel silenzio, e intanto l’uomo riascolta le grida di allora, i latrati feroci, i colpi d’arma da fuoco.Le immagini scorrono nella mente, oltre gli occhi, non c’é fiction che superi la forza della parola che evoca e dilata lo spazio nel tempo, il tempo nello spazio e fonde il passato col presente.
Podchlebnik era autista di uno di quei camion per il gas, primo metodo artigianale e poco efficiente di eliminazione dell’uomo per quell’ Aktion Reinhardt partita piuttosto in fretta, senza un progetto preliminare messo a punto in modo ineccepebile, molto è stato migliorato nel tempo, si dirà in seguito, nelle lunghe ore di Shoah, e in questo work in progress verrà alla luce tutta la capacità inventiva e imprenditoriale delle SS. Podchlebnik era anche lui “Ebreo da lavoro”. Col viso in primo piano racconta che apriva i portelloni da cui cadevano mucchi di cadaveri e piangeva.Il terzo giorno ha visto cadere la moglie e i figli.Voleva essere ucciso, l’ha chiesto, ma gli hanno detto che doveva lavorare, era ancora robusto e dunque per ora non se ne parlava. Le riprese indugiano su campi coperti di ampie macchie di neve, allora era l’inverno del ’42, i corpi venivano sepolti lì sotto, disposti come aringhe, per testa e per piedi, solo in seguito si cominciò a bruciarli. Sfilano facce, sono quelli che videro, una galleria di nomi ebrei, polacchi, ceki, o voci anonime di artigiani del posto e contadini che pascolavano mucche a poche centinaia di metri dal bordo dei campi di sterminio.
A tutti Lanzmann strappa un frammento di verità, e l’immemorabile e l’indicibile riprende i suoi connotati, dissepolto dall’inflazione memoriale che l’ha soffocato:
“Le nostre lacrime e le nostre sofferenze annegate in un oceano di annotazioni e racconti…”.
Lanzmann, unico, ha ascoltato questo grido e ha cercato solo la verità, che è semplice ma difficile da dire, e la strada non poteva che essere questa.
“Il film è costruito “in absentia” - dice - sul nulla, sull’assenza di tracce”.
Ricordi di compaesani
Si entra nei piccoli paesi polacchi svuotati di ebrei che file di camion avevano portato via dai gruppi raccolti in piazza, o in chiesa. o in altro posto pubblico. E la gente dei paesi vedeva e sapeva dove sarebbero andati.
Qui c’era il negozio, di Baruch, lì la sartoria di Lichtenstein
E di fronte chi c’era?
Un negozio di alimentari
Un negozio ebraico?
Sì
Questa bella casa era degli ebrei? e quell’altra dietro?
Sì, anche…
Anche questa qui a sinistra?
Sì, il proprietario era un bell’uomo pieno di cultura…
Sembra che questa sia stata una città tutta ebraica
Sì, il centro della città era tutto abitato da ebrei, i polacchi erano più in là
Brevi domande, innocue, di quelle che non spingono l’altro a chiudersi a riccio, le domande che a volte nessuno fa. Lanzmann le fa tutte, la sua voce è sempre così, pacata, indagatrice e paziente, non rivela nulla di sé, delle sue emozioni, è puro ascolto che vuole parole da ascoltare, tutto il resto é irrisorio, inutile, sepolto nelle pagine di intere biblioteche.
“Cos’è successo agli ebrei di Auschwitz?”, era anche un normale paese Auschwitz, una volta.
“Credo che dopo siano tutti finiti al campo”, dice la signora senza cambiare espressione, mentre un flash affonda in quel famoso ingresso dell’ Arbeit macht Frei.
A questo punto, qualcuno nel capannello che si è formato intorno a Lanzmann dice anche che gli ebrei, già prima della guerra, presagivano la loro fine.
Il conducente del treno
Un treno, uno dei tanti di Shoah,ora diventa protagonista dell’unica scena di fiction del film.
Sentiva gridare dietro la sua locomotiva?
Risponde il conducente di allora, Henrik Gawkowski:
Naturalmente, perché la locomotiva era proprio vicina ai vagoni.
Ci si abitua a questo?
No ... no
I tedeschi gli davano vodka per resistere
Eva, chiedi al signor Gawkowski perché ha l’aria così triste - fa Lanzmann all’interprete
Perché ho visto uomini marciare verso la morte.
E c’erano giornate belle come oggi, immagino.
Purtroppo sì, c’erano giornate anche più belle di questa.
