Turchia, 2008, durata: 100′
di Özcan Alper con Onur Saylak, Megi Koboladze
Film d’apertura al Med film festival e menzione speciale della giuria a Roma 2008, Premio Genziana d’oro al Trento FilmFestival 2009, Sonbahar del turco Özcan Alper, al suo primo lungometraggio, racconta l’epilogo triste di una vita giovane ma senza più speranza, quella di Yusuf, un giorno brillante studente di matematica e attivo nei movimenti libertari giovanili a Istanbul, e oggi di ritorno a casa, fra le gole dell’altopiano anatolico sopra il Mar Nero, dopo dieci anni di carcere duro a seguito di moti studenteschi stroncati da repressione feroce.
Il carcere lo ha distrutto, i polmoni sono malati e quello che resta è il bisogno dell’animale ferito che vuol tornare a morire nella sua tana.
La vecchia madre lo accoglie con dolcezza premurosa, lo circonda di quelle piccole attenzioni che solo le madri s’inventano, il passato irrompe nel sonno con flash back di manifestazioni, scontri, irruzioni di militari, ma il breve presente che gli resta è ormai fermo in quella vecchia casa povera, addossata alla montagna, dove si consuma un tempo antico, e la madre contadina si muove silenziosa fra le sue faccende, dove i vecchi libri di un tempo non hanno più nulla da dire e dove sembra addirittura strano che squilli un telefono o si veda lo schermo di un televisore.
Fuori è autunno e spesso nuvole basse coprono il fondo della vallata che Yusuf si ferma a guardare a lungo, fumando in silenzio fino all’attacco di tosse che lo costringe a spegnere.
Yusuf non racconta, neppure alla madre o all’amico di vecchie scorribande, naufragato anche lui in paese a fare il falegname e mai più tornato in città.
Il suo sguardo sul mondo è tutto in quegli occhi che guardano assorti e sembra che s’imbevano di quei colori, la vista di bambini che giocano lo trattiene per un attimo, sembra stia per sorridere, e poi c’è il mare, in fondo a quella banchina, quando scende in città.
Il mare irrompe nel film a poco a poco, con l’arrivo di Eka, ragazza madre georgiana, immigrata con visto in scadenza, prostituta per mantenere la figlia lontana, un viso smarrito di bambola dell’Est.
Un breve incontro, la loro è la vita di chi sa che non c’è più niente da fare se lo spirito è fiaccato come il corpo e se le trappole in cui vivi recidono ogni volta i tuoi sogni.
Di fronte a quel mare, sempre più grigio e urlante, Eka dirà a Yusuf: “Vorrei tagliare tutto alle mie spalle e partire per un viaggio con te”.
Ma è come dirlo al vento, sempre più freddo mentre si avvicina l’inverno che coprirà di neve la panchina su cui Yusuf si stendeva per dormire un po’, di giorno, mentre la madre lo guardava in silenzio e dopo gli portava il tè e gli chiedeva perché non prendeva moglie ora che era tornato e lei era vecchia e l’avrebbe voluto vedere felice prima di morire.
C’è, nel ritorno di Yussuf alle sue montagne, la stessa malinconia di Cahit de La sposa turca, quel volto riflesso nel finestrino dell’autobus che lo sta riportando sconfitto al paese nell’interno.
C’è anche per Eka un autobus, va verso la frontiera.
Una cinematografia, questa turca, capace di scrutare fino in fondo alla sofferenza con tocchi minimi, dicendo tanto della condizione umana con brevissimi suggerimenti, sfumati da sapienti tagli di scena, un montaggio guidato con mano sobria per restituire una poesia asciutta, sottotono, che la bellissima fotografia rende vibrante e raccolta, come le antiche nenie che accompagnano i morti.
Opere realizzate con pochi mezzi e tanta intelligenza, che riconciliano col cinema spesso aggredito dall’assalto congiunto del business internazionale e della privata prosopopea di chi pensa di riportare il Verbo sulla terra attraverso lo schermo.
Qui si tace, si vive e si muore da uomini e donne qualsiasi, ma quanta bellezza e quanta verità!
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Paola Di Giuseppe
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