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2011: anno zero del cinema italiano.
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Cannes, 2011. Dopo una straordinaria battaglia, la repubblica francese è riuscita a piazzare i suoi colpi vincenti, portando a casa ben due riconoscimenti, mentre gli Stati Uniti hanno replicato con il maggior premio in palio, più il prix de la mise en scéne. La convincente difesa di Israele, Danimarca, Belgio, più la tenuta - per quanto minima - di Argentina e Spagna hanno consentito uno schieramento trasversale di riconoscimenti da cui l'unica sconfitta appare l'Italia. Da qui in poi, si comincerà a parlare della crisi del cinema nostrano.

E, per una volta a caldo, voglio essere io a dare il via ad alcune semplici considerazioni. Siamo da sempre una cinematografia molto più viva e (scusatemi l'ardire) più importante di quanto appaia: nonostante nella Penisola vivano meno di sessanta milioni di abitanti, produciamo un centinaio di pellicole l'anno. Qualcuna, purtroppo, non riesce ad uscire al botteghino, qualche altra ha vita breve in sala per poi riprendersi in home video. In ogni caso, facciamo film (e con mezzi a volte limitatissimi: qualcuno gira con poche centinaia di euro...)  con un entusiasmo non rintracciabile in altri paesi. Si pensi, ad esempio, che in Germania la legge locale impone un tetto pari a 30 lavori; che in Spagna l'unico autore riconosciuto è il buon Pedro; che in Argentina sono state prodotte solo 14 pellicole nel 2009; che gli ex "paesi dell'est" assomano in totale 104 prodotti in un anno solare; che Cina, Giappone, Thailandia, Malesia, Corea, messi insieme sfornano meno del doppio degli italiani. Tralascio qui l'India, il secondo paese produttore di film nel mondo, perchè essendo legata ad un mercato interno ed a codici ormai datati (assoluta mancanza di contatto fisico tra uomini e donne in qualsiasi contesto), non può essere valutata come rilevante. Restano, allora, quali concorrenti principali, il Regno Unito e la Francia. La seconda è attiva sul mercato interno: i suoi film, però, sono troppo spesso ipervalutati dalla critica locale, ridimensionati (a ragione) nel resto del mondo, non mi sembrano dare fastidio al nostro box-office. Al contrario, i Britannici sembrano subire il cinema più che farlo: al di là di Ken Loach e del maestro Mike Leigh, faticano a reinventare una scuola. Tuttavia, se guardiamo ai riconoscimenti davvero importanti, il nostro cinema è fermo alla Palma d'oro di Moretti nel 2001, al Leone d'oro del 1998 di Amelio, ai due riconoscimenti laterali a Cannes del 2008 a Garrone e Sorrentino. Gli americani, s'intende, producono un migliaio di film l'anno, ma pochi vengono accolti con trepidazione. Si tratta di prodotti di consumo di massa, genericamente destinati all'intrattenimento puro, più raramente al cinema d'autore (spero mi si passi questo termine per indicare un'opera che lascia pensare, a prescindere dai gusti). Se ci soffermiamo, allora, notiamo come solo una cinquantina di titoli statunitensi sono decorosi: su una popolazione di circa 600 milioni di abitanti, è davvero poco. Nel 1959, anno di massimo sviluppo del cinema italiano, da Cinecittà e dintorni uscirono fuori 375 titoli, più di uno al giorno: si ebbe, è ovvio, il travaso americano nei nostri studios, ma anche la paura che la potessimo "fare da padroni" sull'entertainement. Va qui detto che per "entertainement", negli Usa, si intende il mercato complessivo dell'industria cinematografica: videogiochi, videoclip, pubblicità, fiction, soap opera, telefilm, showtv, quiz time, pellicola 16, 35, 70 mm, video 24 fps, off e in Broadway, musical, art business, cartoni animati. Insieme, è la più grande industria del mondo: essa supera anche quella delle armi, delle auto e del giro d'affari bancario-borsistico "sol levante- wall street". Ecco, allora, che il mercato statunitense negli anni 60 è sofferente: l'Italia erode fette di mercato inaccettabili per l'industria hollywoodiana. Nel 1972, con l'introduzione della prima tax statunitense, gli americani fanno rientrare i capitali che avevano come destinazione l'Italia, e il giovane Francis Ford Coppola si vede costretto a girare il suo Padrino diversamente da come l'aveva progettato. Attori come Clint Eastwood staccano un biglietto di sola andata per il paese natio, Cimino non troverà mai i fondi adatti per girare da noi. Ma, almeno per il prestigio, l'Italia si difende: ad oggi, vantiamo ben dodici Palme d'Oro, tenendo a distanza ragguardevole sia il Regno Unito che i francesi. Ciò non può stare bene agli Usa: inizia un lavoro sistematico di distruzione del cinema italiano. Nell'ultimo decennio, gli statunitensi vincono ben 4 Palme (!) sulla croisette, divenendo in poco i maggiori detentori di alloro, evitando (pressochè sempre) di assegnare agli italiani un benchè minimo premio (e quando Robert De Niro, prezzolato anche in Italia per un film ridicolo, ci ignora, dimostra come i nostri soldi - ah, Veronesi! - siano stati mal spesi).