I sopravvissuti
Un superstite di Auschwitz, Rudolf Vrba, racconta da New York, dove ora vive, del viaggio indimenticabile su quel treno; Abraham Bomba, il barbiere, dice che doveva lavorare a Treblinka e tagliare i capelli nelle camere a gas, un particolare agghiacciante, che mai si era saputo prima; Inge Deutschkron, ebrea nata a Berlino, vissuta in clandestinità, non crede più alla gente:
Come hanno potuto non vedere? E’ durata quasi due anni, ogni quindici giorni portavano via la gente dalle loro case…. e fu il giorno in cui di colpo mi sono sentita così sola, così abbandonata, sapevo che ormai saremmo rimasti solo un pugno di persone e mi sentivo così colpevole per non essermi lasciata deportare. Quale forza ci ha spinti a sfuggire a quello che era veramente il destino del nostro popolo?.
Due ore di domande e risposte in questa prima parte del film, senza un ordine apparente, trascorrono legate solo da quella trama di parole che Lanzmann fa riemergere come un’eco e si giunge così all’ultima mezz’ora, a Filip Müller e a Franz Suchomel, Unterscharführer SS, ripreso a distanza da una postazione esterna (non sarà l’unico testimone del gruppo delle ex SS ad essere ripreso dall’ esterno) .
Ex SS in libertà
…per non aver commesso il fatto?
Suchomel appare in una ripresa sfocata dalla distanza mentre racconta dei treni che arrivavano dal Ghetto di Varsavia, uno dopo l’altro, in sequenza interminabile.
I primi furono di cinquemila Ebrei, ma tremila erano già morti nei vagoni prima di arrivare, suicidi o altro genere di morte.
Abbiamo scaricato dei mezzi morti o dei mezzi pazzi, nei treni più della metà erano sempre morti, li accatastavamo sulla rampa come la legna.
Lanzmann: Com’era Treblinka? La sua prima impressione quando arrivò lì, é importante…
Suchomel: La prima impressione, mia e dei miei compagni fu catastrofica, non ci avevano detto che giù si uccideva la gente. Io non volevo andarci, é stato provato al mio processo…
Parla con voce lenta della tremenda scoperta delle camere a gas:
Stavamo visitando il campo mentre aprivano le porte, e la gente cadeva fuori come patate. Siamo tornati a sedere sulle nostre valigie e abbiamo pianto come donne anziane…
Mentre Suchomel parla, una panoramica riprende il campo, le pietre fitte del Sacrario conficcate a terra, le chiome gonfie degli alberi sul fondo che chiudono l’orizzonte in un verde intenso, mentre il vecchio ricorda l’afa di agosto e il calore che si sprigionava dai corpi ammassati:
“… la terra ondulava per i gas dei cadaveri, fosse di sei, sette metri, tutte piene zeppe di cadaveri. Abbiamo vomitato e pianto…
Filip Müller
Il 12 maggio del ’42 (Lanzmann esige sempre date esatte) Filip Müller entrò per la prima volta nel crematorio Auschwitz I.
Aveva 20 anni e fu isolato al blocco 11, lontano dal resto del mondo.Lanzmann con la cinepresa segue le sue parole, fra le baracche superstiti, le recinzioni, i muretti e le aiuole gelate, resti di neve ghiacciata nel silenzio profondo del posto.Fra i rami scheletriti di pochi alberi dai tronchi neri appare a distanza una torre, edificio dal tetto piatto, un camino…
Dietro ho visto un ingresso, ignoravo dove ci portassero e credevo stessero per giustiziarci.
Subito il puzzo, il fumo mi soffocarono e fu allora che distinsi i contorni dei primi due forni.
Eravamo nella sala d’incinerimento del crematorio del campo base di Auschwitz.
Ci spinsero in un’altra grande sala, ci dissero di svestire i cadaveri.
Mi guardai intorno, c’erano centinaia di corpi…
“E’ mai possibile parlare dall’inferno, testimoniare dal seno stesso delle fiamme che annientano il testimone?” aveva chiesto Shohana Feldman.
Shoah riesce a fare di più, già in queste prime due ore, l’inferno ce lo riporta sulla terra, lì dov’era stato ricostruito, e dopo ci si sente un po’ testimoni anche noi, è inevitabile.
Lanzmann : All’inizio ero rigido sul modo di vedere il film, volevo che avvenisse solo al cinema e tutto di seguito. Col tempo mi sono reso conto che il film é abbastanza forte per sopportare qualsiasi condizione e contesto, perfino a pezzi. Certo, vederlo dall’inizio é meglio. Quando due anni fa il film fu trasmesso in televisione da France 3 tutto di seguito, a partire dalle 21 (con l’unica interruzione del notiziario di mezzanotte) vi fu un’audience formidabile, e ancora alle sette del mattino c’erano due milioni e mezzo di spettatori. Fu un atto notevole di solitudine volontaria. Un’amica cineasta, Claire Denis, mi telefonò per dirmi l’emozione di vedere il sole alzarsi mentre continuava a vedere Shoah...”
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Filmografia di Claude Lanzmann
SHOAH
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