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Lattuada uno sguardo opposto al neorealismo, ovvero Il cappotto.
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La pellicola di Lattuada si apre con una didascalia alquanto significativa: "La vicenda di questo film si ispira al racconto di Nikolay V. Gogol e non ha alcun riferimento con fatti e personaggi del nostro tempo". Essa sembra un vero e proprio atto di accusa, una presa di posizione contro il dilagare delle nuove mode cinematografiche. Siamo nel 1952, anno in cui Vittorio De Sica realizzerà Umberto D, punto massimo di quel movimento rivoluzionario che è appunto il neorealismo. Alberto Lattuada sembra essere uno dei primi a volersene distaccare, inseguendo la sua bulimica fame di immagini che ha ben altre fonti, in primis il cinema nord-americano e quello francese di Carné e Renoir.

All'inizio degli anni cinquanta il neorealsimo è già una splendida (dis)illusione. Una rivoluzione che rimarrà espressa solo a livello intellettuale, ideologica come una sorta di comunismo che non troverà mai possibilità di attuazione, ma che continuerà a sventolare i suo "libretti rossi" : Roma città aperta (45), Paisà (46), Ladri di biciclette (48). Capolavori ambigui, in cui si riversa una doppia capacità: prima di tutto quella di improvvisazione e di inseguimento di personaggi presi dalla strada e secondariamente la capacità di contaminazione e di assunzione di elementi di messa in scena, come l'utilizzo di sceneggiature, il doppiaggio degli attori non professionisti, e infine l'utilizzo di attori illustri (Aldo Frabrizi, Anna Magnani ecc.).Il regista milanese fin dalla metà degli anni quaranta sente il bisogno, come gran parte dei suoi colleghi, di raccontare la realtà del dopoguerra ma lo fa con toni e punti di vista diversi dal neorealismo. L'Italia appare ai suoi occhi come una realtà distrutta e da ricostruire. "Ci sarà da lavorare fino al 3000" commenta il reduce, interpretato da Amedeo Nazzari, ne Il badito (46). Ed è proprio dalla ricostruzione dell'Italia che parte Lattuada ne Il cappatto, dove sindaci, burocrati e appaltatori si accordano per costruire la nuova Pavia, che nel film assume contorni espressionistici e surreali, tendendo ancor di più a sottolineare il distacco dall'estetica neorealista. In questa fase di ri-costruzione, l'italiano medio, ovvero l'impiegato che si sottomette al volere dei gerarchi, cerca di attuare la propria scalata sociale. Come il protagonista del film Carmine de Carmine, interpretato magnificamente da Renato Rascel, una sorta di embrione fantozziano. L'impiegato eternamente sfigato, maltrattato dai suoi superiori e impegnato a trovare un posto di rilevanza nella nuova società delle apparenze.Il cappotto, ovviamente nuovo e con il colletto in pelliccia, diventa allora l'emblema, il simbolo di questa scalata sociale, l'unico strumento possibile per essere notato ed apprezzato in un mondo diviso da chi prende le decisioni e da chi deve eternamente fare la fila al comune per ricevere la pensione. Carmine de Carmine non sta ne da una parte e ne dall'altra, lui si trova al centro, una posizione in cui potrebbe essere destinato a morirci. Ma l'acquisto di un cappotto nuovo ed elegante potrebbe essere l'inizio di un nuovo giorno. Ma come accadeva in Ladri di biciclette (48) di De Sica, al personaggio viene sottratto il suo unico mezzo di emancipazione. Nel film di De Sica ad essere rubata è la bicicletta, mentre nel film di Lattuada il protagonista viene derubato del cappotto.L'ironia surrealista di Lattuada (presente in tutto il film) qui si gioca sul fatto che il cappotto non è, a differenza di Ladri di biciclette, un mezzo di sopravvivenza, ma semplicemente il pretesto di affermazione sociale. Eppure il personaggio sottratto del suo cappotto, muore d'infarto. Vivere senza cappotto, significa non vivere, rimanere declassato all'eternità. Ma Carmine de Carmine non ci sta, anche da morto pretenderà che il suo cappotto gli venga restituito. Come in cielo così in terra egli rimarrà un uomo medio.   (Roberto Mazzarelli)

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