Il discorso che si pone oggi, quindi, è proprio questo: i nostri campioni dell'ultimo biennio hanno fatto di tutto per portare a casa qualche trofeo: Tornatore, Garrone, Sorrentino, Moretti, Martone hanno avuto a disposizione budget consistenti, altri (Costanzo, Crialese, Amelio, Capuano, Corsicato) meno cospicuo, ma ottimamente gestito. Salvatores, Cappuccio, Soldini, le sorelle Comencini, Olmi, i fratelli Taviani, Virzì, soprattutto Bellocchio e buon ultimo MarcoTullio Giordana, hanno dato il loro meglio, ma tutto sembra buttato via. Tutti i registi che ho citato oggi sono fermi (persino Muccino, che pare in crisi d'idee), eccezion fatta per Garrone, mentre autori sorprendenti come RobertaTorre e Silvio Soldini, Davide Ferrario e Eros Puglielli sono pressochè oscurati dai circuiti di massa. Per il prossimo festival veneziano, infatti, l'unica carta è Emanule Crialese, che dovrebbe essere risarcito dello scippo del 2006, perpetrato ai suoi danni dal banalissimo Still life (a proposito, chi l'ha visto?...) A questo punto, una cinematografia che si rispetti dovrebbe far sentire la propria voce, anzichè esercitarsi nel tiro al bersaglio. Va qui aggiunto che persino a Venezia gli Usa hanno fatto man bassa (Sofia Coppola, Aronofsky, Ang Lee due volte) nell'ultimo quinquennio, avvicinandosi al nostro palmares, ma, per fortuna, i nostri 16 massimi riconoscimenti li tengono ancora a distanza (9 i loro Leoni d'Oro, 11 quelli ai cugini d'Oltralpe). L'alternativa, potrebbe essere quella di trovare nuovi talenti: ma quale produttore oggi può investire se i risultati sono sconfortanti? Il David di Donatello andrebbe assegnato ad emergenti, non ad autori affermati (a prescindere dall'età), ma si è costretti a ripiegare su Martone o Moretti se l'estero li ignora. Ed allora, ecco un proliferare di commedie, senza capo nè coda, che magari restituiscono al botteghino ciò che si è investito, ma tra un anno appariranno logore (chi rivede più "I laureati" di Pieraccioni, o i primi film di Aldo, Giovanni e Giacomo? E che fine ha fatto Marco Ponti? E chi ricorda FRancesco Nuti ?): siamo un popolo che dà il massimo nell'opera drammatica, la commedia all'italiana è, purtroppo, finita da un pezzo. Anche il buon Nanni se n'è accorto ( La stanza del figlio, Il Caimano, Habemus papam, ma anche opere come Caos calmo, che "è" un film di Moretti, non appaiono più scanzonate ed intelligenti, ma sconsolate e magnificenti), non i nostri produttori. In definitiva, la situazione appare più drammatica di quanto scriva, e la deriva è totale. Tempo fa parlai di un discorso avviato da altri ben più autorevoli del sottoscritto (Ghezzi, il compianto Kezich, Brunetta, Silvestri, Nepoti, Caprara, Castellano), che poneva le basi di questo "disconoscimento" (perchè i nostri film sono validi, eccome, solo non riconosciuti) nella gestione avventurosa del Centro Sperimentale (oggi Scuola Nazionale di Cinema), da Rossellini in poi: "si è teorizzato di un cinema che butti alle ortiche il lavoro dei padri, che colga l'ottica del divenire, rapendo il senso della realtà a partire dallo studio sul campo" (Rondi), ma ciò contrasta con la visione dell'industria. Il cinema, secondo Fellini "è nebuloso, perciò bisogna agirvi con rigore e metodo".  Ecco, il metodo: Martone, Corsicato, Sorrentino, Moretti, Luchetti, sono degli autodidatti, perchè sono "geni". Ma l'industria non vive di soli geni, di lampi: essa è un insieme di prodotti, dove trova posto il cinema di genere (ragione che ha esautorato Argento, immeritatamente, e Infascelli), il prodotto avventuroso, l'opera più impegnata. Se sforniamo 90-100 film l'anno, non dobbiamo avere la pretesa che siano tutti "geniali". E, tuttavia, essi sono tutti necessari: senza, non potremmo riconoscere gli Autori. Ai quali, onestamente, non possiamo più chiedere l'autoproduzione (e l'autopromozione, come fa Avati, ma il discorso va affrontato in altri post): se è esistito Pasolini, è anche perchè Bini ha venduto la casa, per finanziarlo.

E, nonostante tutto, le condizioni odierne non hanno cambiato granchè le cose: il digitale ha abbassato i costi, ma questi, in ogni caso, esistono (l'allestimento del set, la sarta, il catering, i costumi, il trucco, il direttore della fotografia, le maestranze tutte, sono irrinunciabili), e, nell'attesa che le sale si dotino di strumenti adeguati alla visione dell'HD, per il 75% degli impianti, il riversamento pelliculare è irrinunciabile. In definitiva: se i produttori degni di tale nome si affacciano sul mercato, si può riprendere la corsa ( un produttore è anche un "talent": scopre sceneggiatori, registi, attori). Altrimenti, con Cannes 2011, la corsa è finita.    

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